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Dalla rete al futuro, Tim gioca una partita da brivido

La nomina di Gubitosi ad amministratore delegato apre un nuovo capitolo della vicenda di Tim. In gioco non c’è solo la creazione di un’unica infrastruttura nazionale in mani pubbliche. C’è anche il futuro di una grande società, oggi oberata dai debiti.

Il nodo della rete e altri problemi

Con la nomina di Luigi Gubitosi ad amministratore delegato e direttore generale di Tim si apre un nuovo capitolo della controversa e travagliata storia del principale operatore di telecomunicazioni nazionale nei due decenni che hanno seguito la sua privatizzazione.
Da un lato, non è ancora scontato che i giochi siano fatti. Il principale azionista – Vivendi (24 per cento) – punta a ribaltare la situazione attraverso un possibile ricorso alla Consob da parte del collegio dei revisori e la richiesta immediata di convocazione di un’assemblea per rimettere in discussione la nuova variegata maggioranza che si è coagulata a maggio attorno al fondo Elliott (9 per cento).
Dall’altro lato, sono molti e delicati i dossier sul tavolo del nuovo amministratore delegato, chiamato in tempi rapidi a prendere decisioni importanti per il futuro dell’azienda: la vendita di Persidera (operatore di rete che gestisce multiplex sul digitale terrestre), quella di Sparkle (la società internazionale di cavi ritenuta strategica per gli interessi nazionali su cui dunque il governo può far valere la “golden power”), il futuro di Inwit (società delle torri dapprima ritenuta non strategica, ma ora tornata d’attualità anche alla luce dei grandi investimenti fatti sulla nuova rete 5G e su cui torneremo in un prossimo intervento) e di Tim Brazil, l’ultimo pezzo rimasto della strategia di internazionalizzazione di Telecom Italia abbandonata ormai da tempo, ma che rimane pur sempre una società in salute, con utili e margini di crescita costanti.

È però chiaro a tutti che il vero nodo, la madre di tutte le questioni, è sempre e comunque “la rete unica”. Da oltre un decennio (il piano Rovati – consulente del governo Prodi – è del 2006), lo scorporo della rete Telecom è al centro del dibattito sulle telecomunicazioni in Italia tra l’aspirazione dei governi a (ri)costruire una infrastruttura a controllo pubblico e la volontà di Telecom di gestire un asset unico e strategico.
In questo modo, infatti, in tutti questi anni la società, verticalmente integrata, ha potuto fornire contemporaneamente i propri servizi e gestire le relazioni economiche con i concorrenti sulla rete fissa. Questi ultimi, i cosiddetti Olo (Vodafone, Wind, Fastweb, Tiscali e gli altri), dovevano infatti passare necessariamente sulla sua rete, perché non si è mai sviluppata in Italia una alternativa via cavo. Tutto ciò avveniva con prezzi regolati dall’Agcom, che riusciva a garantire condizioni sufficienti di concorrenza e un corretto funzionamento del mercato, in termini di accesso e di prezzi finali per il consumatore.

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Fino a quando le telecomunicazioni sono rimaste un settore caratterizzato dai servizi in voce e poi dai dati offerti via Adsl, con internet ancora un oggetto sconosciuto alla maggior parte dei consumatori italiani, il modello ha funzionato, come nel resto d’Europa. È lo sviluppo della banda larga (e ultralarga), la lenta ma inarrestabile esplosione della domanda attraverso i servizi video su internet, le enormi opportunità collegate allo sviluppo della nuova economia digitale (dati, internet delle cose, blockchain, intelligenza artificiale) e della tecnologia 5G – che poggerà sempre più su un’infrastruttura (backbone) in fibra ottica – che rendono obsoleto ciò che abbiamo per lungo tempo identificato come telecomunicazioni, così come rendono obsoleta la vecchia rete in rame che lo supportava.

Il modello Open Fiber

Mentre tutto ciò prendeva corpo, il principale operatore infrastrutturato del paese passava sotto il controllo di un azionista straniero (Vivendi), poco disposto a rinunciare o – quantomeno – a non mantenere il controllo della sua rete. La nuova situazione spingeva il governo Renzi a vedere di buon occhio la nascita di un’alternativa nazionale, Open Fiber, chiamata a coprire con la fibra, attraverso bandi pubblici, una parte rilevante del paese (nelle aree a cosiddetto fallimento di mercato), oltre che a continuare il processo di copertura in altre aree economicamente interessanti iniziato a suo tempo da Metroweb (confluita in Open Fiber) a Milano e in altri grandi centri.

Ciò che caratterizza Open Fiber è il suo essere un operatore di rete “puro”, in termine tecnico “wholesale only”, e dunque con un modello di business focalizzato sulla sola vendita di banda agli operatori e, diversamente da Tim, non integrato verticalmente e quindi non interessato a offrire servizi in diretta concorrenza con quelli degli operatori che utilizzano la sua stessa rete. È ciò che ha indotto un operatore televisivo come Sky a stringere accordi con Open Fiber per poter distribuire sulla rete i propri attraenti contenuti, gestendo direttamente dal 2019, come gli altri Olo, il rapporto con il cliente.
Allo stesso tempo il nuovo governo ha sostenuto con sempre maggiore convinzione la necessità di scorporare la rete così da accelerare la fusione con Open Fiber, fino a inserire un emendamento nel decreto fiscale che affida ad Agcom i poteri di intervento per “spingere la creazione di un’entità commerciale indipendente che possa garantire pari condizioni di accesso wholesale agli operatori di telecomunicazioni, sottraendoli a un’eccessiva dipendenza dall’impresa verticalmente integrata con significativo potere di mercato”.

A questo punto, ciò che attende Gubitosi nei prossimi mesi, se non nelle prossime settimane, riguardo al futuro di Tim, è un’impresa titanica. Per un verso, nonostante tutto, la rete rimane ancora economicamente un asset importante, perché se è vero che la componente fisica infrastrutturale tenderà ad avere un ruolo sempre meno rilevante (cavi, colonnine, borchie, bretelle) e che quella attuale in rame richiede investimenti molto elevati per il passaggio alla fibra, vi sono diversi livelli della rete di cui occorre tenere conto e alcuni di essi avranno un ruolo sempre più strategico nell’evoluzione del business dei prossimi anni. Se dunque l’ingresso dei nuovi attori (i cosiddetti over the top) spinge a una riduzione dei ricavi nelle attività tradizionali, potrebbe essere proprio la connettività supportata dal 5G dei servizi dell’internet delle cose in ambito smart home/smart city, insieme allo sviluppo dei servizi video d’intrattenimento, l’elemento centrale su cui ricostruire il ruolo centrale di una rete di telecomunicazioni nei prossimi anni.

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D’altro canto, solo a guardare l’accelerazione impressa al processo e le mosse di questi ultimi giorni, lo scorporo sembrerebbe inevitabile e anche l’ipotesi di un eventuale controllo in caso di fusione con Open Fiber ormai abbandonata. Tuttavia, non solo il management di Tim, ma tutte le parti interessate dovranno ulteriormente fare i conti con la complessità e difficoltà dell’operazione, nella quale agli aspetti politici e strategici legati alla gestione di un’infrastruttura essenziale si aggiungono le preoccupazioni per i livelli occupazionali (oltre 20 mila dei 50 mila addetti operano in Tim solo su questa componente). Quello che oggi è in gioco non è dunque solo la creazione di un’unica infrastruttura nazionale in mani pubbliche (con tutto ciò che ne consegue di positivo e negativo nei suoi molteplici aspetti), ma anche quel che ne sarà di Tim, grande società oberata dai debiti e con un grande futuro alle spalle.
È una storia che ne ricorda altre, non proprio edificanti. L’auspicio è che la scelta di Gubitosi non sia tanto in relazione con l’ultimo incarico ricoperto (Alitalia), quanto all’esperienza e alle capacità dimostrate in passato nella gestione di altre società del settore (Wind e, in parte, Rai).

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  1. Enrico Cecchi

    Gubitosi si chiama Luigi, non Paolo

  2. Vincenzo

    Lo scorporo della rete è stato un errore madornale del governo D’Alema (1998): in quella occasione doveva essere separata l’azienda telefonica dalla società gestore di rete, così da permettere un accesso equo a tutti gli operatori alternativi. Invece, Telecom è stata fatta diventare monopolista di fatto e la principale colpevole di un’arretratezza e di una totale mancanza di ammodernamento della rete, soprattutto quella in rame, che raggiunge tutti ma che in molti casi è fatiscente. Gli esempi sono abbastanza alla portata di tutti: in zone più appetibili, T.I. si è mossa e qualche lavoro lo ha portato a termine, nel resto del paese a malapena ha portato il doppino nelle abitazioni. Il digital divide si deve anche a queste scelte! Per non parlare, poi, degli ostacoli che hanno impedito di fornire servizi e connettività a tutti. Chi vive oltre i 5 km di distanza dalla centrale, specie se in collina, non ha né adsl né tanto meno fibra, per lo meno non con Telecom. Per non parlare poi dei pali di sostegno delle tratte aeree che sono caduti, adagiati su altre piante, con i doppini che li sostengono etc etc.
    Permane un dubbio: la rete è stata creata con i soldi pubblici (Sip), per cui non mi pare corretto comprarla di nuovo. Semmai, assegnarla ad una nuova società, magari a maggioranza pubblica, con quote anche in mano agli altri operatori telefonici, caricata di un po’ del debito, che verrà ripagato con gli affitti dei cavi.

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