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Reddito di cittadinanza: il punto dopo il decreto

Approvato il decreto che istituisce il reddito di cittadinanza. Bene la priorità data ai più deboli e il recupero della dimensione sociale della povertà. Tra gli aspetti negativi, c’è l’insistenza sul simbolo dei 780 euro e la fretta a fini elettorali.

Dagli anni Ottanta al reddito di cittadinanza

Non si può giudicare il reddito di cittadinanza senza considerare la storia del nostro paese. La richiesta di un adeguato investimento pubblico contro la povertà è stata avanzata, da più parti, a cominciare dagli anni Ottanta, ma si è a lungo scontrata con il profondo disinteresse delle forze politiche di ogni colore verso i più deboli. Solo nel 2017, con l’introduzione del reddito d’inclusione, l’allora governo di centrosinistra realizzò un primo, seppur contenuto, stanziamento. Ora il reddito di cittadinanza incrementa i fondi per il contrasto della povertà di 6 miliardi di euro annui, passando dai 2 già previsti per il Rei a 8 totali. I 6 miliardi addizionali sono il più ampio trasferimento di risorse pubbliche a favore dei poveri nella storia d’Italia.

Gli inclusi e gli esclusi

Si stima che beneficeranno del reddito di cittadinanza circa 1,3 milioni di famiglie, quasi il triplo delle 460 mila che hanno ricevuto il Rei nel 2018. Tuttavia, siamo sempre sotto gli 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta nel nostro paese. Rimane poi da verificare l’ipotesi che, a causa di diverse storture nel disegno della misura, la ricevano anche alcuni nuclei che non si trovano in condizioni di povertà.

Quanto agli esclusi, si possono individuare tre principali categorie. Primo, alcuni stranieri, discriminati dall’introduzione del criterio dei 10 anni di residenza per accedere alla misura. Secondo, vari nuclei familiari del Nord, a causa di soglie di accesso uniche in un pese con notevoli differenze territoriali nel costo della vita. Terzo, diverse famiglie con quattro o più componenti, come esito della decisione di privilegiare quelle di piccole dimensioni (a partire dai nuclei di una sola persona).

Il simbolo prima di tutto

780 euro mensili per una persona sola priva di risorse economiche coincidono con la soglia di povertà relativa contenuta nell’ipotesi originaria del reddito di cittadinanza, che costava 17 miliardi annui e si rivolgeva a 10 milioni di individui. Poiché questa cifra è diventata un simbolo del M5s, si è deciso di mantenerla anche nella versione finale, con minori finanziamenti (8 miliardi rispetto a 17) e una platea più ridotta (poveri assoluti e non relativi). La conseguenza è che si dà troppo ai nuclei di piccole dimensioni, innanzitutto i single, e relativamente poco a quelli con più componenti.

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La distribuzione dei maggiori fondi disponibili risulta, dunque, iniqua: l’importo medio dei single aumenta del 102 per cento rispetto al Rei, mentre al crescere della numerosità familiare l’incremento si assottiglia, sino ad arrivare a +40 per cento per i nuclei di 5 e più componenti. Non stupisce, dunque, che il reddito di cittadinanza sia più alto della soglia di povertà assoluta per molte famiglie sino a 3 componenti (soprattutto nel Meridione, dato l’utilizzo di una soglia unica nazionale) e sempre inferiore per quelle con almeno 4 membri. Inoltre, l’Ufficio parlamentare di bilancio segnala che, per le persone sole, il trasferimento è superiore ai valori medi di analoghe misure in molti paesi europei, mentre per le famiglie con due o più figli è inferiore.

Il quadro delineato penalizza le famiglie con figli – dove la povertà è particolarmente diffusa, trascurando così l’obiettivo di ridurne la trasmissione tra le generazioni – e crea un particolare disincentivo all’offerta di lavoro dei componenti di nuclei ridotti, innanzitutto i single.

L’obiettivo occupazionale non è più predominante

Sino a qualche mese fa il progetto del governo era un ibrido: il reddito di cittadinanza era una politica contro la povertà nei beneficiari, ma una politica contro la disoccupazione negli interventi previsti. Il positivo investimento nel rafforzamento dei centri per l’impiego si traduceva, infatti, nel prevedere quasi esclusivamente interventi d’inclusione lavorativa, relegando ai margini i percorsi d’inclusione sociale (di responsabilità dei comuni). Non si riconosceva così la natura sfaccettata e multidimensionale della povertà, come invece faceva il Rei.

Il governo ha però modificato la propria impostazione. Il testo finale del decreto, infatti, assegna un ruolo paritario ai percorsi di inclusione lavorativa e a quelli di inclusione sociale, recuperando così una posizione di rilievo per i comuni. Il reddito di cittadinanza, dunque, è diventato una misura che riconosce i molteplici volti della povertà e prevede, di conseguenza, un articolato insieme d’interventi. Inoltre, l’organizzazione dei percorsi di inclusione sociale di titolarità comunale è la stessa prevista dal Rei: non si disperde così il lavoro compiuto sinora a livello locale con quella misura.

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Si registra, però, un peggioramento nel coordinamento tra i soggetti della rete territoriale. Infatti, mentre il Rei prevedeva precise modalità di raccordo tra comuni e centri per l’impiego, il reddito disegna un sistema dei servizi estremamente frammentato, rendendo complicato il collegamento tra i diversi attori nella fase operativa.

Le conseguenze delle elezioni europee

Il reddito di cittadinanza è stato introdotto con una velocità eccessiva, per un preciso scopo: raggiungere il maggior numero di beneficiari nel più breve tempo possibile, sperando di ricavarne consensi nelle elezioni europee di maggio.

Il governo non ha, però, considerato un punto decisivo, ben noto a chi lavora nei territori: la costruzione di risposte in grado di sostenere le persone in difficoltà richiede tempo. Il reddito entra in vigore senza che siano stati affrontati numerosi nodi operativi – ad esempio la predisposizione dei sistemi informativi – e mentre il significato di varie parti del decreto non è ancora chiaro a tanti tra i soggetti chiamati ad attuarlo.

Sarebbero state preferibili una partenza meno affrettata e la previsione di un ampliamento graduale dell’utenza, distribuito su più annualità, così da assicurare ai servizi locali di welfare il tempo necessario per rinforzarsi, monitorando il percorso realizzativo e intervenendo dove necessario per correggerlo. La storica carenza di servizi di questo tipo nel nostro paese richiede non solo maggiori finanziamenti dedicati – oggi disponibili – ma anche un lasso di tempo adeguato per potenziarli in modo consono. Nei prossimi mesi, dunque, una misura dichiaratamente focalizzata sull’inclusione rischia di risolversi, per numerosi beneficiari, in una pura distribuzione a pioggia di contributi economici.

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  1. gerardo coppola

    Lo trovo un articolo molto interessante e chiaro. Rimane solo un po’ vago nella parte finale. Molto pragmatico nella illustrazione delle misure e degli obiettivi ed evanescente nei nodi irrisolti. Complimenti.

  2. Asterix

    Vorrei fare alcune precisazioni ed un ringraziamento al redattore dell’articolo.
    Primo: il rdc è di 500 euro più eventuali contributi per affitto casa che poosono arrivare a 280 euro o contributi per spese interessi mutuo. Quindi è stata abbandonata da tempo la soglia simbolo di 780 però per una mirabile coincidenza di interessi fra chi è a favore e chi è contrario si tende a gonfiare il dato.
    Secondo: le c.d. discriminazioni sull’anzianita’ minima di residenza esistono anche in altri Paesi (vedi Germania) e rispondono alla finalità di non vedersi sommersi dagli stranieri che si trasferiscono per fruire del beneficio.
    Terzo: ipotizzare diversi criteri di accesso su base territoriale ci porterebbe al successivo problema.. Quale territorio!? La regione? La provincia? il comune? il quartiere? Perché come ha evidenziato la vicenda di Torre Maura a Roma all’interno della stessa città ci sono zone ricche e povere. Devo dare un rdc a chi povero vive in zone dove il costo della vita è maggiore? Le do’ una notizia i veri poveri non vivono li..
    Premesso queste precisazioni doverose per onestà la ringrazio perché mi ha fatto capire che il rdc non è stato ancora erogato. La misura non è partita.. Quindi quando leggo sui giornali che il Pil non incrementato per colpa di una misura che non è entrata ancora in vigore è una Fake news.. Di questo la ringrazio infinitamente.

    • Gaetano Proto

      Vero, per un singolo la quota di RdC che non rappresenta un rimborso per l’affitto è di 500 euro al mese, che diventano però 630 se si tratta di pensione di cittadinanza. Inoltre, quasi il 45% delle famiglie in povertà assoluta abita in una casa in affitto (due volte e mezzo rispetto al totale delle famiglie). Nei fatti quindi in molti casi il RdC per un singolo eccederà i 500 euro al mese. Riguardo al requisito minimo di residenza, non si contesta la sua esistenza ma la sua misura: per esempio, in Germania è di 5 anni, pari al minimo previsto per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo. C’è un precedente: la sentenza 168/2014 della Corte costituzionale ha bocciato una legge della Valle d’Aosta che imponeva la residenza da almeno 8 anni per accedere alle case popolari, causando “un’irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell’Unione sia nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo”. Si parla in questi giorni di una crescita programmatica ridotta allo 0,3%-0,4% dal prossimo DEF, includendo gli effetti del “decreto crescita” (quindi anche del RdC), contro l’1% posto alla base della Legge di Bilancio solo 4 mesi fa. Il problema è che nonostante molti segnali convergenti la stagnazione in corso non era stata prevista: i provvedimenti a cui si è voluta dare assoluta priorità non saranno in grado di contrastarla in modo efficace, raggiungendo l’obiettivo di crescita che governo e Parlamento si erano posti.

      • Asterix

        Credo che la sentenza della Corte costituzionale non sia applicabile al caso concreto posto che verteva sulla compatibilità della legge di una regione autonoma con una direttiva europea in materia di accesso all’edilizia residenziale pubblica da parte dei cittadini Ue e non sull’accesso a misure di sostegno alla povertà.
        Piuttosto concordo con Lei che le modifiche apportate in sede di conversione al decreto legge potrebbero aver introdotto un profilo di incostituzionalità della disciplina nella parte in cui chiede “cumulativamente” il requisito di 10 anni di residenza in Italia, anche ai cittadini UE in possesso di diritto di soggiorno o diritto di soggiorno permanente ed ai cittadini extra UE in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Tale ultimo requisito, nella versione originale del DL che avevo visto, veniva richiesto, in via residuale, solo ai soggetti diversi da altri cittadini UE o da cittadini extra UE in possesso del permesso di soggiorno UE di lungo periodo.
        Dubito che tali norme siano compatibili con la Direttiva UE.

  3. Mohamed Mahmoud

    Sia l’uniformità dell’importo sull’intero territorio nazionale, che l’aiuto proporzionalmente maggiore ai single rispetto alle famiglie numerose (già abbondantemente aiutate in ogni ambito nel nome del supremo interesse del minore), che l’esclusione degli stranieri soggiornanti da meno di 10 anni (che in quanto tali possiedono altre cittadinanze di altri Stati deputati al loro sostentamento in caso di necessità e che comunque esclude il vincolo di permanenza in Italia per i titolari di status di rifugiato) mi sembrano caratteristiche positive del provvedimento. Non capisco bene quale potenziamento sia o debba essere previsto per i percorsi, so defined, di “inclusione sociale” che non contempli la ricerca di lavoro. Sarebbe molto grave destinare altre risorse sottratte alla parte produttiva del Paese per destinarla ad altri assistenti sociali.

    • Gaetano Proto

      Per quanto riguarda i rifugiati, non sono affatto esclusi dal requisito dei 10 anni di residenza (peraltro incostituzionale alla luce di una recente sentenza della Corte cost., vedi commento più sotto), ma solo dalla presentazione della certificazione aggiuntiva in merito a reddito, patrimonio e composizione del nucleo familiare nel Paese di origine, per l’ovvio motivo che lo Stato da cui sono dovuti fuggire non gliela rilascerebbe mai… Per quanto riguarda i minori, è noto che le famiglie numerose hanno una probabilità di essere povere (comunque misurata) decisamente superiore rispetto a quelle di un componente. Secondo la scala di equivalenza (i coefficienti di conversione della condizione delle famiglie con più componenti a quella di un singolo) creata appositamente per il RdC, per esempio, una famiglia di due genitori e tre figli minorenni (valore della scala RdC: 1+0,4+[0,2*3]= 2) equivale solo a due famiglie di un componente, come se i due adulti non si fossero mai incontrati e non avessero messo al mondo ben tre figli: questa evidente sottovalutazione contraddice l’obiettivo dichiarato di “abolire la povertà”. Oltretutto, il valore massimo del contributo per l’affitto (280 euro al mese) o per il mutuo (150 euro) è escluso dall’applicazione della scala di equivalenza, quindi per quella quota del RdC una famiglia di due genitori e tre figli minorenni equivale addirittura a una sola famiglia di un componente!

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