Un terreno in “regalo” alle coppie che decidono di avere un terzo figlio: il governo vorrebbe così risolvere due problemi: bassa natalità e spopolamento delle aree rurali. Ma la misura non risponde alle sfide poste dal rapporto tra demografia e sviluppo.
Nelle zone rurali serve innovazione più che il terzo figlio
Nell’articolo dal titolo “Interventi per favorire lo sviluppo socio-economico delle aree rurali italiane” della legge di bilancio vengono condensate, in poche righe, misure mirate a favorire la crescita demografica e lo sviluppo delle attività produttive nelle zone rurali e nelle regioni del Sud. Pensare di affrontare la crisi della natalità in Italia (tema che da troppo tempo è trattato in modo parziale ed estemporaneo) passando attraverso provvedimenti per il recupero delle campagne, fenomeno che ha proprie cause e specificità, ha sollevato un po’ di perplessità.
Lo spopolamento delle aree rurali è legato alla crescente attrattiva che l’economia urbana ha esercitato sui giovani a partire dal secolo scorso. La presenza di maggiori opportunità lavorative e di servizi nelle città ha progressivamente impoverito le campagne sia in termini economici che di forza lavoro. Come mostrano i dati Ocse, la spirale demografica ed economica negativa nelle aree rurali è stata interrotta solo nelle regioni in cui sono state messe in atto politiche virtuose, che hanno valorizzato le risorse locali promuovendo nuove funzioni economiche con capacità di coniugare tradizione e innovazione. In molte regioni italiane, invece, e specialmente al Sud, le politiche finora adottate prevedono interventi a supporto dell’agricoltura, senza un approccio più esteso al concetto di sviluppo rurale, riducendo quindi l’attrattività delle campagne con conseguente impatto demografico negativo (figura 1).
D’altra parte, pensare di aumentare le nascite inducendo le giovani coppie ad assumersi un rischio imprenditoriale, in un contesto economico incerto, sembra rivelare una scarsa comprensione delle radici stesse della bassa natalità nel nostro paese. Le politiche, come principio, dovrebbero favorire la realizzazione di ciò che le persone desiderano e sono portate a fare, in grado anche di produrre valore sociale e crescita. Invece, la misura proposta esclude dall’intervento le coppie che desiderano il terzo figlio, ma non si sentono particolarmente interessate a una attività rurale. Viceversa, cosa deve fare una coppia con due figli, interessata e portata a un lavoro di quel tipo, ma che non ha intenzione di avere un terzo bambino? Di fatto, quello che si dice è: “Se vuoi il terreno, dai un figlio alla nazione, anche se non era nei tuoi progetti di coppia”. E in tal caso, non contano doti, capacità, idee innovative e propensione all’imprenditorialità. Con quali esiti?
Politiche integrate per la natalità, non misure parziali
In concreto, chi sono dunque i “giovani” possibili destinatari della misura del governo? Dal punto di vista demografico, data la tardiva età media al primo figlio (31 anni, una delle più alte in Europa), larga parte delle donne con due figli sono più verso i 40 anni che i 30. Se si guarda alle intenzioni di fecondità, secondo i più recenti dati Istat, solo circa il 20 per cento di loro valuta l’opzione di averne un terzo.
Dal punto di vista occupazionale, invece, si trovano soprattutto in due condizioni: o hanno già acquisito da tempo una posizione solida nel mondo del lavoro, tanto da aver conquistato non solo autonomia dai genitori, ma da avere già una propria famiglia con due figli, oppure hanno deciso di avere due figli senza aver ancora stabilizzato il proprio percorso lavorativo (o avendo poi perso il lavoro). All’interno delle due categorie, a essere effettivamente interessate alla misura potrebbero essere, nel primo caso, le coppie che già operano in ambito agricolo; oppure, nel secondo caso, quelle che cercano di risolvere le difficoltà occupazionali riconvertendosi imprenditori in una zona rurale.
In sintesi, la misura sembra più portata a forzare talune scelte anziché supportare effettivi desideri (riproduttivi) e provate capacità (imprenditoriali); non si rivolge né ai giovani in senso proprio, né a categorie così ampie da pensare di poter incidere davvero sugli squilibri demografici, territoriali e di sviluppo; lascia fuori i (veri) giovani che stentando ad avere il primo figlio e il secondo, premessa necessaria per averne un terzo.
Come varie ricerche evidenziano, le politiche più efficaci sulla natalità sono quelle relative al primo e al secondo figlio, mentre quelle più urgenti sul rischio di povertà riguardano il terzo e i successivi.
Pertanto, un intervento a sostegno alla natalità in Italia dovrebbe essere il più ampio possibile sui beneficiari (ma nel contempo ben mirato sugli effetti) e, soprattutto, integrato con una profonda ristrutturazione del sistema delle politiche per la famiglia, nel quale rientrano misure per il lavoro e per la prima casa, agevolazioni fiscali per le famiglie con figli e misure a favore della conciliazione famiglia-lavoro e di condivisione di coppia (come il congedo di paternità, che rischia invece di sparire).
Se i persistenti freni all’arrivo del primo e del secondo figlio non vengono rimossi (figura 2), non può che destare perplessità, per il modesto e discutibile impatto atteso, la scelta di incentivare l’arrivo del terzo figlio per alcune limitate categorie. La politica italiana continua, insomma, ancora una volta a rivelarsi (in tutta coerenza con i governi precedenti) poco incisiva e poco all’altezza delle cruciali sfide che il rapporto tra demografia e sviluppo pone.
È l’intera Italia che, con politiche lungimiranti, deve poter tornare a essere un terreno fertile da dare – tutto e senza condizioni – alle nuove generazioni.
Figura 1 – Variazioni nella popolazione residente per provincia (anni 2012-2017). Elaborazione dati Istat
Figura 2 – Il sistema integrato di politiche a sostegno della scelta di avere il primo e il secondo figlio (e oltre)
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