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Verso la Brexit, tutti divisi e in ordine sparso

Si avvicina la data della Brexit, ma non l’accordo con l’Unione europea. La stagione dei congressi dei partiti ha ulteriormente spaccato il Regno Unito e i gruppi politici al loro interno. Ci sarà un nuovo referendum? Tutto dipende dai laburisti.

La stagione dei congressi

Ogni anno, le città della provincia inglese ospitano i congressi dei partiti politici. A turno Bournemouth, Brighton (dove nel 1984 l’Ira quasi riuscì nell’intento di assassinare Margaret Thatcher), Birmingham, Blackpool e altre città sono invase da orde di deputati, attivisti, cameramen e giornalisti. Il programma, rigidissimo, è controllato con mano di ferro dalle gerarchie dei partiti: dal podio ufficiale parlano solo ministri o ministri ombra, non l’opposizione interna, le mozioni su cui si vota tendono a essere sterili, approvate prima dalla leadership e in ogni caso non vincolanti. I media si sbizzarriscono in meticolose esegesi dei discorsi ufficiali (ha usato la parola “opportunità” diciassette volte, e “produttività” solo sei) e attente analisi della lunghezza degli applausi (Tizio è stato applaudito per tre minuti, mentre Caio per sette, e con i delegati in piedi). Ci sono poi raffiche di interviste, chi non ha accesso al podio ufficiale può mettersi in mostra agli incontri “paralleli”. Il feroce brexitista Boris Johnson, ministro degli Esteri fino alle dimissioni del mese scorso, ha utilizzato uno di questi incontri per lanciarsi in un attacco a Theresa May di ferocia inaudita, candidandosi così senza mezzi termini a sostituirla. Sembra però che sia riuscito solo ad alienarsi le simpatie dei molti attivisti, che per la loro età avanzata e il rispetto che nutrono per la tradizione e l’autorità sono profondamente ostili a ogni manifestazione di infedeltà al leader.

Mai dire “Norvegia”

Nella cacofonia di slogan e di frasi fatte, sembra però delinearsi un possibile esito della trattativa con l’Unione europea. In breve, la definirei NEIN: Norway Except In Name.

Sulla carta, la linea di Chequers, con la fumosa proposta di un mercato semi-comune, rimane la posizione ufficiale del governo, anche se madam May ha ammesso che sarà forse necessario fare ulteriori concessioni alla UE, vista la gelida ricezione che ha ricevuto in Europa (“non funzionerebbe”). Il modello norvegese è puro anatema per i brexitisti duri. Per un pro-europeo, la situazione è meno manichea: da un lato, se Brexit diventasse NEIN, ci sarebbero tutti gli obblighi dell’appartenenza senza alcun potere nella determinazione delle regole da seguire, ma dall’altro si eviterebbero molti dei danni economici della Brexit. Il governo rimane arrogante e intransigente e la parola “Norvegia” è rigorosamente vietata nel vocabolario ufficiale.

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Impossibile prevedere i futuri sviluppi: May ha probabilmente rinunciato all’appoggio di Johnson, Jacob Rees-Mogg e la banda di brexitisti fanatici, e forse spera di sostituire i loro voti con quelli di un numero sufficiente di deputati laburisti, convinti europeisti, ma che si sentono costretti dal loro elettorato a non opporsi alla Brexit. In un articolo nell’Observer, giornale domenicale di sinistra, madam May condanna duramente Jeremy Corbyn e cerca di convincere gli elettori laburisti moderati, quelli che ammiravano Tony Blair e “New Labour”, a dare la fiducia – e il voto – al programma “centrista” del suo governo. Nel frattempo, con manovra diplomatica a tenaglia, il ministro dell’Industria, Sajid Javid, un astro nascente del partito, con un ovvio occhio alla futura leadership, ha dedicato parte del suo discorso al congresso a cercare una politica razionale verso l’immigrazione, migliorando le condizioni di chi è già nel paese e garantendo via libera ai lavoratori qualificati. Al tempo stesso ha teso la mano alla sua controparte laburista, Diane Abbott, lei stessa migrante di colore di umili origini.

Divisioni in parlamento

Il congresso dei laburisti, qualche giorno prima dei tory, ha vissuto giornate di caos e contraddizioni: un giorno il ministro ombra dell’Economia, John MacDonnell, ha dichiarato che la leadership accetterà il voto del congresso sulla richiesta di un nuovo referendum, ma che all’elettorato non verrà presentata l’opzione di votare affinché il paese resti nell’UE: la scelta sarebbe dunque tra la padella della proposta del governo e la brace dell’uscita senza un accordo. Il giorno dopo, Keir Starmer, ministro ombra per la Brexit, ha affermato l’esatto contrario, sostenendo che, in assenza di un accordo che contenga un’unione doganale, i laburisti chiederanno un voto popolare con la possibile scelta che il paese rimanga nella UE. Jeremy Corbyn mantiene la sua linea ambigua, ripetendo il ritornello che i laburisti vogliono un accordo che sia positivo per il paese e protegga i lavoratori, ma non ha negato la posizione di Starmer.

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La spaccatura dei tory in parlamento sembra inevitabile. Il partito è diviso in tre gruppi: il primo – il più largo – voterà a favore di qualunque accordo May avrà raggiunto con la UE; a destra ci sono i brexitisti duri, come Johnson e Rees-Mogg, mentre a sinistra ci sono i ribelli pro-Europa, da Anna Soubry al decano dei comuni Ken Clarke. L’aritmetica parlamentare è incerta. I lib-dem e i nazionalisti scozzesi voteranno contro il governo, a favore di un nuovo referendum. Come due anni fa, l’ago della bilancia sarà Jeremy Corbyn: se la leadership Labour prendesse la decisione di appoggiare un nuovo voto popolare, questa scelta avrebbe certo una maggioranza in parlamento.

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  1. Henri Schmit

    L’evoluzione più probabile è che entro novembre ci sarà un accordo che rispetterà tutte le condizioni poste dall’UE ma sufficientemente fumoso (come il NEIN dell’articolo) per non rivelare l’amara sconfitta del governo di Sua Maestà, e dei Brexiter duri e puri. Poi sarà votato in Parlamento dove i Brexiter duri potrebbero comunque votare a favore sapendo di poter riaggiustare – cioè violare – l’accordo una volta loro al potere. L’UE fa bene non fidarsi della perfida Albione. Non ci sarà quindi né un referendum indetto dalla maggioranza né uno scioglimento con nuove elezioni, perché sembra ormai assodato che nel primo caso il Remain vincerebbe con una chiara maggioranza: 2,6 milioni di coloro i quali hanno votato Leave ora voterebbero Remain; molto meno hanno cambiato idea in senso inverso. Nell’ipotesi contraria di elezioni ravvicinate entro pochi mesi e con una vittoria del Labour non è detto né quale sarebbe la posizione della nuova maggioranza né se si organizzerebbe un nuovo referendum. In caso di referendum non è per nulla chiaro quale dovrebbe essere la scelta e il quesito. L’intera vicenda è un enorme pasticcio che reca danni all’UK e all’UE, ma che insegna che né l’appartenenza all’UE né l’UE stessa e quindi né l’appartenenza alla zona euro né l’euro stesso sono conquiste irreversibili, e che serve anche da monito per tutti mostrando che l’uscita è molto più difficile e ha molto più conseguenze impreviste e indesiderate di quanto superficialmente poteva sembrare.

  2. Carlo

    Complimenti vivissimi! Un riassunto molto chiaro e “factual” degli avvenimenti recenti, molto più chiaro di quanto scritto dalla stragrande maggioranza dei giornali. Solo un refuso: Javid è ministro dell’Interno.

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