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Nuovo crocevia per Alitalia

Se non vuole ritrovarsi nel classico vicolo cieco, il governo deve scegliere nuove strade per Alitalia. Puntando al riequilibrio economico attraverso un piano d’impresa che aggiusti un modello di business che non funziona, per farlo divenire sostenibile.

Evitare soluzioni inopportune

Sul caso Alitalia, uno dei dossier più urgenti sui tavoli ministeriali, il nuovo governo si è espresso con diverse dichiarazioni dei suoi esponenti. Vanno nella direzione di un più ampio e diretto impegno pubblico per la soluzione della crisi, pur non prevedendo necessariamente un futuro controllo pubblico. Date le condizioni delicate del vettore, sinora solo in parte documentate dai pochi dati gestionali pubblicati dai commissari e necessariamente destinate a peggiorare con la fine della stagione ad alta domanda, conviene analizzare sinteticamente le diverse strade che si aprono al crocevia dei decisori pubblici. L’obiettivo è di distinguere tra quelle senza uscita, quelle praticabili ma inopportune e quelle opportune ma difficili.

Strade opportune e facili non ve ne sono, come si può facilmente comprendere.

La strada senza uscita è quella già intrapresa dal precedente governo al momento del commissariamento: la vendita immediata di Alitalia nelle sue condizioni correnti. Per poter vendere qualcosa serve un compratore e un compratore potenziale di un vettore in dissesto non può che essere qualcuno che si ritiene in grado di risanare rapidamente ciò che sta comprando. Non vi era in realtà nessuno: infatti tutti coloro che si sono affacciati alla procedura di gara hanno manifestato l’intenzione di prendersi singole parti, compatibili con la loro realtà d’impresa, ma non il tutto.

Per vendere singole parti il governo avrebbe dovuto accettare pertanto di “nazionalizzare” i numerosi esuberi, ponendo sulla finanza pubblica, come già nel 2008, un costo pluriennale più consistente rispetto a un sostegno pubblico diretto alla ristrutturazione (il costo del 2008 supera i 4 miliardi, un valore col quale Alitalia avrebbe potuto comprare un certo numero di aerei di lungo raggio).

Le strade praticabili ma inopportune sono due e simmetriche. La prima è l’ulteriore ridimensionamento del vettore, come già realizzato con risultati profondamente negativi nel 2001, nel 2008 e nel 2014, come la gestione Etihad avrebbe voluto ripetere anche ne 2017 e come i commissari hanno in parte attuato con la cassa integrazione di un dipendente ogni sette e il taglio dei voli offerti. Nelle precedenti esperienze i tagli hanno ridotto i ricavi più rapidamente dei costi, preservando invece invariate, o addirittura accrescendo, le perdite.

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Se questa strada è sbagliata lo è tuttavia altrettanto quella di segno contrario, un’inversione a U in mezzo alla pista consistente in un piano di rapido sviluppo con ampliamento della flotta e investimenti plurimiliardari, magari sostenuti dalla finanza pubblica. È evidente che se un diverso modello di business si rivela sostenibile allora il percorso naturale è la crescita e non la stazionarietà, ma la crescita è praticabile solo dopo che l’azienda ha dimostrato di poter equilibrare i suoi conti. Altrimenti l’espansione non avrebbe altro effetto che la moltiplicazione delle perdite.

Come arrivare al riequilibrio economico

Se non si vogliono percorrere vie senza uscita né vie facili che, come in passato, porterebbero a disastri certi, non resta che perseguire risultati favorevoli attraverso sentieri difficili e sinora non praticati. L’obiettivo chiave è il riequilibrio economico, precondizione per ogni successivo percorso di crescita. Lo strumento è un piano d’impresa che aggiusti con decisione, ma anche con gradualità e senza forzature, l’attuale modello di business non funzionante sino a farlo pervenire a uno differente che sia sostenibile. Purtroppo, questo piano non lo può elaborare nessun partner, né industriale né, a maggior ragione, non industriale. Non lo può fare un vettore low cost perché il suo modello point to point non è replicabile su un vettore network e inoltre perché il suo obiettivo è quello di servire con profitto segmenti specifici di domanda ma non, la generalità del mercato, come fa un vettore ‘nazionale’. E non lo può fare neppure un grande vettore network in quanto i tre grandi europei godono tutti di ricavi unitari maggiori dei costi, principalmente grazie al fatto di avere ricavi unitari decisamente più elevati di Alitalia. Coi loro yield Alitalia sarebbe profittevole e priva di problemi, mentre con gli yield di Alitalia essi sarebbero tutti in perdita.

In un’audizione parlamentare alla metà di maggio i commissari hanno indicato in 6,9 eurocent per passeggero km il provento unitario di Alitalia tanto nell’anno 2017 quanto nel precedente. Per il 2017 il bilancio consolidato del gruppo Lufthansa riporta per l’insieme dei suoi vettori network ricavi passeggeri per 23,3 miliardi di euro a fronte di 218,5 miliardi di km volati. Questi dati danno luogo a un provento unitario di 10,7 eurocent per passeggero km. In sostanza per un passeggero che vola mille km i vettori del gruppo Lufthansa incassano mediamente 107 euro, mentre Alitalia solo 69. I due numeri spiegano perché Lufthansa non fosse disponibile ad acquisire l’intera Alitalia: evidentemente non riteneva di poter operare con costi inferiori ai proventi sull’intera offerta del vettore italiano. Le grandi compagnie europee godono di yield superiori ad Alitalia in quanto operano in mercati nazionali in cui le low cost sono ben distanti dalle quote di mercato complessivamente raggiunte in Italia (è il caso di Germania e Francia) oppure nei quali si sono ritratti per tempo dai segmenti dei quali i low cost si stavano impadronendo (è il caso della Gran Bretagna). Non sono pertanto in grado di aiutare un’Alitalia che ha non solo ricavi unitari ma anche costi sensibilmente più bassi di loro. Il decisore pubblico italiano è completamente solo e non può permettersi di sbagliare come tutti i suoi predecessori. Tocca a lui avviare con successo la svolta di Alitalia, inizialmente senza poter modificare molto la flotta né contando su yield meno svantaggiosi ma rivedendo rotte, uso dei velivoli, politiche di prezzo e contratti tuttora svantaggiosi coi fornitori. Solo dimostrando che Alitalia può tornare in equilibrio potrà attrarre, in un secondo momento, gli investitori privati e i cospicui capitali indispensabili per completarne il rilancio.

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Il Punto

  1. Federico Leva

    Ben scritto ma alla fine della fiera Ugo Arrigo conclude che non si possono incrementare i ricavi per passeggero e quindi si può solo intervenire sui costi «rivedendo rotte, uso dei velivoli, politiche di prezzo e contratti tuttora svantaggiosi coi fornitori». A parità di voli, “rivedere rotte” significa inevitabilmente anche chiuderne qualcuna e scontentare qualche aeroporto o provincia.

    Davvero un amministratore pubblico/politico è piú adatto a prendere tali decisioni di, chessò, Lufthansa? Ulrik Svensson di Lufthansa il 26 aprile 2018 alla stampa ha dichiarato che Lufthansa si offriva di fare esattamente questo, rilevare tutto a condizione che si ammettesse che bisogna rivedere le destinazioni ecc.

    Il problema allora non è se il proprietario è questo o quello, ma se si ammette che bisognerà rinunciare a certi servizi. Lasciamo che Alitalia sia gestita da qualcuno immune ai campanilismi italioti, poi se qualche rotta in perdita è davvero un servizio irrinunciabile la si finanzi in modo trasparente con un bando come per il trasporto pubblico locale. I cittadini potranno poi scegliere se preferiscono investire i denari del proprio ente locale in aerei o in treni o altro.

  2. Michele

    La gestione del problema Alitalia da parte del Governo Gentiloni e del Ministro Calenda si è rivelata fallimentare. I commissari hanno fatto un buon lavoro, ma la vendita è impossibile. Significherebbe accollare ai contribuenti italiani un’altra enorme spesa, come quella della ristrutturazione del 2008 targata Berlusconi (7 mld il costo a carico dei contribuenti, anche grazie alla tassa sui biglietti aerei che continuiamo a pagare). La privatizzazione si è rivelata un disastro per ben due volte, caricando sulla collettività costi enormi. Alla faccia di tutte le ideologie sugli effetti taumaturgici dei privati. A questo punto molto meglio nazionalizzare la società al 100%, investire i costi che comunque sarebbero a carico dei contribuenti per rilanciare la società. Sembra che le perdite siano state ridotte a 250 milioni anno. Con 7 mld si coprono le perdite per 28 anni. Lasciando lavorare i commissari magari prima della pensione ce la fanno a portarla a breakeven.

  3. Henri Schmit

    Non è facile formulare giudizi semplici, ma l’articolo dimostra che non è impossibile. Difficile essere in grado di valutare correttamente (non basta essere eletti, per intenderci), ancora più difficile agire di conseguenza.

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