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Quarant’anni di finanziamenti al sistema sanitario

Com’è cambiato in quarant’anni il finanziamento del Servizio sanitario nazionale? Dalla parafiscalità si è passati alla fiscalità generale, è cresciuto il ruolo delle regioni e l’onere si è spostato dalle imprese alle famiglie. La costante sono i deficit.

Quarant’anni e quattro tendenze

All’inizio, nel 1980, costava solo 9,3 miliardi di eurolire e gravava sul Pil per il 4,7 per cento; oggi costa 117 miliardi di euro e pesa per il 6,8 per cento sul Pil. Il Servizio sanitario nazionale (Ssn) ha compiuto 40 anni lo scorso dicembre (L 833/78) e da allora molte cose sono successe.
Sul piano finanziario sono quattro le tendenze emerse: (i) il passaggio dalla parafiscalità alla fiscalità generale; (ii) il crescente ruolo fiscale delle regioni; (iii) un forte spostamento dell’onere dalle imprese alle famiglie; (iv) il costante finanziamento in deficit (vedi tabella 1 e figura 1).
Fino al 1978 la sanità pubblica era organizzata sul modello delle assicurazioni sociali “categoriali” (come le casse mutue malattia per i lavoratori dipendenti, gli statali, i lavoratori autonomi), dove il diritto alle prestazioni scaturiva da prelievi sulla busta paga e da contributi dei datori di lavoro. Solo i lavoratori attivi o in pensione e i loro familiari ne avevano diritto; non potevano accedervi i disoccupati o i poveri, come invece accade oggi con un sistema universalistico. Il sistema mutualistico andò in crisi e accusò il primo deficit – e il primo intervento dello stato a ripiano – nel 1966. Nel 1983, alla liquidazione dei circa 300 enti mutualistici, lo stato era intervenuto per un totale di 6,5 miliardi di eurolire (48,7 miliardi attualizzati). Furono anche ragioni finanziarie a richiedere un cambio di sistema.

Le imposte regionali

Nonostante la legge 833 prevedesse la fiscalizzazione dei contributi di malattia, si dovette attendere fino alla riforma di Vincenzo Visco del 1997, che trasformò nell’Irap i contributi dei datori di lavoro (aliquota 4,25 per cento) e nell’addizionale regionale Irpef (0,9 per cento) quelli dei lavoratori. Furono le prime due imposte “regionali”. Una seconda riforma fiscale, nel 2000, destinò parte dell’Iva ad alimentare un fondo perequativo nazionale, per coprire la differenza tra il fabbisogno regionale di spesa e il gettito delle nuove imposte.
Il Ssn risulta oggi finanziato da otto fonti diverse, anche se Iva e Irap rappresentano il 70 per cento del totale. Come dire, la fiscalizzazione è completata, ma servirebbe una razionalizzazione delle modalità di finanziamento e l’istituzione di vere imposte regionali.

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La Costituzione del 1948 (articolo 117) prevedeva quale competenza delle regioni “l’assistenza sanitaria ed ospedaliera”, processo che iniziò nel 1974 e fu completato nel 1978. Tuttavia, le regioni non disponevano di propria capacità impositiva, che fu attribuita solo nel 1997, appunto con l’Irap e l’addizionale Irpef. Da allora, le due imposte rendono evidente qual è lo sforzo fiscale autonomo e quali i “trasferimenti perequativi” dello Stato. Ad esempio, nel 2017 in Lombardia il primo era del 40 per cento, in Lazio del 37 per cento, in Emilia-Romagna del 35 per cento, mentre in Calabria e Basilicata solo dell’8 per cento e in Campania e Puglia del 16 per cento. In altri termini, nelle quattro regioni meridionali i trasferimenti statali coprono rispettivamente il 92 e l’84 per cento dei costi del Ssn e senza questi trasferimenti non vi sarebbe una sanità regionale al Sud (dove oltretutto si registrano i maggiori deficit). Oggi solo il Veneto e altre cinque regioni e province a statuto speciale applicano ancora l’aliquota-base. Un possibile aumento di 0,5 punti dell’addizionale Irpef produce un gettito di 630 milioni in Lombardia, solo di 135 in Campania, di 51 in Calabria e di 19 milioni in Basilicata. Viene chiamato “federalismo sanitario”, ed è un federalismo molto sperequato e a volte irresponsabile, dove è più facile essere virtuosi (e vantarsi) se si dispone di maggiore gettito.

Meno contributi dalle imprese

Quando nel 1942 propugnò il welfare state, Lord William Beveridge era mosso anche dal proposito di sgravare dai contributi sociali l’industria britannica – addossandoli alle famiglie con le entrate fiscali (tax revenues) – per renderla più competitiva. Esattamente ciò che è avvenuto più tardi anche in Italia. I contributi sanitari a carico delle imprese (e della pubblica amministrazione) negli anni Ottanta e Novanta finanziavano il 40 per cento circa del sistema sanitario. Percentuale scesa con l’Irap al 35 per cento, tra il 1997 e il 2009, poi ancora al 26 per cento e ora stabilizzata al 18 per cento. Oggi, l’Irap grava sulle imprese e la Pa per 20 miliardi circa, quando dieci anni prima pesava per 30-33 miliardi. Si è registrato quindi un forte spostamento del carico fiscale dalle imprese alle famiglie, che oggi finanziano almeno il 65-70 per cento del Ssn.

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Fin dalle sue origini e in quasi tutte le regioni il Sistema sanitario nazionale ha sempre accusato forti deficit. Solo nel 2001 fu affermato il principio della responsabilità regionale nella copertura del disavanzo creato e, tra il 2007 e il 2010, dieci di loro dovettero assoggettarsi alle drastiche misure dei “piani di rientro”. Prima di allora, il deficit di tutte le regioni gravava sullo stato ed era coperto con mutui bancari, Btp o Cct. Tra la prima del 1985 e l’ultima del 2007 furono attuate non meno di 24 operazioni di ripiano, ogni volta per “girare pagina”.
Il risanamento dei conti è avvenuto durante l’ultima grande crisi e oggi il deficit è stato riassorbito. Il Ssn ha accumulato finora disavanzi per 98,9 miliardi nominali (149,4 miliardi attualizzati). Deficit causati, in larga parte, dal sotto-finanziamento del Servizio sanitario – una politica che a posteriori si può giudicare come la più efficace, forse, nel controllare la spesa sanitaria, stante l’incapacità o la non volontà di regioni e aziende sanitarie di attuare un contenimento “reale” della spesa.
Negli ultimi 40 anni il Ssn è stato segnato da cambiamenti radicali nel prelievo e nella distribuzione dei fondi hanno. Solidarietà – tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud – decentramento, federalismo, sforzo fiscale, vincolo di bilancio, sono il nuovo lessico della sanità di oggi. Probabilmente è il giusto mix per affrontare le sfide di domani.

Tabella 1 Il finanziamento del Ssn. Anni 1980-2017 (percentuali e milioni di euro)

Figura 1

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  1. Giacomo

    Un racconto molto chiaro e supportato dai dati, tempo usato bene.

  2. Rino Impronta

    Finanziare le iniziative dello Stato

    In questi giorni nel Governo si parla molto di scarse risorse per lo Stato, per affrontare gli impegni assunti (Reddito di Cittadinanza, quota 100, ecc.). Mi è tornato subito in mente il meccanismo della “Scala mobile” e la sua soppressione. Ufficialmente conosciuta come “indennità di contingenza”, alla fine degli anni ’70 e inizio anni ’80, fu oggetto di una sua rivisitazione e di una riflessione sulla sua erogazione. Esisteva un “paniere”, contenente beni particolari di largo consumo. Con riferimento all’andamento dei prezzi di tali beni, un’apposita Commissione procedeva, trimestralmente, alla verifica dell’andamento dei prezzi dei predetti beni, provvedendo – con il meccanismo della scala mobile, appunto – all’adeguamento del costo della vita. Lo scenario economico non era come quello di oggi ma, al fine di recuperare il potere di acquisto dei salari, sindacati e Confindustria affrontarono la soluzione di questo problema. Infatti la stessa scala mobile fu abrogata tra il 1984 e il 1992. Motivazione: qualcuno si era accorto che era nato un circolo vizioso che aveva prodotto comunque la crescita dell’inflazione. Chiedo ancora un piccolo sforzo di memoria: spero che tutti ricordano (mi rivolgo a coloro che erano attivi nel mondo del lavoro) che ad un certo punto – proprio alla fine degli ’70 e i primi anni ’80 – si pensò (prima di abolire la scala mobile) di congelare la stessa, per le cause esposte in precedenza. Al fine di non provocare danni notevoli ai lavoratori, i vari governi in carica decisero di sostituire il mancato adeguamento dei salari – adeguamento della scala mobile – trasformando l’importo maturato e non riconosciuto, in titoli di stato al portatore (speciali emissioni di BTP) con scadenza quinquennale e decennale e con tassi a due cifre. Lo Stato difendeva i percettori di salari e stipendi, riconoscendo loro – a fronte degli aumenti del costo della vita – importi che producevano interessi semestrali e il capitale riscuotibile alla loro scadenza. Veniamo ai giorni nostri. Lo scenario è simile, ma non uguale, il momento è difficile e le cause sono note un po’ a tutti: disoccupazione – alta quella giovanile -, chiusura di aziende, sistema PMI che non riesce ad incassare i crediti nei confronti dello Stato a fronte di servizi offerti, e tante altre ragioni ben note a chi segue l’andamento della crisi di questi ultimi anni. Sono sotto gli occhi di tutti anche le iniziative che lo Stato ha provato a realizzare e i risultati ottenuti. Ciò premesso – tralasciando tutto il resto che sono convinto sia certamente a conoscenza di tutti – mi viene spontaneo suggerire di valutare la possibilità di provvedere, alla raccolta di risorse mancanti , con l’emissione speciale di Titoli di Stato (quinquennali o decennali o a scadenza più lunga), con un buon tasso di interesse. Saremmo certi che alla scadenza lo Stato sarà certamente in grado di rimborsare o rinnovare il capitale. Tutto ciò tornerebbe utile allo Stato stesso, perché eviterebbe il ricorso ad emissioni di titoli che comunque incrementerebbero il Debito Pubblico nazionale. Le predette emissioni andrebbero studiate al fine di non incidere sul DP. Ricorrere alle solite iniziative (prelievo sotto forma di contributo di solidarietà, blocco della perequazione per i pensionati), si provocherebbero solo sostenute forme di lamentela da parte dei destinatari, che si vedrebbero costretti al versamento, a fondo perduto,di somme che purtroppo non verrebbero più restituite.

    Per questo motivo lo stesso Stato, si impegnerebbe a restituire, le somme trattenute, alla scadenza dei titoli. Gli obiettivi sarebbero interessanti: i pensionati, che oggi svolgono un ruolo di ammortizzatori sociali e solo grazie a loro che molti giovani (figli e nipoti) possano permettersi di sopravvivere alle difficoltà del momento. Inoltre si garantirebbe il recupero (e non il versamento a fondo perduto, a distanza di anni e forse in un momento migliore per le nostre finanze), di somme che sarebbero certamente comode disporre. Lancio l’idea, sempre in forma provocatoria, nella speranza che siano altri – più importanti ed esperti di chi scrive – a sostenere la causa e proporsi come sostenitori della soluzione di questo problema.(Rino Impronta)

  3. Riccardo

    “un federalismo molto sperequato e a volte irresponsabile, dove è più facile essere virtuosi (e vantarsi) se si dispone di maggiore gettito.”

    Ah si? Magari qualche numero a sostegno di questa audace affermazione? Perchè, tanto per fare un esempio, il Veneto spende 1772€ per abitante in sanità pubblica, il Lazio 1913€, la Puglia 1822€, la Campania 1729€, la Sicilia 1738€ e la Sardegna 2065€ (Osservatorio Salute UniCatt).

    Siccome abbiamo anche una misura di output (i LEA) che misurano la qualità della sanità – Veneto 218, Lazio 180, Puglia 179, Campania 153, Sicilia 160 e Sardegna 140 – sostenere che le regioni del nord Italia hanno una sanità migliore semplicemente perchè spendono di più grazie al maggior gettito (ed è in questo modo che possono vantarsi) è FALSO. Numeri alla mano.

    Molte regioni italiane devono efficientare la loro spesa sanitaria per ottenere lo stesso value for money delle regioni più efficienti. Peccato che non abbiano NESSUN incentivo a farlo, in assenza di costi standard e con la totalità della loro spesa che proviene da trasferimenti incondizionati (perchè legati alla spesa storica) dello stato centrale.

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