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Senza soldi giornali meno liberi

Preservare fonti di informazione che ricerchino una rigorosa ricostruzione dei fatti resta l’unico argine alle fake news. Per questo i contributi pubblici ai giornali vanno mantenuti. Anche per evitare sospetti di censura da parte del governo.

Perché i contributi pubblici ai giornali

Tra i tagli annunciati dal governo nell’ambito della discussione sulla prossima legge di bilancio sono stati evocati anche quelli relativi ai contributi alla stampa, che ammontavano per il 2017 a circa 12 milioni di euro per le pubblicazioni di enti non a scopo di lucro e a 122 milioni di euro per le imprese editrici tradizionali, ancorché costituite in forma di cooperative giornalistiche, come richiesto dalla legge 250/1990.

Chi sono i beneficiari dei contributi? Nel primo gruppo, nel quale i contributi individuali – calcolati in base al numero di copie – rimangono nell’ordine di qualche decina di migliaia di euro, troviamo 108 pubblicazioni nella grande maggioranza dei casi legate alla Chiesa cattolica, tra cui quella più nota è il settimanale Famiglia Cristiana. Il secondo gruppo, invece, include 48 testate, alcune delle quali ben note al grande pubblico, quali Il Manifesto, Avvenire, Italia Oggi, Libero Quotidiano, oltre a numerose testate regionali o locali e a giornali rivolti alle minoranze linguistiche.

Le ragioni che stanno dietro il contributo pubblico sono da ascrivere ai tipici strumenti di sostegno del pluralismo, orientati a favorire una pluralità di fonti informative e culturali in modo che tutto lo spettro delle posizioni che costituiscono l’opinione pubblica venga adeguatamente coperto e rappresentato. Anche il contributo alle cooperative giornalistiche può ricondursi a questa motivazione nella misura in cui questa forma societaria consente di dar vita a iniziative che nascono dal basso e al di fuori dei grandi gruppi editoriali.

Queste ragioni permangono anche al giorno d’oggi, anche se spesso è stato sostenuto che la rete consente una diffusione capillare e molto più economica di quanto non avvenga con la stampa cartacea. All’osservazione tuttavia è facile opporre l’argomento secondo cui le attività giornalistiche interamente diffuse online non hanno ancora trovato, tranne rarissime eccezioni, un modello di business sostenibile, tanto più se pensiamo ai numeri relativamente contenuti di lettori a cui si rivolgono.

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Cos’è oggi il pluralismo

Se le motivazioni persistono, è quindi lecito chiedersi per quali ragioni una manovra finanziaria avara di tagli abbia individuato nei contributi alla carta stampata uno dei suoi obiettivi. È fin troppo facile notare che le testate che più sarebbero colpite appartengono tutte, con l’eccezione del quotidiano economico Italia Oggi, a posizioni politiche che si oppongono al governo Conte o nel fronte della sinistra (Manifesto) o dell’area cattolica (Avvenire, Famiglia Cristiana) o nel centro destra (Libero).

Sarebbe quindi saggio per un governo che sta riscuotendo un consenso molto elevato non prestar fianco ad accuse di censura. E se realmente la difesa del pluralismo e il ruolo di “cane da guardia” che nei sistemi democratici è affidato al giornalismo sta a cuore alla maggioranza, come voglio credere, mi spingerei oltre il semplice mantenimento dei contributi pubblici a un insieme sostanzialmente ristretto di testate. Ponendomi la domanda se, nei profondi cambiamenti che la rete ha apportato al mondo dell’informazione, non sorgano problemi e preoccupazioni, oltre agli indubbi meriti di aver ridotto i costi per la pubblicazione di contenuti e di aver moltiplicato a dismisura le fonti di informazione e intrattenimento.

Una riflessione oggi sul tema del pluralismo non può esimersi dall’affrontare almeno due temi rilevanti. Il primo riguarda uno dei servizi che l’attività giornalistica produce e che genera importanti effetti nel funzionamento dei sistemi democratici, vale a dire il giornalismo d’inchiesta. Come un economista ben comprende, una attività che genera una esternalità positiva non viene sufficientemente remunerata dal mercato e quindi tende a essere offerta in misura insoddisfacente. Fuor di accademia, impegnare un gruppo di giornalisti per mesi nell’indagine accurata su un fatto richiede grandi risorse che, nei tempi d’oro del giornalismo, erano sussidiate con i ricchi proventi delle altre attività. Oggi l’erosione dei ricavi pubblicitari raccolti dai giornali, la caduta nella circolazione e la difficoltà di sostituire i ricavi da copie cartacee con ricavi da abbonamenti online rendono questa attività sempre più precaria. Affidata sempre più alle veline che escono dai collegi degli indagati o dalle procure. Dove si manifesta un fallimento del mercato, è il contributo pubblico che può intervenire per correggere questa distorsione. Esistono quindi ragioni per estendere, invece che eliminare, il contributo pubblico alla carta stampata al di là del perimetro ristretto degli attuali beneficiari.

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Il secondo tema che oggi osserviamo riguarda uno degli aspetti più regressivi innescati dalla proliferazione di fonti di informazione facilitati dai bassissimi costi di entrata nella rete. Sono i fenomeni oramai ben conosciuti delle fake news e della parcellizzazione dell’opinione pubblica, costituita da miriadi di piccoli circoli che si confrontano solamente con altri utenti sulle stesse posizioni, in grado di trovare per ogni più bizzarra convinzione un sito che conferma, con tanto di dotta testimonianza di improbabili studiosi, le credenze più fantasiose.

Se siamo soliti considerare mercati frammentati con moltissime diverse varietà di prodotti come l’allocazione che dal punto di vista economico consente di servire al meglio i gusti e le preferenze eterogenee dei consumatori, così non è per i mercati dell’informazione. Dove la formazione dell’opinione pubblica vorrebbe l’esposizione anche a opinioni difformi e informazioni che siano in contrasto con le convinzioni stratificate dell’utente, in modo da farne un cittadino vigile e un attento controllore delle politiche pubbliche e dei governi. Era il ruolo che un tempo svolgevano i grandi giornali generalisti in mercati dell’informazione molto concentrati. Ed è quello che sta scomparendo sempre di più nel mondo “concorrenziale” della rete. Qui il finanziamento pubblico può fare poco. Ma preservare, anche con il contributo pubblico, una fonte di informazione che ricerchi in modo rigoroso la ricostruzione dei fatti, forse un panda in un mondo di voraci cavallette, resta l’unico argine alle fake news che oggi possiamo immaginare.

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17 commenti

  1. Savino

    Ieri in Tribunale è stato sancito il fallimento del modello giornalistico Travaglio, cioè del giornalismo nè d’inchiesta nè sull’inchiesta, ma per l’inchiesta, che, tra le altre cose, si vanta di non avere finanziamento pubblico. In attesa del pensionamento del modello Travaglio, precursore della post-verità e, ormai, fuori moda da quando non esistono più le Olgettine, si cominci a progettare, con il finanziamento pubblico a garanzia dei giovani cronisti, una informazione più empirica ed utile e meno ideologica e serva del potere, che stia più ai fatti e meno ai retroscena e ai ventilatori pieni di fango da far girare.

    • giovanni

      Savino, per i giovani che aprono start up ci sono già appositi contributi, ma perchè dei giornali di vecchie volpi che non riescono a stare sul mercato a causa della pessima qualità del loro prodotto dovrebbero ricevere i soldi dei contribuenti?

  2. Domenico

    Ecco puntuale la lobby della carta stampata. Qualcuno sa che i rimborsi che per qualche assurdo motivo lo stato da ai giornali NON e’ sul venduto ma sullo stampato. Questo spiega le tirature pompate e il numero di resi giornalierii.
    p.s. chi scrive e’ un giornalaio che prima lavorava nella stampa quotidiani. Quindi sui numeri farlocchi non si fa infinocchiare.

  3. ettore falconieri

    il finanziamento ai giornali è un’anomalia italiana – il primo problema del paese di cui nessuno parla è il giornalismo, il peggiore tra quelli delle democrazie occidentali. Con un giornalismo all’altezza gli altri problemi: politica, magistratura, burocrazia, sindacati. economia nera etc sarebbero meno tali

  4. Pradelli Edo

    ??????

  5. Emanuele

    Una domanda: i giornali (un esempio clamoroso è Il foglio, ma ce ne sono molti altri) che predicano su mercato, competitività, ecc. ecc. possono continuare ad essere sostenuti dal contribuente, se non sono capaci di camminare con le proprie gambe?

    • giovanni

      “Viva il libero mercato e la regolare competizione, ma solo se nel frattempo possiamo arraffare i soldi dei contribuenti.”

  6. Marco Spampinato

    Il dubbio che manchi informazione libera esiste. L’episodio che più di tutti mi ha spinto a pensarlo risale alla pubblicazione (2012) di un’analisi valutativa degli appalti di lavori pubblici del 2000-2008 (realizzata nel 2010). L’analisi mostrava due fenomeni importanti e interconnessi: la presenza di molte offerte tra loro (quasi) identiche, in gare d’appalto aggiudicate con la procedura di ‘esclusione automatica di offerte anomale’ (e in alcuni contesti la formazione di ‘offerte tipiche’); la chiusura ‘de facto’ dei mercati locali delle opere pubbliche ‘sotto soglia comunitaria’. Non mi ha tanto stupito il prezzo pagato per avere pubblicato lo studio (2012), condotto da componente di un’unità di valutazione pubblica, quanto l’assenza di queste ‘notizie’, sugli ampi fenomeni di gare ‘a prezzo omogeneo’, sulla stampa italiana. Ci furono due eccezioni: il Sole24Ore, con una pagina dedicata al caso della Sicilia; e questa rivista, che pubblicò l’articolo di un ricercatore italiano che aveva studiato, prima di me, le gare ‘al valor medio’ nel suo PhD (negli Stati Uniti). Quel ricercatore è più economista di me, ma aveva usato solo dati sul Centronord. Quando è stato possibile, sono andato io stesso negli Stati Uniti a studiare una disciplina più coerente con ciò che a me interessa comprendere. Resta il punto di questo silenzio garantito dalla stampa italiana -in altre faccende indaffarata, si direbbe.

  7. giovanni

    In merito a internet e al moltiplicarsi delle fonti di informazione: sì, è vero che adesso la competizione è massima, però quando internet non c’era i contributi li prendevate lo stesso e non si sentiva nessun giornalista lamentarsi per l’arrivo di soldi non dovuti.
    Ora queste, signor Polo, sono lacrime di coccodrillo!

  8. Davide

    1) Sono gli stessi giornali che si agitano in favore del libero mercato. Il libero mercato dice che se non vendono abbastanza copie, devono chiudere.
    2) I media tradizionali sono tecnologicamente inefficienti. Lei sta suggerendo di dare sussidi ad una industria tecnologicamente inefficiente?
    3) La maggior parte dei media tradizionali sono tutti schierati politicamente verso quel 30% che ha fatto male alle elezioni. Il 70% del mercato è altrove. La domanda vuole altro. L’offerta si adegui o sparisca. O sbaglio?

    • Federico Leva

      Manifesto e Avvenire si agitano in favore del libero mercato, siamo sicuri?

  9. Giuseppe GB Cattaneo

    La libertà di stampa non si preserva con i soldi publici. Negli Stati Uniti non c’è finanziamento statale della stampa in Russia si!

  10. Giuseppe GB Cattaneo

    Egregio professore, onestamente, si rende conto di quello che dice?

  11. bob

    in questo Paese ci sono 3 settori: edile, agricoltura, ristorazione dove la presenza di italiani è quasi scomparsa. Molte moltissime persone beatamente assistite sono ” braccia tolte all’agricoltura”. La libertà di informazione si difende sovvenzionando le scuole e la cultura. Mia nipote alle medie ha dovuto portare da casa la carta igienica e la carta per fotocopie……….roba da Uganda

  12. Pietro

    Eppure vi credevo intellettualmente onesti soprattutto quando vi proclamate liberisti (ma dove ?!?!?!). Il contributo statale a qualunque giornale, trasmissione o opera filmica suona come regalare soldi a chi non genera utili e che potrai controllare come un cagnolino al guinzaglio. Non a caso non conosco altri paesi democratici in un giornale viene pagato anche se non viene letto. Se poi mi venite a dire che la rete dei giornali associata al Corriere, a Repubblica e al Giornale hanno bisogno di soldi per essere indipendenti allora si passa dalla pura retorica della sovvenzione statale (liberali dove siete?) ad una conclamata presa per i fondelli. Abolizione totale di ogni sussidio ai media soprattutto quando hanno fini ideologici nemmeno tanto nascosti

    • bob

      attenzione non ci sono solo i quotidiani sovvenzionati, ci sono interi settori che se non avrebbero sovvenzioni chiuderebbero( trasporti, vino etc) la causa di tutto questo è la mancanza di linee guida che uno Stato dovrebbe indicare per sviluppare l’economia di un Paese. Invece una miriade di corporazioni di stampo medioevale ( basta pensare alle farmacie) sopravvivono perchè tolgono agli altri risorse. Report ha fatto vedere la redazione di un giornale di una cittadina con tiratura di 13 mila copie e 40 giornalisti assunti ( tiratura non copie vendute)…! E’ il caso di trasferire quelle braccia in edilizia, agricoltura o altro?

  13. Gasper Rino Talucci

    Dunque: le imprese produttive devono fuggire dall’Italia schiacciate da costi e tasse esorbitanti, i lavoratori devono lavorare fino a 70 anni perchè non ci sono soldi per andare in pensione, i giovani non possono essere avviati al lavoro perchè le aziende non possono sopportarne i costi… ma bisogna finanziare con soldi pubblici delle imprese obsolete come sono ormai i giornali. E’ come se si finanziassero ancora le carrozze a cavallo per garantire il pluralismo nei trasporti! Siamo al ridicolo!

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