Un piccolo comune come Esino Lario e uno grande come Roma hanno un analogo problema di costi alti. Ma completamente diversa è la risposta. Il primo si sforza di coprire almeno le spese correnti. La soluzione della Capitale ha un solo nome: azzardo morale.
Storie parallele di due comuni italiani
In questi giorni si è parlato molto, e per ragioni opposte, di due comuni italiani: Esino Lario e Roma. Nel primo, di 747 anime, il sindaco, Pietro Pensa, ha messo in “vendita” diverse proprietà immobiliari e luoghi, “per poter disporre di nuove risorse economiche che ci consentano di proseguire nei progetti di sviluppo e innovazione”. Nel secondo, 2,9 milioni di abitanti, Virginia Raggi sembra aver ottenuto che lo stato si faccia interamente carico dei circa 12 miliardi di euro di debito già in parte scaricati sulla fiscalità generale con lo scorporo della gestione commissariale dal bilancio ordinario nel 2010.
A dispetto delle enormi e ovvie differenze, i due comuni si somigliano più di quanto si possa credere. La tabella 1 riporta alcuni indicatori dedotti dai bilanci relativi all’anno 2016 (qui e qui).
Tabella 1 – Alcuni indicatori sul bilancio di Roma ed Esino Lario (2016)
Se rapportata alla popolazione, la struttura del bilancio dei due comuni è – curiosamente – pressoché la stessa: la spesa corrente pro capite è di poco inferiore ai 2 mila euro, quella per il personale attorno ai 350 euro, le entrate tributarie attorno ai mille euro e il totale delle entrate correnti 2 mila euro (anche se i romani tendono a pagare un po’ meno tasse su base pro capite, pur avendo una spesa superiore e, di conseguenza, un diverso grado di copertura delle uscite correnti attraverso le entrate correnti).
Il risultato non è sorprendente, anzi: gli studi in materia sembrano indicare che il rapporto tra le dimensioni dei comuni e la spesa corrente segua una curva a U. Gli enti locali molto grandi e molto piccoli hanno generalmente livelli di spesa per abitante superiori a quelli degli enti di medie dimensioni.
Per esempio, Stefano Manestra, Giovanna Messina e Anna Peta (2018) hanno stimato la spesa corrente pro capite attorno ai mille euro annui per i comuni più piccoli, mentre nella fascia da 2 mila a 50 mila abitanti si scende a 500-600 euro e poi torna a crescere (figura 1). Questi dati non sono immediatamente confrontabili con quelli di Esino e Roma perché si riferiscono al 2013, ma consentono comunque di porre il comune lombardo nella fascia di quelli più piccoli e costosi, e la Capitale all’estremo opposto. Altri studi hanno raggiunto risultati analoghi (per esempio la Sose nel 2014 e la Ragioneria generale dello stato nel 2007).
Figura 1 – Spesa corrente pro capite e popolazione nei comuni italiani (2013)Fonte: Manestra, Messina e Peta (2018).
Due risposte molto diverse
Gli alti costi, in questo caso, non implicano necessariamente (o solamente) cattiva gestione. I piccoli comuni hanno spese pro capite superiori perché tecnologia e regolamentazione impongono costi fissi che è difficile spalmare su una popolazione ridotta. Le metropoli hanno il problema opposto: le economie di scala sono sovrastate dalle difficoltà di coordinamento, se non addirittura dalla confusione organizzativa. Per motivi diversi, insomma, Esino e Roma hanno problemi analoghi. Ma completamente differente è la risposta.
Il comune lariano si sforza di coprire, attraverso il gettito tributario, almeno le spese correnti. Per continuare a finanziare le sue attività, ha lanciato la provocatoria iniziativa della vendita (in realtà, nella maggior parte dei casi, sponsorizzazione) di diversi asset pubblici. Roma, invece, si rifiuta per ragioni ideologiche di provare a rendere più efficiente la propria spesa (trasporti, rifiuti) o di valorizzare il suo patrimonio (dalle partecipazioni societarie ai tanti beni che potrebbero essere dati in gestione) e cerca di cavarsela socializzando i disavanzi. Eppure, la soluzione ci sarebbe: se la giunta non è in grado di risanare il bilancio, l’ordinamento prevede la dichiarazione del dissesto. Senza pregiudicare l’erogazione dei servizi pubblici, i costi ricadrebbero in buona misura sui cittadini romani, lasciando i soli interessi passivi sulle spalle della fiscalità generale e procedendo all’alienazione dei beni potenzialmente cedibili per abbattere lo stock di debito.
Mentre quella di Esino è una strada responsabile per garantire ai cittadini il “lusso” di mantenere un comune di piccole dimensioni, la soluzione scelta per Roma ha un solo nome: azzardo morale, che è il modo tecnico di dire “sfondiamo il bilancio, tanto qualcun altro lo ripianerà”. Non è la prima volta (né Roma è la prima grande città a eludere le norme vigenti). Ma, proprio per questo, crediamo di essere facili profeti nel dire che non sarà neanche l’ultima.
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