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In busta paga non conta solo il talento

Sulle retribuzioni del settore privato ancora oggi pesano fattori diversi dalle competenze. Come genere, regione di appartenenza e datore di lavoro. Un rapporto dell’Istat ci dà un’immagine chiara del fenomeno.

Un paese di disuguaglianze

Sono acute e ben radicate le differenze salariali che l’Istat certifica nell’indagine sui differenziali retributivi all’interno del settore privato. In Italia la retribuzione oraria mediana, ossia la retribuzione percepita dall’individuo situato a metà della distribuzione, corrisponde a 11,21 euro. Tuttavia, il 10 per cento dei lavoratori guadagna meno di 8 euro all’ora (primo decile), mentre la retribuzione oraria della fascia più alta (nono decile) non è mai inferiore a 21. Non solo, come prevedibile, esistono forti differenze tra il primo e l’ultimo decile, ma è anche possibile individuare una polarizzazione dei salari (figura 1). I dati sembrano suggerire uno schiacciamento della distribuzione verso il basso e l’avvicinarsi della mediana ai livelli salariali di quelle meno abbienti, allontanandosi dai decili più alti. Sono solo 3 gli euro all’ora che segnano la differenza tra un lavoratore appartenente al primo decile e il lavoratore mediano, contro i 10 che separano quest’ultimo dalla parte alta della distribuzione.

Figura 1

Ma che cosa determina le disuguaglianze salariali? I lavoratori si differenziano per le loro peculiarità individuali, per le caratteristiche della posizione lavorativa da loro ricoperta e per quelle dell’impresa in cui operano.

Lavoratore e posto di lavoro

Alcuni gruppi di individui guadagnano sistematicamente meno di altri, prime fra tutti le donne. Sebbene, infatti, il differenziale italiano di retribuzioni tra uomo e donna sia il secondo più basso in Europa (5,3 per cento rispetto al 16,2 della media europea), quando il dato viene scorporato in settore pubblico e privato si scopre che in realtà in quest’ultimo il divario salariale di genere sale al 17,9 per cento. La lavoratrice mediana guadagna 1,50 euro all’ora meno del suo corrispettivo maschile, e le paghe sono più basse per tutte le principali categorie di classi occupazionali, con differenziali più grandi per le posizioni più elevate (figura 2). Per questo, il 6,9 per cento delle donne sono considerate working poor (lavoratrici povere), perché percepiscono un salario inferiore 7,5 euro l’ora. Nel caso degli uomini, i working poor si fermano al 5,8 per cento.

Figura 2

Sicuramente un altro elemento fondamentale nella determinazione dei salari è la qualifica personale: al momento di firmare un contratto il possesso di una laurea vale il 10 per cento in più di retribuzione al Nord (contro il quasi nullo 0,8 per cento del Sud).

In più, le posizioni lavorative poco retribuite sono molte, quelle che garantiscono uno stipendio alto sono molto poche. Per farsi un’idea basta pensare che operai, apprendisti e impiegati, che insieme coprono più del 98 per cento delle posizioni, percepiscono una retribuzione mediana oraria che va dagli 8 ai 12 euro. Quadri e dirigenti invece rappresentano meno del’2 per cento, ma il loro salario orario è nettamente maggiore: 27,1 e 51 euro.

E nelle imprese?

Un’altra grossa fetta di disuguaglianza salariale deriva poi dalle caratteristiche dell’impresa in cui il lavoratore opera, prima fra tutte la dimensione. All’aumentare della grandezza e a parità di tutto il resto, i salari crescono. Due lavoratori con le stesse caratteristiche si troveranno quindi a percepire salari diversi se assunti in imprese medio-grandi oppure piccole (figura 3). Questo trend crescente è presente sia nel settore secondario (industrie) che nel terziario (servizi).

Figura 3

I dati forniti da un’altra indagine Istat sulle piccole e medie imprese nel 2014 confermano questa tendenza. Più del 60 per cento del nono decile, il gruppo dei lavoratori meglio retribuiti, è composto da individui assunti in imprese con più di 10 lavoratori. Al contrario, circa il 65 per cento del primo decile è composto da dipendenti di micro-imprese (figura 4).

Figura 4

I salari sono, inoltre, legati al livello di produttività. L’85 per cento delle retribuzioni più alte (nono decile) sono pagate ai lavoratori più produttivi, quelli che riescono a produrre almeno 30mila euro di valore aggiunto all’anno.

Hanno un vantaggio competitivo in termini di salario anche i lavoratori assunti nelle imprese che operano sul mercato da più tempo e in quelle che possono contare su una maggiore intensità di relazioni, sia grazie all’appartenenza a gruppi che grazie alle esportazioni.

È importante notare che spesso queste quattro caratteristiche sono strettamente correlate tra loro e hanno un forte legame anche con le dimensioni dell’unità produttiva: le imprese più produttive tendono a operare sul mercato da più tempo, a fare parte di gruppi, esportare e dunque crescere in dimensione.

Figura 5

L’esodo dal Mezzogiorno

In quest’ottica diventa più comprensibile anche il divario salariale tra il Nord e il Sud.
L’Istat misura la differenza tra la regione che può offrire la più alta paga mediana oraria – la Lombardia con 12,02 euro – e la regione con la più bassa, la Calabria con 10,01. Inoltre l’incidenza delle posizioni lavorative a bassa retribuzione oraria sul totale nel Mezzogiorno è pari a 10,9 per cento, più del doppio rispetto al Nord.
Le imprese del Sud sono infatti caratterizzate da una produttività più bassa di circa il 30 per cento rispetto alle loro controparti settentrionali. Questo ne limita l’accesso al credito e, dunque, la possibilità di crescita, comportando una dimensione media più piccola rispetto al Centro-Nord.
Ciononostante, il differenziale di retribuzioni tra le due macro-aree del paese è inferiore rispetto alla differenza in produttività e, a parità di qualifica e di settore, si attesta intorno al 5 per cento. Questo perché le retribuzioni minime sono stabilite con contrattazioni collettive nazionali specifiche. Significa che le imprese del Sud sono meno produttive e pagano uno stipendio più alto di quanto possano permettersi.
Ciò contribuisce alla crescita di occupazione irregolare, che offre paghe più basse di quelle previste dai contratti nazionali, e rende ancora più difficile per le imprese meridionali competere, crescere e offrire lavoro e, nel tempo, salari più alti.
Proprio la mancanza di posizioni lavorative gratificanti è una causa significativa dell’esodo continuo di giovani dal Sud in cerca di opportunità. Il rapporto Censis infatti ci indica come gli studenti meridionali iscritti a un’università del Centro-Nord siano 172mila contro i 17mila studenti settentrionali che compiono il percorso inverso, per una perdita netta di popolazione per il Sud di quasi 1 milione e 200 mila in vent’anni. Uno spopolamento, questo, sintomatico di un disagio più diffuso a livello nazionale. Dinamiche simili infatti operano su scala nazionale per uno studente o laureato italiano che decida di emigrare all’estero, dove troverà retribuzioni più alte e maggiori opportunità di carriera. Ed è così che l’ultimo rapporto Istat sulla mobilità ci indica che i laureati italiani che nel 2017 si sono trasferiti all’estero ammontano a 28mila, per un totale negli ultimi 5 anni di 244mila, di cui il 64 per cento con titoli di studio medio alti.

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Il Punto

  1. Piero Borla

    Noto in particolare l’affermazione che ‘le imprese del sud sono caratterizzate da una produttività piu’ bassa di circa il 30% rispetto a quelle settentrionali’. Sarebbe importante un approfondimento sui modi che hanno portato a questa valutazione, e sopratutto sulle cause che determinano questo divario

    • Emanuele

      Presumibilmente è dovuto al minor peso delle attività industriali sul totale delle imprese, 1 ora/uomo impiegata nel far funzionare una macchina industriale da 1 milione di euro produce un output maggiore che 1 ora/uomo impiegata a preparare cappuccini, per quanto con impegno. Non c’entrano – come lei probabilmente sta immaginando – la “buona volontà”, la “cultura del lavoro” o altre virtù morali.

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