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Giù gli investimenti pubblici, ma è colpa di quali regole?*

Sul banco degli imputati per il calo degli investimenti pubblici c’è il Codice degli appalti, ora modificato di nuovo dopo le riforme del 2016 e 2017. I dati su bandi e importi dei lavori mostrano però un sostanziale recupero dopo il periodo della crisi.

Appalti in progressivo recupero

Il decreto-legge “sblocca-cantieri”, approvato “salvo intese”, contiene numerose modifiche al Codice dei contratti pubblici. C’è la stabilizzazione delle deroghe transitorie introdotte dalla legge di bilancio 2019 sugli appalti di lavori sotto i 350 mila euro (articolo 1, comma 912, legge n. 145/2018), ma non mancano proposte ancora più radicali per la liberalizzazione generalizzata di quelli sotto un milione di euro e per l’estrema semplificazione di quelli sotto i 5 milioni di euro.

L’assunzione di partenza è qui che l’aumento della discrezionalità della committenza pubblica possa far crescere l’impiego degli stanziamenti posti in bilancio e sistematicamente sotto-utilizzati, e sia dunque una risposta all’attuale fase (si spera breve) di stagnazione/recessione. Si sottovalutano, però, gli effetti negativi su concorrenza e trasparenza e su altre inaccettabili “patologie”.

Le rilevazioni sugli appalti di lavori mostrano che bandi e importi sono fortemente diminuiti dal 2009 al 2013, in coincidenza con la doppia recessione registrata in quegli anni. Dopo quel periodo hanno invece ripreso a crescere, con una contenuta caduta nel 2016 con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti, e non sembrano aver risentito del decreto “correttivo” del 2017. Anzi nel 2018, sono tornati quasi al livello pre-crisi del 2008 per numero di bandi (23.096) e quasi al livello del 2011 per gli importi (25 miliardi di euro). L’andamento degli appalti fino a un milione di euro è simile: nel 2018 si sono toccati i livelli del 2008 per i bandi, mentre gli importi risultano ancora inferiori a quella soglia (-1,5 miliardi), ma più elevati rispetto a tutto il resto del periodo. Cambiamenti rilevanti sono semmai avvenuti nell’incidenza sugli appalti complessivi, passati dall’83,7 all’87,2 per cento nei bandi e dal 19,2 al 16,4 per cento negli importi, frutto di una già consolidata tendenza alla frammentazione avviata col precedente Codice dei contratti pubblici e rafforzata col nuovo.

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Correttivi sulla base degli obiettivi

Dai dati sembra dunque che gli appalti di lavori siano avviati ormai su un percorso di progressivo recupero. Eppure, ci si accinge a modificare di nuovo il Codice dei contratti pubblici, sia con interventi straordinari e urgenti (uno o più decreti-legge), sia con una revisione complessiva (delega legislativa). I motivi per effettuarli sono fondati, sia sul piano congiunturale (per esempio, calo della spesa per opere pubbliche, ritardi e blocchi in fase progettuale e di cantiere), sia su quello strutturale (per esempio, incompletezza del nuovo quadro regolatorio, numerose e rilevanti osservazioni della Commissione europea sul recepimento delle direttive), ma sarebbe opportuno individuare misure correttive efficaci in base alle diverse finalità.

Figura 1

Fonte: Elaborazioni su dati Ance (Associazione nazionale costruttori edili) – Osservatorio congiunturale (vari anni).

Se l’obiettivo è quello di accelerare e aumentare la spesa, una “liberalizzazione” degli appalti minori sembrerebbe la misura meno appropriata e, tantomeno, urgente. La dimensione finanziaria è limitata (4,1 miliardi nel 2018) e la spinta a frammentare gli appalti entro un milione di euro non solo avrebbe effetti poco rilevanti, ma soprattutto si potrebbero generare fenomeni di ulteriore “chiusura” dei mercati locali, conseguente scadimento delle prestazioni, con aspetti anche di rilevanza penale.

I dati confermano che per incrementare in termini potenziali e reali la spesa per opere pubbliche bisogna agire soprattutto a monte e a valle dei bandi di gara: a livello tecnico-amministrativo e decisionale (specie se si impiegano risorse già programmate e certe, come nei contratti di programma Rfi e Anas) e a livello attuativo (blocchi per contenziosi in fase di gara e di esecuzione, crisi d’impresa o altro). Vanno però identificate misure coerenti, anche di tipo commissariale, ma utilizzando il “modello” più efficace e funzionale per il caso specifico. Il nostro paese ha (purtroppo) sperimentato molti modelli commissariali (dai semplici commissari ad acta a quelli con poteri “quasi assoluti”); ma, pur senza escluderne nessuno a priori, vanno evitate le generalizzazioni. È più utile un intervento su casi concreti e, soprattutto, l’impegno e la competenza di strutture specificamente dedicate a individuare e attuare le soluzioni migliori.

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*Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono l’istituzione di appartenenza. 

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  1. Savino

    L’incompetenza e l’incapacità decisionale non si possono sostituire, nè barattare con meno regole. Il problema che tiene bloccata l’Italia non è tanto l’eccesso di regole (cui non corrisponde esattamente la propensione alla legalità dei soggetti interessati), ma il difetto di classi dirigenti e di responsabilità. I correttivi da apportare, quindi, riguardano, più che gli elementi oggettivi, le persone cui assegnare doveri e compiti di governance. In questa situazione pietosa, abbiamo l’obbligo e il dovere di fare delle generalizzazioni e di evitare che tutti gli autoreferenziali si candidino puntualmente a fare tutto lo scibile, cominciando a realizzare un pò di selezione e coinvolgendo i migliori che, per fortuna, ancora esistono, ma, attualmente, più sono bravi e indipendenti e più sono marginalizzati.

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