Il governo Conte si affida alle analisi costi-benefici per prendere decisioni su molte grandi opere pubbliche. Forse farebbe meglio a valutarle con analisi comparative di valore aggiunto. Perché non tutti gli investimenti pubblici aiutano la crescita.
Analisi costi-benefici e analisi di valore aggiunto
È di viva attualità politica il tema delle analisi costi-benefici promosse dall’attuale governo per molti grandi investimenti pubblici. Né vi sono dubbi che il moltiplicatore di questi investimenti tenda a essere maggiore di quello dei consumi, argomento alla base di molte delle critiche all’attuale Documento di economia e finanza (purtroppo ve ne sono di ben più rilevanti).
Tuttavia, nella pratica della valutazione degli investimenti da selezionare, la teoria (e la prassi) sembra ferma all’analisi costi-benefici (ABC), pur in versioni aggiornate che tengono conto sia delle esternalità che degli impatti occupazionali diretti, sia, in qualche misura, del costo opportunità marginale dei fondi pubblici. Ma come ho già scritto su lavoce.info , l’approccio, scarsamente applicato in Italia prima del governo Conte, non sembra soddisfacente ai fini di “dialogare” con le scelte macroeconomiche: infatti, misura il surplus sociale netto, che con la crescita economica ha relazioni deboli nei contesti sviluppati. Per inciso, il surplus sociale misura il benessere di famiglie e imprese, e quello delle prime è spesso dominante (si pensi per esempio ai risparmi di tempo per viaggi non di lavoro, che pure costituiscono una quota rilevante dei benefici delle infrastrutture di trasporto).
Ai fini degli effetti di crescita, sembra molto più efficace servirsi di analisi più dirette, come quelle comparative di valore aggiunto (VA), che misurano solo i risultati per le imprese e l’occupazione. Possono essere solo comparative in quanto, pur senza qui entrare in dettaglio, danno sempre risultati positivi se usate per progetti singoli, al contrario dell’analisi costi-benefici. Per questo motivo, però, l’uso non comparativo delle analisi di valore aggiunto è generalmente privilegiato dai decisori politici, per ottenere risultati positivi per le loro scelte discrezionali di spesa.
Ciò premesso, è evidente che il valore aggiunto va non solo misurato, ma ottimizzato: altrimenti l’affermazione generale della superiorità di questa strategia di spesa rispetto a varie forme di sostegno ai consumi potrebbe essere messa in serio dubbio.
Come scegliere le priorità
Ma vediamo più in dettaglio le valutazioni di VA, basate sulla somma delle remunerazioni di lavoro e capitale generate da un investimento pubblico e misurate in base a tabelle input-output.
I benefici della remunerazione del lavoro soffrono ovviamente degli stessi problemi osservabili nel sostegno ai consumi (per esempio, destinazioni “indesiderabili” al fine della crescita produttiva, come risparmi o acquisti di beni importati). Ma la remunerazione del capitale ne è esente? Non sembra, né per il risparmio né per collocazioni estere. Vi è anche la possibilità che la remunerazione abbia la natura di rendita, se i settori interessati sono poco esposti alla concorrenza, come è spesso il caso delle opere pubbliche.
Ora, nelle scelte di investimento formulate in Italia negli anni passati, non vi è traccia nemmeno di misurazioni di VA disaggregate, per non parlare di operazioni di massimizzazione. Nel settore dei trasporti per esempio sono sul tavolo investimenti pluriennali per 132 miliardi, mai valutati nemmeno in termini di analisi costi-benefici, metodo in sé irrinunciabile, ma probabilmente inadeguato per valutarne gli impatti sulla crescita economica. Di certo sono investimenti con pesantissimi impatti diretti sulle finanze pubbliche, al contrario di altri settori (come energia o banda larga), che presentano tassi potenziali di ritorno finanziario più favorevoli.
Per chiarire ulteriormente: una revisione di un piano nazionale di investimenti basata sul metodo del VA darebbe risultati molto diversi di quelli ottenibili basandosi sull’ABC: le priorità si sposterebbero probabilmente verso investimenti più orientati alla realtà produttiva. Inoltre, un’ottimizzazione a risorse date sposterebbe le scelte verso quelli con maggiori prospettive di ritorni finanziari, cioè con minori costi pubblici netti a parità di valore aggiunto. E le opere con rilevanti ritorni finanziari sono anche quelle che meglio si presterebbero alla partecipazione di capitali privati, che potrebbe aumentarne l’efficienza, oltre che diminuire l’onere sulle non floride casse pubbliche del paese.
Che fare in pratica? Se il governo spostasse maggiormente l’asse della spesa verso gli investimenti, dovrebbe procedere rapidamente a forme di valutazione comparativa semplificata di VA, anche per sostenere in modo trasparente il dibattito sulle priorità. Se le risorse pubbliche sono scarse, si tratta innanzitutto di prestare la massima attenzione a non sprecarle, ma si tratta anche di un problema di trasparenza, e quindi in conclusione di democrazia nelle scelte.
Forse è davvero utile superare il mantra “qualsiasi investimento pubblico fa bene alla crescita del Paese”, posizione tra l’altro largamente “bipartisan”. Può diventare, come tutti gli atteggiamenti fideistici, un mantra pericoloso.
*Marco Ponti è esperto della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
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