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Quanto lavoro sprecato

Nel 2018, gli occupati hanno finalmente raggiunto i livelli pre-crisi. Ma dietro a questo traguardo ci sono tanti lavoratori part-time, perlopiù involontari. Una situazione frustrante per chi è disposto a lavorare a tempo pieno e uno spreco per il sistema produttivo.

Il 2018 del mercato del lavoro

Pil in discesa e occupazione in rallentamento: così si è chiuso il 2018 dell’economia italiana. E il 2019 non si prospetta poi tanto meglio, anzi. Sembra infatti che il mercato del lavoro inizi a risentire effettivamente della stagnazione verso cui si sta dirigendo l’Italia. I dati appena usciti sulla stima degli occupati e disoccupati in febbraio segnalano un peggioramento, con 44 mila lavoratori dipendenti in meno e 34 mila disoccupati in più. E sarà improbabile osservare un’inversione di tendenza nei prossimi mesi, se anche l’Ocse mette in allerta l’Italia con nuove stime (negative) sul Pil.

Anche guardando a dati meno congiunturali, come quelli del rapporto Istat 2018 sul mercato del lavoro, già nell’ultimo trimestre dello scorso anno l’occupazione è diminuita dello 0,2 per cento e la disoccupazione è aumentata del 3,3 per cento rispetto al trimestre precedente.

Uno sguardo alle variazioni tendenziali

Per avere un’idea più di lungo periodo è bene però concentrarsi sulle dinamiche tendenziali, quelle che considerano le variazioni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Sono buone le notizie del quarto trimestre 2018 sia sul fronte dell’occupazione (+0,4 per cento rispetto allo stesso periodo del 2017) che su quello della disoccupazione (-3,6). Protagonisti della diminuzione sono stati non solo i disoccupati di breve periodo, ma anche quelli senza un lavoro da più di un anno (-0,5 per cento). Questa categoria è solitamente considerata quella più a rischio: all’aumentare del tempo passato senza un’occupazione diminuiscono esponenzialmente le probabilità di trovarne un’altra. Il fatto che il mercato del lavoro sia in parte in grado di assorbire questo tipo di lavoratori può essere interpretato come un buon segno di ripresa.

In linea con i trimestri precedenti, anche il numero degli inattivi cala (-0,8 per cento). È giusto fare attenzione anche al numero degli scoraggiati, gli 1,5 milioni di persone che sono usciti dalla forza lavoro perché ritenevano che non fosse più possibile trovare un’occupazione. Costituiscono una buona parte degli inattivi, circa l’11 per cento, e rispetto al quarto trimestre 2017 sono diminuiti dell’8,7 per cento.

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Più lavoratori sì, ma per meno tempo

Visti i buoni segnali, viene spontanea una domanda: ma il mercato del lavoro è finalmente tornato ai livelli pre-crisi? Sì e no.

Sì perché gli occupati sono oggi 22,5 milioni e all’inizio del 2008 erano 22,6 (figura 1). Inoltre, anche se il numero dei disoccupati resta ben superiore ai livelli pre-crisi, la costante diminuzione del numero degli inattivi e la loro conseguente entrata nella forza lavoro potrebbe aver influito sull’aumento delle persone in cerca di un’occupazione.

Figura 1 – Occupati, disoccupati e inattivi in migliaia

Fonte: Il mercato del lavoro – Istat, marzo 2018

Tuttavia, la composizione degli occupati è cambiata nel tempo: solo i lavoratori ultracinquantenni sono riusciti a raggiungere e superare ampiamente i livelli occupazionali pre-crisi. Per i più giovani invece la situazione è più critica: gli occupati under 35 sono nell’ultimo trimestre del 2017 ancora il 28 per cento in meno rispetto al primo del 2008, e quelli della fascia 35-50 il 9. Infatti, come si nota dalla figura 2, l’aumento degli occupati dal 2014 in poi è principalmente guidato dall’aumento dei lavoratori over 50. È una prima ombra della ripresa dell’occupazione, dovuta anche all’invecchiamento generale della popolazione. Un risultato che è preoccupante in termini di competenze fisiche e mentali che questa forza lavoro con età media che avanza può portare al mercato del lavoro italiano (già poco produttivo).

Figura 2 – Occupati per classi di età, variazioni tendenziali assolute in migliaia di unità

Fonte: Il mercato del lavoro – Istat, marzo 2018

E ora arriviamo al secondo aspetto negativo di questa crescita dell’occupazione. Il dato sul numero degli occupati non basta infatti a valutare l’effettivo apporto del fattore lavoro al sistema produttivo, che è invece misurato dalle ore lavorate complessivamente. Nelle statistiche Istat viene considerato occupato anche chi ha svolto una sola ora di lavoro nella settimana di riferimento della rilevazione. Tuttavia, in termini di contributo alla produzione, fa differenza se si creano posizioni lavorative a tempo pieno o a orario ridotto.

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Dalla figura 3 si può vedere che le ore lavorate sono mediamente in aumento dal quarto trimestre del 2013, momento di minimo dal 2008. Rispetto al 2017, il monte ore complessivo del 2018 conta un +382 milioni (+0,9 per cento). Tuttavia, le ore lavorate sono ancora inferiori rispetto ai livelli pre-crisi. Nell’ultimo trimestre del 2018 mancano all’appello oltre 630 milioni di ore rispetto al primo trimestre del 2008 (-5,5 per cento) e a livello annuale siamo ancora oltre -2 miliardi (-4,7 per cento).

Figura 3 – Ore lavorate

Fonte: Conti e aggregati economici trimestrali, Istat

Se le ore lavorate non sono ancora tornate ai livelli pre-crisi, ma gli occupati sì, viene da pensare che le posizioni lavorative create non siano tutte a tempo pieno. Ed è proprio così: l’Istat certifica nel rapporto sul mercato del lavoro un aumento piuttosto significativo delle posizioni a tempo parziale. In particolare, la crescita di quest’ultimo tipo di contratto è legata quasi esclusivamente all’aumento del part-time involontario, ossia imposto dal datore di lavoro a dipendenti che sarebbero disposti anche a lavorare a tempo pieno. Queste posizioni hanno un’incidenza del 64,4 per cento sul totale dei lavoratori a tempo parziale e del 12 per cento sugli occupati complessivi.

I dati del 2018, quindi, rappresentano un mercato del lavoro profondamente cambiato rispetto a prima della crisi, invecchiato e con un contributo al sistema produttivo molto minore. E che ha arrestato la sua ripresa ancor prima di tornare ai livelli del 2008. Infatti, per quanto gli ultimi dati mensili non siano pienamente indicativi, potrebbero però essere un segnale che la recessione inizia a colpire anche il lavoro.

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11 commenti

  1. Savino

    Il pregiudizio verso i giovani è una costante che pagheremo molto cara. Diffiderei da chi sceglie l’esperienza, perchè essa è solo una somma di errori del passato. La limpidezza dei nostri giovani è, invece, rimasto tutto quello che abbiamo e che possiamo investire, mentre la crisi è causata dall’ingordigia, dalla corruzione e dall’egoismo degli adulti.

    • Mohamed Mahmoud

      I giovani in quanto tali non vanno additati ma nemmeno idolatrati. Anche le stesse autrici cadono nella trappola del “competenze fisiche e mentali che questa forza lavoro con età media che avanza può portare al mercato del lavoro italiano (già poco produttivo)”. La produttività è inversamente proporzionale alla giovinezza. Un titolare di studio ultrasettantenne vede una pratica di striscio e capisce ciò di cui c’è bisogno, un intelligente e prestante ragazzotto alle prime armi, ma anche nel primo decennio di carriera, ci perde molto più tempo, con qualsiasi app la visualizzi. Interessante il confronto delle ore lavorate in vece del numero di occupati, ma ho una domanda: ci si riferisce a dati reali o a dati dichiarati? Ormai il part time forzato è spesso forzato solo nell’entità del corrisposto in regola, mentre il lavorato efettivo è di molto superiore. Questo si nota soprattutto con gli stranieri, molti più del 2008 su suolo italico e nel mercato del lavoro, che necessitano (necessitavano, soprattutto, pre decreto sicurezza) di un formale riconoscimento lavorativo per non perdere diritti. Tipo un contratto da 4 ore la settimana. Quando ovviamente ne lavoravano 50.

      • Savino

        In Italia abbiamo proprio una mentalità rivolta al passato e non al futuro. Facciamo attenzione ad esprimerci in certi termini, perchè, con la nostra dabbenaggine stiamo infettando l’economia mondiale.

  2. Michele

    La deflazione salariale molto attivamente cercata dagli inizi degli anni 90 da i suoi frutti: occupazione di bassa qualità, crescita ridotta al lumicino, produttività stagnante. In due parole: il paese in declino da più di 10 anni. Di tutto ciò dobbiamo ringraziare i governi di FI, PD e Lega.

    • Savino

      Piuttosto, non sappiamo dare risposte concrete alla modernità del mondo del lavoro, che è un dato di fatto, perchè condizionati dall’egoismo. C’è una fortissima diseguaglianza generazionale tra adulti, che sono iperprotetti da un sindacato ottuso ed obsoleto, e giovani che non hanno l’ombrello quando piove e i guanti quando fa freddo, venendo sottomessi, data la loro fragilità alle brutalità e alle storture del mercato del lavoro.

      • Michele

        Nella “modernità del mondo del lavoro” c’è molto di antico: perdita di diritti, riduzione degli stipendi, spostamento del rischio di impresa sui lavoratori. Nulla di nuovo. Cosa hanno fatto i “giovani” per invertire questo trend in corso da più di 20 anni? Pochissimo o nulla. Si sono fatti irretire dal mito dell’individualismo, tutti imprenditori di se stessi: tutti impoveriti. Quale rinnovamento hanno portato nei sindacati? Quale solidarietà hanno dimostrato tra loro stessi? Le conquiste sociali – mai gratis ma frutto di sacrifici e duri contenziosi – non sono garantite per sempre. Generazione dopo generazione devono essere riaffermate. Da 20/30 anni a questa parte invece – nel mondo e in Italia in modo particolare – si è assistito a una acquiescenza crescente dei più deboli e giovani verso chi – con suadenti parole – li stava raggirando.

        • Savino

          Allora teniamoci i soliti soloni che se ne stanno al caldo d’inverno e al fresco d’estate. Ne farà tanta di strada l’Italia!

  3. Vittorio

    Lo stato dovrebbe tornare ad assumere insegnanti, medici, personale della pubblica amministrazione, creando occupazione di qualità e a lungo termine, selezionata tramite concorso pubblico, il quale fino ad adesso sembra la forma più imparziale di selezione.
    Purtroppo contrariamente a quanto si pensi gli occupati nel settore pubblico sono inferiori rispetto alla media europea e assumerne di nuovi potrebbe cambiare in meglio questi numeri, dando nuovo ossigeno alla classe media. Infatti politiche di incentivo all’occupazione, vedi per esempio i vari sgravi dati alle imprese dei governi precedenti non hanno prodotto risultati significativi.

  4. Pietro

    si tiene conto -e come- di quanti escono dal totale dei disoccupati perchè diventano “imprenditori di se stessi”?

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