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Un economista nel paese delle meraviglie

Un intervento di Olivier Blanchard ha ottenuto un grande successo mediatico perché sembra suggerire che il debito pubblico non è in fin dei conti un problema di cui preoccuparsi troppo. Ma si tratta di un’interpretazione del tutto fuorviante.

Il successo di una prolusione

La lezione magistrale tenuta da Olivier Blanchard, in qualità di presidente uscente, all’American Economic Association ha ottenuto un successo immediato. Blanchard ha suggerito che il costo sociale del deficit e del debito pubblico sia minore di quanto comunemente ritenuto. Nonostante l’argomentazione sia costruita con cura e si limiti a indicare la necessità di un dibattito più vivace sul tema, essa è stata subito interpretata come l’indicazione che il deficit e il debito non debbano essere considerati preoccupazioni chiave per i policy-maker (per esempio, il 23 maggio 2019 il Financial Times ha pubblicato un articolo intitolato “Top economist says Japan should learn to love budget deficits”). Blanchard è perfettamente a conoscenza dei limiti di questa conclusione, la quale ci riporta all’ingenua macroeconomia degli anni Sessanta quando, ignorando il vincolo di bilancio, il modello IS-LM dimostrava come una politica di espansione fiscale fosse essenzialmente non vincolata. Il successivo aumento del debito pubblico screditò, a ragion veduta, l’economia keynesiana. Oggi dopo anni di politiche di austerità pro-cicliche nella maggior parte delle economie avanzate, il messaggio riecheggia in un pozzo di frustrazioni e il suo successo è allarmante considerando gli alti livelli di debito pubblico di molti paesi.

Qui non si vuole criticare il contributo offerto da Blanchard in sé, ma si vogliono evidenziare e rafforzare alcune precisazioni, già contenute nell’intervento. Per fare ciò, considererò un ampio campione di paesi appartenenti all’Ocse, per esaminare se l’esperienza statunitense è da considerarsi unica.

La tesi di Blanchard e i suoi limiti

Quando il tasso di interesse sul debito pubblico è minore del tasso di crescita del Pil, il debito segue una traiettoria stabile, con un’implicazione importante: il rapporto debito/Pil tende a diminuire perché il prestito viene ammortizzato. Il risultato non è certamente nuovo. Il colpo di scena sta nel fatto che storicamente negli Usa il tasso d’interesse è stato spesso minore del tasso di crescita. Inoltre, le previsioni attuali stimano che questa situazione rimarrà tale, negli Usa e non solo. I governi non dovrebbero però rimanere imbambolati di fronte al proprio debito pubblico, ma potrebbero usare il deficit per stabilizzare l’economia mentre sta rallentando e intraprendere investimenti pubblici produttivi.

L’equazione che spiega come evolve il debito pubblico è la seguente:

B(t+1)–B(t)= (r(t)–g(t)) B(t)+ D(t)

dove B(t) è il debito pubblico alla fine del periodo tD(t) è il disavanzo primario nello stesso periodo, entrambi in proporzione al Pil; r(t) g(t) sono rispettivamente l’interesse nominale e il tasso di crescita nominale.

L’equazione rende chiaro come un benevolo disinteresse verso il debito abbia radici in alcune assunzioni: 

  1. r g è spesso un valore negativo. Blanchard afferma che in passato negli Stati Uniti questa è stata la norma piuttosto che l’eccezione;
  2. è probabile che r g rimanga negativo il più delle volte. Blanchard si appella all’ipotesi di stagnazione secolare;
  3. il disavanzo primario è indipendente da r g ed è sufficientemente piccolo da non superare il servizio del debito.

Blanchard non fa espressamente questa assunzione, ma ignora direttamente il deficit. Nelle sue simulazioni, di fatto, assume che il disavanzo primario sia uguale a zero e che rimarrà tale per un futuro indeterminato.

Le ipotesi di Blanchard non sono giustificate. Per mostrarlo, ho preso in esame i dati dal 1961 di alcuni paesi Ocse (Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Corea, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti). La scelta è giustificata dalla disponibilità dei dati, ma per diversi paesi dobbiamo comunque partire da anni successivi. I rapporti debito lordo/Pil sono forniti dalla banca dati sullo storico del debito del Fondo monetario internazionale (Fmi). I tassi di interesse a dieci anni vengono dall’Ocse e il Pil dalla Banca Mondiale. Ci sono quindi 895 osservazioni annue per 22 paesi.

Il differenziale r – g < 0 non è la norma

Le osservazioni con r – g < 0 rappresentano il 49,7 per cento del campione. I dettagli per paese sono mostrati nella figura 1. Negli Stati Uniti, che non sono nemmeno il paese con la più percentuale più alta, r – g < 0 si è verificato nel 56,1 per cento degli anni. Blanchard cita tre studi che esaminano il differenziale r – g a livello internazionale e le implicazioni per il debito pubblico, Paolo Mauro e Jan Zilinsky, Philip Barrett e Neil Mehrotra (2018). Ma secondo me i tre articoli non sono un sostegno all’affermazione che r – g < 0 sia la norma e che il benevolo disinteresse verso il debito sia giustificato.

Il differenziale medio per l’intero campione è dello 0,10 per cento, con un’ampia deviazione standard di 4,36.

Durante e dopo la crisi finanziaria globale, molte banche centrali hanno spinto i loro tassi di interesse fino al limite inferiore effettivo percepito, e sono ancora lì, quasi un decennio più tardi. Infatti, nel periodo che termina nel 2007, la percentuale di osservazioni dove r – g è minore di zero è del 47,9 per cento, leggermente inferiore. Il motivo è che anche la crescita nominale è diminuita, persino di più del tasso di interesse.

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Figura 1 – Percentuale degli anni in cui r – g < 0

Blanchard è più attento di me al tasso di interesse che utilizza. Fa due aggiustamenti apparentemente desiderabili, che io non posso fare nel mio insieme di osservazioni dei vari paesi. In primo luogo, Blanchard osserva che il tasso di interesse a un anno è di solito molto più basso rispetto al tasso decennale usato qui, il che spinge r – g verso l’alto. Il suo tasso di interesse è la media ponderata dei tassi di interesse a un anno e a dieci anni, con pesi calcolati per adeguarsi alla scadenza media del debito, che è variabile. L’importanza dell’adeguamento non è così ovvia come sembra. Il fatto che r – g < 0 alleggerisca il vincolo di bilancio dipende dal fatto che il debito esistente viene rinnovato quando scade in base alle necessità. I titoli di debito in scadenza sono sostituiti da strumenti di nuova creazione, fino a quando necessario. Per esempio, un titolo a un anno sarà sostituito n volte in n anni. Sotto l’assunzione della struttura a termine dei tassi d’interesse, un tasso d’interesse a n anni capitalizza n successivi tassi di interesse a un anno, e il tasso di interesse a n anni coglie correttamente il processo di rinnovo del debito. Il tasso che dovrebbe essere usato, quindi, è il tasso di interesse dei titoli che maturano alla fine dell’orizzonte temporale (che, in teoria, è infinito). Naturalmente, questo argomento ha due limiti: in primo luogo, i tassi di interesse a lungo termine sono capitalizzati in base alle aspettative dei futuri tassi di interesse a breve, che potrebbero rivelarsi errate. Di conseguenza, l’assunzione della struttura a termine potrebbe non riuscire a cogliere l’evoluzione reale del debito. In secondo luogo, l’ipotesi della struttura a termine, come già affermato, ignora la scadenza e i premi al rischio, il che spiega in gran parte il motivo per cui i tassi a lungo termine in genere superano quelli a breve. Tornerò su questo importante argomento.

Blanchard osserva correttamente che i rendimenti dei titoli privati sono tassati, il che fornisce gettito al governo o, allo stesso modo, riduce il costo degli interessi r. Sfruttando una caratteristica unica del codice fiscale statunitense – il fatto che le obbligazioni municipali AAA sono esenti dalle tasse federali, e quindi la differenza tra i loro tassi di interesse e quelli sui titoli federali, che sono invece tassati, fornisce una misura dell’aliquota fiscale effettiva – Blanchard può calcolare l’aliquota d’imposta effettiva, che sottrae da r. Questo contribuisce a rendere le situazioni in cui si verifica r – g < 0 più frequenti. Tuttavia, le entrate fiscali incidono sul saldo di bilancio e dovrebbero pertanto essere detratte dalle entrate pubbliche. Blanchard riconosce questo punto ma, come abbiamo visto e come vedremo, non tiene conto dell’evoluzione del deficit di bilancio. Il fatto che le entrate fiscali compaiano nell’espressione (r – g)B + D nell’equazione del debito è irrilevante se consideriamo il deficit di bilancio.

Il differenziale r – g è molto volatile

La deviazione standard di r – g è molto ampia. Statisticamente, questo significa che è impossibile fare inferenze sul fatto che r – g sia negativo o positivo come “norma”.

Un rapido sguardo alla figura 2, che mostra l’evoluzione di r – g (asse sinistro) e del rapporto debito/Pil (asse destro) nei paesi del campione, rivela che, in passato, nei paesi Ocse il segno di r – g ha subito oscillazioni, talvolta a frequenza relativamente bassa. Quando il differenziale r – g passa da negativo a positivo, il processo di accumulazione del debito passa da stabile a instabile. Se il debito è alto o se vi è un notevole disavanzo primario, il debito tende quindi ad aumentare rapidamente, poiché sia il servizio del debito che il saldo primario vanno nella stessa direzione. Consentire al saldo primario di andare in negativo ignorando il livello del debito quando r – g < 0 è pericoloso, in un mondo in cui i governi non sono in grado – o non vogliono – compensare tempestivamente le variazioni nel servizio del debito. Le preoccupazioni per la stabilità del debito sono altrettanto importanti negli anni buoni, quando r – g < 0, come lo sono in anni cattivi, quando r – g > 0, a meno che non siamo sicuri che r – g < 0 sia effettivamente la norma.

Le implicazioni della propensione a generare deficit

Ignorare l’evoluzione del saldo primario significa dare per scontato implicitamente l’indipendenza degli equilibri di bilancio dal servizio del debito. Questo ci ricorda subito dell’ipotesi del “deficit bias”. Una letteratura corposa, a partire da Alberto Alesina e Guido Tabellini (1990), Alberto Alesina e Allan Drazen (1991) e Jürgen von Hagen e Ian J. Harden (1995), mostra come i governi tendano a non prestare sufficiente attenzione alle conseguenze sul lungo periodo dei disavanzi di bilancio. Un governo incline a fare deficit stabilisce il disavanzo complessivo B(t+1)–B(t)  a un livello troppo alto, a prescindere dalle sue due componenti. Di conseguenza, quando r – g diventa negativo, il rapporto debito/Pil tende a diminuire, cosa che il governo può vedere come un’opportunità per aumentare il deficit. Successivamente, quando e se r – g diventa positivo, il governo potrebbe non riuscire a reagire abbastanza tempestivamente ed energicamente per scongiurare l’aumento del debito.

Non sono a conoscenza di un’analisi sistemica della relazione tra r – g e D, in entrambe le direzioni. Esiste una letteratura consistente sulla possibilità che grandi disavanzi o debiti pubblici possano far aumentare il tasso d’interesse, inclusi la scadenza e i premi al rischio. Alcuni autori hanno mostrato un effetto significativo (per esempio Thomas Laubach), anche se non guardano al differenziale d’interesse r – g. Seguendo Henning Bohn, esiste anche una vasta letteratura sulla reazione del deficit al debito, a dimostrazione che in genere gli esecutivi tagliano il disavanzo quando il debito sale, stabilizzando così il processo di accumulazione del debito pubblico. Tuttavia, i vasti aumenti di debito nell’ultimo decennio indicano che questo comportamento virtuoso non può essere dato per scontato, specialmente quando i bassi livelli di crescita peggiorano sia il servizio del debito sia il deficit primario attraverso una riduzione del gettito fiscale. Poiché r – g e D sono influenzati e variano a seguito di una grande varietà di eventi esterni, è difficile – ma estremamente utile – determinare se D si riduce, e di quanto, quando r – g passa da negativo a positivo.

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In mancanza di un’analisi del genere, può essere d’aiuto guardare ai dati. La figura 2 mostra che, in alcuni casi (Finlandia, Paesi Bassi e Spagna), il debito scende quasi esclusivamente quando r – g < 0, ma in molti altri casi non esiste un legame evidente. La media delle correlazioni tra paesi tra rt – gt e il deficit B(t+1)–B(t) è 0,332. Questo conferma che un differenziale di interesse in discesa aiuta a ridurre il rapporto debito/Pil, ma ciò implica anche che il debito aumenta in maniera preoccupante quando il differenziale sale.

Sulla base del campione, la tabella 1 indica cosa succede al debito quando il segno di r – g cambia. Il debito scende più frequentemente di quanto sale quando r – g < 0, ma per poco (il 50,3 per cento delle volte). Quando r – g > 0, aumenta invece più spesso (60,5 per cento). Questo dimostra che il bilancio primario ha importanza. A peggiorare le cose, come già da notato da Blanchard, le crisi che si auto-alimentano sono una seria minaccia. Se, per qualche ragione, i mercati interpretano un livello di debito elevato e/o consistenti disavanzi che perdurano nel tempo come un rischio di default sul debito, il tasso di interesse può salire velocemente e costringere a un brusco e costoso taglio del deficit oppure provocare lo scoppio di una vera e propria crisi, o anche entrambe le cose. È una lezione che ci arriva dalla crisi del debito sovrano negli stati europei e dalle instabilità in molti paesi, come è stato ben documentato (Carmen M. Reinhart & Kenneth S. Rogoff). In presenza di una propensione a produrre deficit, il rapporto debito/Pil può crescere anche quando r – g < 0 (circa la metà delle volte nel campione). Successivamente, quando il debito è alto e i mercati iniziano ad agitarsi, r – g diventa positivo e i governi reagiscono con l’opzione più immediata. Aumentano le tasse, cosa che spinge l’economia in recessione in maniera molto più profonda di come sarebbe stato se l’aggiustamento fosse stato operato attraverso tagli di spesa, in particolar modo di spesa per le pensioni (vedi anche Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi).

Tabella 1 – Proporzione delle variazioni di deficit in base al segno di r – g

I pericoli

Non c’è disaccordo sul fatto che l’uso controciclico della politica fiscale serva a migliorare il welfare e che l’accumulo di debito vada in direzione opposta. Sarebbe meraviglioso se questo scambio potesse essere eliminato con un differenziale di interesse sistematicamente negativo. Uno sguardo veloce ai dati, comunque, ci suggerisce che r – g < 0 non è la norma e che questa “congiunzione astrale” non riesce a ridurre sistematicamente il rapporto col debito. La tendenza a fare deficit porta a deficit primari eccessivi e a reazioni da parte dei governi tardive e incaute quando il segno di r – g passa da negativo a positivo. Inoltre, non esiste un motivo particolare per cui r – g si debba muovere convenientemente in maniera prociclica, ma questo merita indagini più dettagliate. Ancora più preoccupante, forse, è il fatto che r – g sia endogeno alla quantità di debito.

È vero che r – g è diventato negativo in molti paesi negli ultimi anni, ma la storia non sembra suggerire che questo durerà ancora a lungo. L’ipotesi di stagnazione secolare afferma che il passato non è una buona guida per il futuro, ma alla fine resta soltanto questo, un’ipotesi. Inoltre, anche se fosse vero, non c’è garanzia che il tasso di interesse possa essere in media inferiore al tasso di crescita ridotto ai bassi livelli di oggi. Il mondo della finanza potrebbe diventare pericoloso se i governi iniziassero a credere di vivere nel paese delle meraviglie in cui i vincoli di bilancio non contano. Blanchard è ben consapevole di questo e non va ritenuto responsabile per le interpretazioni fuorvianti del suo lavoro. Il mio intervento è solo un contributo alla discussione da lui auspicata.

Figura 2 – Debito pubblico e r – g nel campione di 22 paesi

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10 commenti

  1. Maurizio Sbrana

    Comunque Keynes non ha mai detto che si devono fare DEFICIT PERPETUI ….

  2. Paolo

    Se invece di r=tasso di interesse a dieci anni, venisse utilizzato, secondo me più correttamente, il rapporto r=interessi pagati/stock del debito, cambierebbe qualcosa sui valori di r-g?

  3. Marzia Barbera

    Sarebbe utile un’analisi altrettanto puntigliosa degli effetti dele politiche liberiste degli ultimi decenni, che, evidentemente non sono “ingenue” come quelle dei poveri keynesiani, e dei loro effetti sulla coesione sociale. A proposito, come si chiama questa variabile nel discorso mainsreming? Ah, dimenticavo! Non è affare dei professori di economia. Però , lo è dei governi, ai quali i medesimi professori continuano ad impartire lezioni (ovvio, condite da forrmule). Forse sarbbe il caso di cambiare registro (almeno registro discorsivo).

  4. MCS

    Complimenti all’autore e alla redazione. Ottimo articolo. Molto utile e chiaro

    • Paolo Lazzari

      A prescindere dalla completezza dell’articolo, mi domando quanto ci sia di Keynes nel modello IS-LM, quale, di conseguenza, economia keynesiana sia stata screditata e quanto sia keynesiano Blanchard stesso. E se fosse il tasso di investimento a determinare il tasso di interesse? E se fossero stati 30 anni di politiche neoliberiste a determinare la crisi in cui siamo?

  5. Piero

    Premetto che in quanto Keynesiano parto da un punto di vista opposto al vostro: è il liberismo globale che ha prima accelerato distruzione ceto medio ed oggi causato la emersione dei sovranismi, cioè dei suoi contestatori. Cmq: per me Blanchard non ha veramente cambiato idea. Semplicemente ora che non è Fmi è più libero, ed inoltre stà tentando di ricollocarsi magari come governatore Bce accoglibile anche dai paesi del Sud e dalla Francia dei Jilet.e della Le Pen.

  6. Un lettore

    L’equazione non è chiara: al primo membro c’è Bt+1-Bt, quindi i due Bt si elidono. Bisogna scriverla diversamente, (t+1) e t vanno scritti come pedici dato che riferiscono al tempo t e al tempo (t+1), come si evince dal resto dell’articolo. E’ un problema di font o di formattazione del testo nel sito. Spero lo correggano, non è una pecca da poco.

    • Henri Schmit

      Pur non essendo né ecco nonostante né matematico ho capito che nella formula era saltato il dislivello dei caratteri, peraltro evidenziato correttamente nella tabella. Non mi esprimo sul dibattito che articola concetti – quelli della formula – e le relazioni fra di loro estremamente interessanti, perché fondamentali.

  7. MrsSpm

    Il paese delle meraviglie ed il continente distratto​. I grafici suscitano domande solo in parte evase dall’articolo, o da commenti del tipo “il neoliberismo ha prodotto …”. Il neoliberismo è una religione diffusa e forte. I laici congeniti non sono mai particolarmente attratti dalle religioni. Viene tuttavia in mente dall’osservazione dei grafi, focalizzata sugli ultimi decenni, che i paesi europei che adottano l’euro abbiano (‘ad occhio’) più periodi con r-g positivo (male per il debito/pil) che periodi con r-g negativo. Non serve allora scomodare santi numi tutelari per domandarsi, pragmaticamente, se l”Euro(pa)’ sia una costruzione efficace (pensando si ad ‘r’, ma soprattutto a ‘g’) oppure se l’Europa di Maastricht (trattato discutibile e discusso) abbia problemi molto seri e non risolti da affrontare: ‘g’ è catastrofica soprattutto nelle regioni periferiche, tali anche prima, che vedono la distanza dalle regioni/paesi “centrali” inalterata (al meglio) o cresciuta (di norma), invece che ridotta. Maastricht non chiedeva agli stati di rispettare parametri di sviluppo territoriale e i religiosi liberisti sostenevano che la convergenza reale fosse ‘un processo spontaneo’. Alla prova dei fatti, la convergenza spontanea è un mito da sfatare (i religiosi possono avere opinioni diverse). Quale che sia la diagnosi, cambiare richiede un progetto che apprenda qualcosa dal passato. Le ultime elezioni hanno mostrato invece un dibattito inesistente sull’organizzazione istituzionale.

    • Henri Schmit

      L’euro garantisce, diciamo assicura, un r germanico (ambito da tutti, 25 anni fa) più lo spread; ai singoli paesi rimasti sovrani spetta fare le riforme (…) per favorire g. Se uno o più paesi rimangono indietro perché fanno fatica a comprendere questa logica, il loro compito, o ad implementare riforme accettate dal loro elettorato, allora saranno guai per tutti: per il paese e i suoi contribuenti che pagano r+spread con le tasse, ma anche tutti gli altri perché g si deprime, e marginalmente pure r s’impenna.

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