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Reati tributari: non sempre punire di più è punire meglio

Si torna a parlare di modifiche dell’assetto penale tributario. Si andrebbe verso un inasprimento delle pene per rendere più efficace la lotta all’evasione. Nell’illusione che la sanzione penale incrementi di per sé la capacità dissuasiva del sistema.

Punire di più o punire meglio?

In questa convulsa fase politica, torna a ipotizzarsi una modifica dell’assetto penale tributario. Dei contenuti poco si sa, ma la direzione parrebbe quella di un inasprimento e ciò nel presupposto che così si renda più efficace la lotta all’evasione. Ma effettivamente si migliorerebbe in tal modo il contrasto all’evasione? V’è motivo di dubitarne.

L’idea di aumentare il livello di criminalizzazione della materia tributaria sembra una sorta di riflesso condizionato a cui è sottesa l’illusione che la sanzione penale incrementi di per sé la capacità dissuasiva del sistema.

In realtà, l’esperienza della legge 516/82 (la “manette agli evasori”) dimostra il contrario. Il numero dei procedimenti penali determinato dalla legge, infatti, portò da un lato, a un vero e proprio svilimento della sanzione penale (punire troppo in astratto equivaleva a punire poco in concreto). E dall’altro, a una paralisi delle procure (destinatarie di un numero sovradimensionato di notizie di reato, spesso per vicende di scarso rilievo) con conseguente largo verificarsi di casi di prescrizione e per di più con costi significativi per la collettività (un procedimento penale costa di più di un analogo procedimento punitivo amministrativo).

È per tali ragioni che, dopo poco meno di un decennio, si avviava una profonda rimeditazione dell’assetto penale tributario. L’esito della riflessione fu semplice e univoco: abbandono dell’opzione di penalizzare tutto, focalizzazione sulle ipotesi di frode con una risposta adeguata in termini di trattamento punitivo e, quindi, in grado di evitare casi di generalizzata prescrizione. È su tali basi che fu elaborato l’originario impianto del decreto legislativo 74/2000, incentrato sui delitti in dichiarazione (e non sui comportamenti premonitori), sulla sostanziale irrilevanza penale del semplice inadempimento (purché non connotato da elementi ingannevoli) e su pene edittali robuste (sino a 6 anni di reclusione).

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Ha funzionato? Pur con taluni limiti strutturali, si può dire di sì: meno processi penali, per vicende tuttavia di maggiore rilievo e un incremento dell’efficacia deterrente e repressiva del sistema. Quanto forse non è andato è, in realtà, esattamente il contrario di ciò a cui dovrebbe tendere la stretta punitiva a venire. Ben presto, infatti, il sistema tracciato dal Dlgs 74/2000 si è opacizzato con micro-interventi che hanno fatto sì che anche comportamenti sprovvisti di connotazioni artificiose siano stati attratti all’ambito della repressione penale (è il caso della criminalizzazione dell’omesso versamento dell’Iva ovvero delle ritenute certificate).

Ed è in tale contesto che è stato varato un nuovo “ritocco” con il Dlgs 158/2015. Una riforma invero a bassa intensità che, pur elidendo talune incrostazioni (previa affermazione dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale, della riformulazione del delitto di dichiarazione infedele, della revisione del delitto di dichiarazione fraudolenta) ha serbato una struttura ibrida, mantenendo (pur con soglia di punibilità incrementata) la criminalizzazione del mero inadempimento o comunque di condotte sprovviste di una chiara qualificazione fraudolenta. Tuttavia, seppure faticosamente, un equilibrio era stato trovato e il sistema sembrava ormai funzionare in condizioni di razionalità.

E ora?

Ora, invece, viene evocata una nuova revisione. Se si tratti di un nuovo ritocco o di un’ampia riforma non è dato sapere. Ciò che è certo è la linea ispiratrice della maggiore severità.
Ciò suscita alcune considerazioni. La prima è che un incremento del tasso di criminalizzazione dell’ambito fiscale sembra distonico rispetto alle stesse indicazioni governative. Se è vero, infatti, che un obiettivo dichiarato dei recenti provvedimenti è quello di evitare di gravare la posizione di quei contribuenti che “non ce la fanno” (vale a dire di quanti, per carenza di liquidità, non riescono ad adempiere ai propri obblighi fiscali), più che incrementare il livello di criminalizzazione occorrerebbe ritornare all’impostazione originaria del Dlgs 74/2000. Si dovrebbe cioè evitare di sanzionare il mero inadempimento non fraudolento invece di ampliare l’ambito applicativo dei reati tributari.

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La seconda considerazione trae spunto dall’esperienza, la quale dimostra che un’eccessiva penalizzazione non incrementa il livello generale di adempimento degli obblighi, ma rischia di svilire il ruolo della sanzione criminale nonché di congestionare la macchina repressiva pregiudicando l’effettività della pena; il tutto peraltro a costi superiori. In breve, l’illusione penalistica costa di più e rende di meno.

La terza considerazione è di natura strettamente punitiva. La pena edittale per i reati tributari prevede oggi la reclusione nel massimo sino a sei anni. Si tratta di un limite superiore a quello previsto per l’omicidio colposo e di poco inferiore a quello previsto per il cosiddetto omicidio stradale. Pur nella disomogeneità dell’elemento psicologico (dolo contro colpa), le ragioni patrimoniali dell’erario sembrano già avere un livello di tutela adeguato e non lontano da quello garantito dall’ordinamento penale dell’economia per reati di analogo disvalore. V’è allora motivo per rifuggire dall’idea che punendo di più (almeno in astratto) il sistema funzioni meglio in concreto e l’evasione fiscale arretri in maniera automatica. Prima di porre mano a una nuova stretta, perciò, è bene tenere a mente l’esperienza che suggerisce di maneggiare con cura la materia.

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  1. Antonio Rossi

    Molto interessante. Quale sarebbe, allora, lo strumento per incentivare i contribuenti diversi dai lavoratori subordinati ad onorare il loro debito tributario? Dobbiamo confidare in una ventata di calvinismo che attraversi il nostro paese?

  2. Qualewelfare

    “Il numero dei procedimenti penali determinato dalla legge, infatti, portò da un lato, a un vero e proprio svilimento della sanzione penale (punire troppo in astratto equivaleva a punire poco in concreto). ” …….tradotto in italiano? grazie

  3. Qualewelfare

    “a una paralisi delle procure (destinatarie di un numero sovradimensionato di notizie di reato, spesso per vicende di scarso rilievo) con conseguente largo verificarsi di casi di prescrizione e per di più con costi significativi per la collettività (un procedimento penale costa di più di un analogo procedimento punitivo amministrativo).” in effetti, povere procure… bene si potenzino gli apparati preposti, argomenti del genere sono inaccettabili su temi tanto rilevanti..ha mai fatto,il nostro autore, due calcoli sui danni alla collettività derivanti da 150 anni di evasione fiscale?

  4. Qualewelfare

    ma la vera chicca l’evidenza empirica portata a sostegno della tesi, un solo caso, la legge del 1982, in un solo paese consentirebbe di affermare che combattere l’evasione con la reclusione sarebbe illusione… capisco che i giuristi non siano avvezzi all’analisi empirica, però se vogliono scrivere su un foglio come La Voce dovrebbero sforzarsi..a meno che non dobbiamo intendere l’articolo come pura ideologia… o forse, chissà, un assioma..

  5. Roberto Zannotti

    In un’epoca di populismo penale non poteva mancare anche l’idea di inasprire le sanzioni per i reati tributari, proponendo addirittura di introdurre nuove fattispecie. E’ ora che la politica la smetta di utilizzare lo strumento della sanzione penale, che tanto in termini immediati non costa niente. Il diritto penale tributario ha bisogno di stabilità e quello introdotto nel 2000 era un modello tutto sommato equilibrato, adeguatamente dissuasivo e incentrato sulle condotte fraudolente. Mettere di nuovo le mani sulla legislazione penale tributaria, dopo il già criticabile intervento nel 2015, non servirebbe certo a scoraggiare gli evasori, ma sarebbe utile solo ad ingannare gli onesti. Non è solo con la sanzione penale che si combatte l’evasione. Servono leggi più semplici, aliquote più umane e soprattutto la volontà politica: le banche dati e gli strumenti attualmente a disposizione dell’Amministrazione sono già più che adeguati. Basta avere la volontà di farli funzionare, con personale sempre più preparato. Poi per gli evasori veri, le sanzioni penali e parafernali sono più che sufficienti. Le considerazioni dell’Avv. Di Siena sono condivisibili al 100%.

  6. Marco M.

    Bene punire penalmente il solo intento fraudolento, ma per l’enorme e forse incalcolabile evasione di sopravvivenza (o sarebbe meglio dire, convenienza) bisogna ideare degli strumenti più incisivi. Mi riferisco alla classica IVA o IRAP non versata, così come ai contributi INPS dei dipendenti. Le soglie di punibilità lasciano il tempo che trovano e le misure alternative (multe) sanno di sberleffo (se non posso o non voglio pagare i contributi ai miei dipendenti, dovrei pagare una multa aggiuntiva?). L’ambito è quello dei medi – piccoli imprenditori, dalle srl con pochi dipendenti alle ditte individuali. In quel caso che fare? Non è tanto il danno erariale il problema (in parte virtuale essendo attività che non possono reggersi da sole e che vanno avanti proprio perché riescono a non pagare tutto quello che dovrebbero pagare), ma l’effetto distorsivo sulla concorrenza e, con esso, le indirette conseguenze rispetto all’intero sistema (industriale, bancario, etc..). Bisognerebbe togliere lo status di imprenditore a chi non riesce ad esserlo. Peccato che ragionando in questi termini dovremmo forse escludere il 90% delle imprese, a cominciare da gran parte di quelle statali o parastatali.

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