Il sistema pensionistico italiano è un insieme di regole affastellate. Il modello contributivo è stato contraddetto e contrastato dalle molte riforme successive. E quota 100 è sbagliata a prescindere dagli effetti che produrrà su spesa e occupazione.
Il caos
Il sistema pensionistico italiano è un groviglio di regole affastellate nel tempo. Il modello contributivo, abbozzato nel 1995, resta una mera formula di calcolo. Anziché completarlo, l’impetuosa legislazione successiva ne ha contraddetto la natura e contrastato gli scopi. I nuovi provvedimenti aggravano il caos. Da un lato, la pensione di cittadinanza si sovrappone agli istituti assistenziali esistenti (integrazione al minimo, maggiorazioni e assegno sociale, invalidità lavoristica e civile) anziché riassorbirli in un disegno organico separato dalla previdenza. Dall’altro, quota 100 è contraria alla “filosofia contributiva” e quindi sbagliata a prescindere dagli effetti che produrrà sulla spesa e l’occupazione.
Quota 100
L’inedita nozione di “quota”, senza riscontro in altri paesi, fu introdotta nell’ordinamento italiano dal secondo governo Prodi. È basata sul singolare assunto che l’età e l’anzianità contributiva siano ugualmente meritevoli. Infatti, fa dipendere il diritto alla pensione dalla somma delle due, cosicché un anno in più dell’una può compensare uno in meno dell’altra. Purtroppo, tale ‘assunto di equivalenza’ è destituito di ogni fondamento: perché mai l’età dovrebbe ‘valere’ quanto l’anzianità invece che il doppio o la metà?
Dagli iniziali 95 anni nel 2008, la “quota-Prodi” sarebbe passata a 97 nel 2013 se la riforma Fornero non l’avesse lodevolmente cancellata. Il governo Conte avrebbe voluto ripristinarla aggiornandone il valore. Infatti, quota 100 sarebbe stata un insieme di combinazioni d’età e anzianità se ragioni di bilancio non avessero indotto a svuotarla lasciando la sola combinazione 62-38. In pratica, ai due canali d’uscita esistenti se n’è aggiunto un terzo, cosicché i lavoratori senior, assunti entro il 1995, potranno andare in pensione in tre modi:
- con un’età di 67 anni purché ne abbiano lavorati almeno 20 (canale prevalentemente anagrafico);
- con un’anzianità di 42 anni e 10 mesi, se uomini, o un anno meno se donne (canale contributivo);
- con 62 anni d’età e 38 d’anzianità (canale misto).
Improvvisazione e miopia
Il governo sembra dimenticare che, per i lavoratori junior, assunti dopo il 1995, il primo canale diventerà ‘flessibile’ consentendo l’uscita a partire da 64 anni (fino a 67). In onta all’equivalenza fra età e anzianità, chi opterà per il terzo potrà quindi compensare 2 in meno della prima (62 anziché 64) con 18 anni in più della seconda (38 anziché 20).
Un tale tripudio di non‑sensi è inaccettabile. Ancora una volta, il legislatore previdenziale ha tenuto lo sguardo basso. Se l’avesse alzato oltre il naso, avrebbe scorto la necessità di accompagnare la transizione al modello contributivo con un quadro di regole coerenti fra loro e col traguardo finale. Per quanto possa valere dopo che i buoi sono scappati, riassumerò le misure necessarie (si veda qui e qui).
La flessibilità che occorre
Il cuore della filosofia contributiva è la corrispettività, cioè la restituzione dei contributi versati. Infatti, la pensione è calcolata spalmandoli sulla vita residua del pensionato e quella del coniuge superstite. La corrispettività implica che l’equilibrio tendenziale del sistema è garantito a prescindere dall’età al pensionamento. Segue il corollario che le età sono ‘indifferenti’, cosicché ciascuno può liberamente scegliere la sua. Ragioni spiegate altrove consigliano tuttavia di limitare la scelta entro una fascia d’età ‘ragionevole’.
La flessibilità anagrafica è un tratto somatico fondamentale del modello contributivo. Fu il cavallo di battaglia della riforma Dini che consentì ai lavoratori junior di scegliere fra 57 anni e 65, ma al disattento legislatore italiano bastò poco tempo per dimenticare. Infatti, non erano ancora trascorsi dieci anni quando cominciarono a piovere provvedimenti inappropriati, quali lo ‘scalone’ e la ricordata ‘quota-95’. L’attenzione di quei governi era rivolta ai senior in procinto di andare in pensione col metodo retributivo, ma nessuna eccezione fu fatta per i junior cosicché il modello contributivo sarebbe rimasto mutilato se la legge Fornero non fosse intervenuta a ripristinare la flessibilità entro la fascia oggi compresa fra 64 anni e 67.
L’attuale governo era davanti al problema posto dall’età pensionabile ‘rigida’ dei senior (67 anni). Il nodo verrà al pettine quando gli assunti a gennaio del 1996 potranno andare in pensione a 64 anni, mentre i coetanei assunti il mese prima dovranno aspettarne altri tre. Per rimuovere il paradosso prima che s’infranga contro il muro dell’insostenibilità sociale, non c’è altra via che estendere ai senior la flessibilità dei junior consentendo loro di anticipare la pensione fino a 64 anni.
Quanto costa?
Dopo la riforma Fornero, la pensione di tutti i senior consta di due quote. Nel lungo periodo, l’anticipo di quella contributiva non comporta oneri in forza dell’indifferenza delle età. La quota retributiva può essere ugualmente anticipata a costo zero decurtandola della percentuale di cui l’anticipo ne prolunga la durata.
A una correzione analoga occorre assoggettare la quota retributiva dei senior che usciranno dal canale contributivo. Oltre a consentire risparmi di spesa importanti, la misura ridurrebbe il privilegio derivante dalla minore età che prolunga la prestazione. Il governo ha invece scelto di accrescerlo sospendendo l’aggancio dei requisiti contributivi alla longevità, e perciò divaricando ulteriormente l’età media del secondo canale da quella del primo.
Per le ragioni ‘tecniche’ che il lettore interessato può leggere negli articoli sopra richiamati, il secondo canale resterà iniquo anche dopo la fine della transizione e l’avvento del contributivo. Sarebbe quindi utile riflettere sull’opportunità di sopprimerlo anziché potenziarlo con l’agognata “quota 41”.
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