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Imposte sul reddito: prove di armonizzazione nella Ue

La scarsa armonizzazione delle imposte sul reddito nell’Unione europea ha finito per produrre una competizione fiscale tra ordinamenti, spesso dannosa, per attrarre grandi contribuenti. Ora però gli stati membri cercano di porvi rimedio con due direttive.

La competizione fiscale all’interno della Ue

Ci si lamenta – con fondamento, purtroppo – della scarsa armonizzazione Ue nel settore delle imposte sul reddito e dell’esistenza di una spesso dannosa competizione fiscale (tax competition) tra ordinamenti europei tesi ad attrarre grandi contribuenti e, con essi, gli investimenti e i quartier generali che li caratterizzano. Ciascuno stato vuole mantenere la facoltà di definire basi imponibili, aliquote, deduzioni e detrazioni. E lo giustifica non solo con la maggiore conoscenza delle esigenze nazionali, ma anche con la (presunta) scarsa influenza che il regime fiscale interno avrebbe nella limitazione della concorrenza e del commercio internazionale.
Il mondo delle imprese – specie multinazionali – ha, però, imparato a fare tesoro delle differenziazioni e le studia per trasformarle in opportunità. L’espressione “ottimizzazione fiscale” – che all’origine voleva indicare come evitare la duplicazione della tassazione di uno stesso reddito a causa del passaggio della medesima ricchezza da un ordinamento all’altro – ha assunto, oggi, il ben diverso significato di sfruttamento dei “loopholes” (i buchi) fra un ordinamento e un altro. Si parla così spesso di doppie esenzioni o doppie deduzioni quando non addirittura di stateless income (reddito di nessuno stato e, quindi, di nessuna tassazione).
È questa constatazione che ha spinto i singoli membri Ue – se non a una armonizzazione piena – almeno a forme di coordinamento fra loro. Nascono così le direttive Atad 1 (del 12 luglio 2016, n. 2016/1164, attuata in Italia col decreto legislativo 29 novembre 2018, n. 142) e Atad 2 (del 29 maggio 2017, n. 2017/952, in corso di attuazione), peraltro coerenti con le indicazioni Ocse in proposito (Beps – Base erosion and profit shifting 5 ottobre 2015).

Due direttive per l’armonizzazione

La Atad 1 (Anti Tax Avoidance Directive) interviene innanzitutto sul concetto di elusione fiscale delineandone le caratteristiche e consentendo a ciascun ordinamento nazionale di prescindere dalle risultanze formali quando un insieme di operazioni, giuridicamente legittimo, viene utilizzato allo scopo di ottenere un risultato (risparmio d’imposta) invece illegittimo. Il sistema tributario italiano conosce già questa normazione e non ha avuto bisogno di ulteriori adattamenti alla Atad 1.

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La direttiva si concentra poi sul trattamento di alcune voci assai ricorrenti nella prassi delle operazioni cross border. Innanzitutto, interviene sul trattamento dei costi finanziari, intesi per tali quelli che vengono considerati interessi passivi e costi assimilati nei principi contabili adottati dall’impresa. Infatti, spesso si scelgono, in ambito europeo, determinati paesi come finanziatori o come prenditori di finanza altrui in funzione del relativo regime fiscale. E ciò a prescindere dal luogo tanto di raccolta quanto di utilizzo della finanza interessata. L’obiettivo perseguito a livello Ue è, invece, quello “di assicurare che l’imposta sia versata nel luogo in cui gli utili e il valore sono generati” e la direttiva si sforza qui, quantomeno, di unificare la base imponibile dettando regole di misurazione dei costi finanziari deducibili (non più del 30 per cento del risultato operativo lordo). Resta, dunque, la possibilità di diversificare le aliquote: ma almeno la base imponibile è uguale per tutti.

Si interviene, poi, sulla misurazione dei valori in entrata e in uscita. Anche questo terreno di coordinamento pare neutrale e tutto sommato gradito agli stati membri (che hanno approvato la direttiva all’unanimità). Si tratta di concordare a quale valore un’azienda che esce dallo stato X (che mantiene il diritto a tassarlo secondo le sue regole – Exit Tax) entra nello stato Y (perché ne riconosca il valore fiscale ai fini dei successivi ammortamenti o realizzi di plus o minusvalenze – Entry Tax). La questione non è peregrina perché i valori di riferimento potrebbero essere per l’uno (il paese in cui si entra) il costo storico, per l’altro (il paese da cui si esce) quello di mercato. Conseguenza: doppia tassazione della differenza. L’assenza di regole condivise opera qui come elemento addirittura impeditivo di una sana circolazione di ricchezza.
Si interviene, poi, sui rapporti con paradisi fiscali per dettare regole omogenee sia in tema di trasparenza di risultati (cioè imputazione del risultato della società con sede nel paradiso fiscale alla controllante con sede in un paese Ue), sia di attribuzione parziale degli stessi quando la società con sede nel paradiso fiscale detiene voci a redditività meramente passiva (cioè capitali, partecipazioni, brevetti e diritti immateriali).

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E si interviene, infine, sulla materia forse più ostica in questo contesto: le componenti ibride. Voci che hanno nel tempo assunto un tale rilievo che le disposizioni attuative italiane hanno anticipato anche quelle dell’Atad 2 (la cui parte residua su alcuni profili soggettivi e contabili non è stata ancora normata). Di che si tratta? Sono definiti “ibridi” tutti quegli strumenti – perlopiù finanziari – che non rispondono pienamente a specifici e conosciuti istituti di diritto civile nei rispettivi ordinamenti e che, quindi, il legislatore tributario ha dovuto assimilare alla categoria idealmente più vicina per poterne identificare il trattamento. Sennonché quest’operazione di assimilazione è stata condotta da ciascun legislatore nazionale in funzione della propria comprensione, della sofisticatezza del proprio sistema, del timore o della speranza della relativa diffusione. Insomma, seguendo logiche inevitabilmente locali. Con il risultato di renderne appetibile l’utilizzo per coloro che, giocando sulle relative differenze, possono conseguirne la classica doppia deduzione o doppia non tassazione (flusso considerato interesse deducibile nell’ordinamento di colui che paga e qualificabile come dividendo – e quindi non tassabile o tassabile poco – nell’ordinamento di chi lo riceve). Di qui l’evidente, e utile per tutti, opportunità di definirne il trattamento a livello UEe
Insomma, l’Unione europea a volte sbaglia, ma spesso serve.

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  1. Henri Schmit

    Articolo interessante e condivisibile scritto da un grande esperto coraggioso, indipendente dagli interessi economici che condizionano pesantemente tutto il discorso. Insisterei solo di più sulla distinzione fra armonizzazione della base imponibile e competizione legittima e benefica (non dannosa) sulle aliquote, salvo le soluzioni di abuso, categoria per definizione elastica. L’illusione che possono creare questi discorsi è che il problema dell’Italia, fiscalmente in difficoltà, è di essere vittima di una concorrenza estera, prevalentemente intra-europea, sleale. Non è così. L’evasione e l’elusione fiscale possono (e dovevano) essere contrastate con misure nazionali, normative e di controllo, appropriate. Nessuno in Europa vieta all’Italia di farlo; basterebbe imitare le best practice estere. Quindi norme adeguate contro l’evasione e ammodernamento del sistema fiscale piuttosto che aspettare il Godot di Bruxelles, che non può dare quello che al paese manca, o lo potrebbe dare unicamente sostituendosi in toto al legislatore nazionale. Sarebbe questa la ragione dell’iper-europeismo della classe dirigente ed esperta?

  2. Davide

    La concorrenza fiscale è al contrario virtuosa ed auspicabile. Fa parte della concorrenza istituzionale, che impedisce ai governi di degenerare oltre misura.
    Davvero credete di non sapere cosa succederebbe con un’ipotetica armonizzazione fiscale a livello anche mondiale?
    Succederebbe l’ovvio, e cioè una crescita illimitata delle pretese statali, con gravissimo danno per il benessere delle persone e del sistema economico in sè.

    • Andrea

      Ammesso e non concesso di volere una concorrenza fiscale, questa credo andrebbe fatta principalmente sulle aliquote, non sugli imponibili e lavorando per evitare scappatoie. Aiuterebbe anche a ragionare su quali sono le deduzioni più corrette ed efficaci.

  3. DDPP

    L’articolo è interessante e mi aiuta a capire con quali meccanismi si cerchi di armonizzare le legislazioni fiscali europee. Venendo al “caso” italiano, temo che qualora si arrivasse ad un accordo europeo, il fisco italiano se ne ritrarrebbe manderebbe avanti i soliti politici che lamentano l’invadenza dell’Europa nelle scelte nazionali. Cerco di spiegarmi. Pur non conoscendo tutte le legislazioni fiscali europee, ne conosco bene due: quella francese e quella tedesca. In quanto a principi (pur nell’osservanza degli IAS) sono abbastanza diverse l’una dall’altra, ma entrambe sono improntate a criteri opposti a quelli italiani. Semplicità e trasparenza delle norme, applicabilità nella definizione degli imponibili, certezza normativa e mantenimento degli impegni (tempi di rimborso). A questo aggiungiamo la rapidità arbitrale della giustizia fiscale. Aggiungo che le loro amministrazioni fiscali sono indirizzate soprattutto nel controllo sostanziale tra reddito e patrimonio dei contribuenti.
    Se la nostra macchina fiscale adottasse gli stessi criteri, probabilmente assisteremmo ad un calo dell’evasione, ma temo anche ad un fortissimo calo del prelevo che sarebbe determinato dalle basi imponibili razionali e non costruite su criteri di rapina.

    • Henri Schmit

      Che bel commento! Grazie. Serve la testimonianza di persone che effettivamente conoscono più realtà nazionali e aiutano a far prendere coscienza l’opinione pubblica, gli esperti e coloro che decidono quanto la situazione dell’Italia, non solo in materia fiscale, è incommensurabile con quella dei suoi principali alleati e concorrenti. Incommensurabilità significa che le misurazioni empiriche non colgono l’essenziale.

      • Santo Ferrolotto

        Mi scusi ma la chiusa del suo commento è incompatibile con qualsiasi criterio scientifico. Lei dice sostanzialmente che il sistema fiscale italiano (che esercita una pressione fiscale complessiva inferiore a quello tedesco, dati ocse) è terribile anche se i fatti e i numeri dicono diversamente. Invoca la sospensione della scienza perché l’Italia sarebbe un caso sovrannaturale? Per gli altri le misurazioni vanno bene, ma l’Italia è peggio comunque? Non aiuta proprio il dibattito.

        • Henri Schmit

          Sto forse forzando un po’ i concetti. Sostengo che non basta confrontare numeri, che bisogna guardare che cosa rappresentano e da che cosa sono prodotti. Penso per esempio all’evasione IVA, tre volte la percentuale di F e D, 20 volte quella svedese (dove le aliquote sono fra le più alte). Come spiegare? Se i numeri fossero commensurabili basterebbe lottare, come in F e in D, contro coloro che non dichiarano. Sostengo che ci sono altre ragioni attinenti alla normativa (scritta male, a favore delle Stato rapace, ma anche con specifiche opportunità di frodare) e alla diffusione delle frodi (spesso non sancite). La stessa incommensurabilità vale per esempio per i NPL, ma usciamo dal contesto fiscale. Ovviamente si può e si deve misurare, e quindi ha ragione Lei, ma non si risolve se non si ricercano le specificità che secondo me spesso non esistono negli altri paesi.

          • Santo Ferrolotto

            Grazie del chiarimento, ora ho capito.

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