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Gli effetti negativi del decreto dignità: il se e il quanto

Il decreto dignità farà salire il costo del lavoro, causando una riduzione di occupazione. Un calo quantificato in ottomila persone da Inps e Ragioneria dello stato. Ma non dal ministro Tria che non contesta i numeri quanto il metodo di calcolo.

Il decreto dignità e il lavoro

Il 12 luglio – dieci giorni dopo la sua approvazione in Consiglio dei ministri – è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il decreto legge 87 del 2018, il cosiddetto “decreto dignità”. Il decreto contiene varie misure eterogenee, come il divieto alla pubblicità del gioco d’azzardo, nuovi limiti alle delocalizzazioni e – nel suo articolo 1 – una stretta sul ricorso ai contratti a tempo determinato. L’obiettivo di quest’ultima parte del provvedimento – sulla cui efficacia giuridica si è già espresso Pietro Ichino – è quello di disincentivarne l’impiego, per favorire e accelerare la transizione verso i contratti stabili. La durata complessiva dei contratti a tempo determinato scende da 36 a 24 mesi e il numero delle proroghe ammissibili passa da cinque a quattro. Dopo i primi dodici mesi ritorna la necessità di indicare le causali – cancellate dal decreto Poletti del 2014 – in base alle quali l’azienda ritenga di proseguire il rapporto di lavoro a tempo determinato. E di queste si limita l’ammissibilità: occorre cioè che sussistano esigenze dovute a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria, la necessità di sostituire altri lavoratori in ferie oppure quella di far fronte a picchi di produzione.

Alla stretta regolatoria, il decreto aggiunge quella contributiva: ogni rinnovo, anche al di sotto dei 12 mesi, prevede che i contributi sociali crescano dello 0,5 per cento andando a sommarsi all’1,4 per cento che dal 2012 finanzia la nuova indennità di disoccupazione, la Naspi.

Le novità valgono per i nuovi contratti ma anche per rinnovi o proroghe di quelli in corso.

La stima degli effetti del decreto

I decreti – per essere valutati dal Parlamento ai fini della loro conversione in legge – devono essere corredati di valutazioni quantitative delle loro conseguenze sull’economia e sui conti pubblici. Nella maggior parte dei casi, la quantificazione è una valutazione effettuata in condizione di incertezza facendo l’uso migliore possibile dei dati esistenti da parte del ministero dell’Economia o di altre agenzie delle amministrazioni pubbliche che abbiano i mezzi per effettuare tali stime. Le stime sono poi sottoposte all’approvazione del dipartimento del ministero dell’Economia a questo preposto, la Ragioneria generale dello stato. Al contrario di quanto affermato anche dal ministro Luigi Di Maio non c’è nessuna “manina” occulta che aggiunge numeri notte tempo, ma un concorso di risorse mentali pubbliche che devono svolgere questa funzione. Per legge, non per lobbismo.

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In questo caso, la Relazione tecnica allegata al decreto contiene una stima degli effetti della riduzione del limite massimo della sola durata dei contratti. È stata predisposta dall’Inps e condivisa (con il solito “bollino”) dalla Ragioneria. La stima parte da qualche dato e ipotesi, descritti sommariamente nel documento. Ci sono circa 2 milioni di contratti a tempo determinato attivati ogni anno (al netto dei lavoratori stagionali, agricoli e della pubblica amministrazione, inclusi i lavoratori soggetti a somministrazione). Il 4 per cento del totale (80 mila) supera la soglia dei 24 mesi ed è quindi soggetto al rischio di non riconferma. Di questi – si assume, in modo plausibile – il 10 per cento circa (il tasso di disoccupazione prevalente oggi in Italia) potrebbe non trovare un’altra occupazione, il che porta a concludere che nel 2019 circa 8 mila soggetti (e 3 mila nello scorcio di mesi prima della fine del 2018) sarebbero interessati da questo provvedimento – un numero che rimarrebbe costante negli anni futuri. Sotto queste ipotesi, la perdita di occupazione sarebbe dunque in tutto di ottomila unità. Una perdita risibile sul totale degli occupati anche solo a tempo determinato. Ma con vari effetti sul bilancio pubblico per le minori entrate contributive e le maggiori uscite per le indennità di disoccupazione (la tabella che li elenca in dettaglio sul numero delle persone coinvolte e sul bilancio pubblico è riportata sotto).

Tabella 1

Le stime Inps e gli irrituali attacchi del ministro dell’Economia

Le stime riportate mostrano effetti limitati e soggetti a varie incertezze. Potrebbe darsi il caso che almeno una parte della perdita dei posti di lavoro sia rimpiazzata da nuovi lavoratori, in precedenza non occupati o disoccupati, o che una parte dei lavori a tempo determinato sia trasformata in lavori a tempo indeterminato. In tutti questi casi, si ridurrebbe l’effetto negativo del provvedimento sul lavoro e sull’ammontare di coperture di finanza pubblica rispetto a quanto riportato nella tabella. Potrebbe anche darsi che la frazione di coloro che rimangono disoccupati a seguito del provvedimento sia maggiore o minore del 10 per cento del totale. E – soprattutto – c’è da aggiungere che, se si volesse quantificare nel suo insieme l’articolo 1 del decreto, ci sarebbe anche da contare che il provvedimento comporta effetti addizionali dovuti alle causali – non quantificati nella relazione – che aumenteranno gli effetti negativi del decreto.

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Nell’insieme, non c’è chiara evidenza di sotto o sopravvalutazione dei fenomeni descritti nelle stime presentate nella Relazione tecnica. La sola cosa sicura è che gli effetti complessivi del decreto dignità sull’occupazione saranno negativi perché il decreto aumenta il costo del lavoro, al che di solito fa seguito un calo dell’occupazione.

In questo quadro suona davvero irrituale l’affermazione del ministro dell’Economia Giovanni Tria che ha definito “prive di fondamento scientifico” le stime prodotte dall’Inps e validate da un dipartimento del suo ministero come la Ragioneria generale. Peraltro, senza che siano state fornite stime alternative. Da un docente universitario che si sposta sulla difficile poltrona di ministro dell’Economia ci si aspetta che smetta di fare il professore per sporcarsi le mani con l’ardua arte di fare le previsioni e di quantificare i provvedimenti, non che si unisca alla caciara della politica. Il ministro Tria stavolta ha preferito fare diversamente, contestando metodologicamente le stime necessarie per orientare la discussione parlamentare. Un peccato, ma anche un grave errore da parte di chi rappresenta l’Italia nelle discussioni a Bruxelles.

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30 commenti

  1. Serendippo

    Se dopo alcune considerazioni molto elementari gli effetti del decreto dignità su un calo dell’ocupazione sono “limitati e incerti”, perché non scrivere nella relatecnica che gli effetti sono limitati e incerti. Insistere per riportare una cifra, 8000, per quantificare un rischio, mi sembra inutile e scorretto.

    • Giorgio Bidoli

      Perché insistere nel riportare una cifra?
      Non sono un economista, né un politico con “P” o la “p”. Sono un cittadino anche un po’ ignorante, forse, ma rispettoso del pensiero altrui, anche se ho le mie idee politiche.
      Ho letto con interesse l’articolo del prof. Daveri che ho trovato “chiaro e sobrio”, esattamente come trovo spesso comprensibile il linguaggio di Boeri, cosa non scontata in chi ha una veste pubblica.
      Trovo un po’ sorprendente (lo dico in senso generale) questo scambio di opinioni che mi sembrano abbiano un po’ tutte il “sapore del primo della classe”. Al commento di Serendippo, le cui considerazioni sarebbero legittime (“…perché riportare una cifra, cosa a suo dire inutile e scorretto”) vorrei tuttavia evidenziare che, per quanto mi è dato di capire, “i numeri all’INPS” sono stati chiesti proprio dal Ministero del Lavoro. Questo già lo si leggeva il 17 Luglio sulla Stampa, prima dell’articolo del Prof. Daveri: “Tutto inizia il 2 luglio, quando l’ufficio legislativo del ministero del Lavoro scrive all’Inps per chiedere di predisporre «con la massima urgenza» la platea dei lavoratori coinvolti «al fine di quantificare il minor gettito contributivo». Quanto affermato dallo stesso Boeri nell’audizione di ieri alla Camera lo dimostra e spiega la necessità di aver dovuto parlare di numeri.
      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/07/19/decreto-dignita-boeri-smonta-la-teoria-della-manina-relazione-tecnica-sei-giorni-prima-della-trasmissione-al-colle/45

  2. Asterix

    Vorrei che il Dott. Daveri mi spiegasse perché quando furono apportate le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato con il Job act del 2015, ora in parte modificate dal Decreto Dignità, non furono stimati costi o benefici per l’Erario o effetti positivi sui posti del lavoro. Invece, improvvisamente, invece, quando il Governo attuale interviene esce fuori nella RT che stima una riduzione dei posti provocati dal decreto. Peraltro nella RT non viene fornita alcuna fonte statistica del tasso di mancata conversione, puramente arbitraria. Inoltre, per esservi una reale perdita di ore lavorate le imprese dovrebbero subire una contrazione delle commesse (non stimabile da nessuno) altrimenti semplicemente per le medesime ore di lavoro utilizzeranno altre tipologia di contratto per sostituire il lavoratore a tempo determinato. Ci sarà un maggiore turn over fra lavoratori non perdite di posti di lavoro. Eventualmente sarebbe da chiedersi come mai anche dopo la riforma del Job act le imprese italiane non sono state incentivate alle assunzioni a tempo indeterminato.

    • francesco daveri

      Caro Asterix, quante domande. Rispondo lo stesso nonostante la sua detestabile scelta di rimanere anonimo. In generale, mi pare che le piaccia la tesi del complotto che non sono in grado di valutare.
      Le stime non le ho fatte io né ora né allora. Io mi limito ad osservare da fuori con la mia testa.
      Come tutte le leggi anche il Jobs Act del 2015 sarà stato corredato di una Relazione Tecnica di accompagnamento che sarà probabilmente disponibile su Internet.
      Le stime sono sempre perfettibili per definizione. Ma si ricordi che tutti particolari che lei indica per essere quantificati richiedono ipotesi arbitrarie sui parametri. inoltre senza una stima iniziale da criticare tutti i sapienti che arrivano DOPO farebbero molta più fatica a esercitare il loro legittimo diritto di critica.
      In parallelo con il Jobs Act furono introdotti gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato. Furono molto criticati perché costosi e così furono abbandonati.
      Infine, nel mio pezzo, indico anche che le stime potrebbero anche essere approssimate per difetto perché la RT quantifica solo una parte delle implicazioni dell’articolo 1 (tralascia l’effetto delle causali).

      • Asterix

        Dott. Daveri, lei ha ragione sull’uso dello pseudonimo, ma purtroppo immagino possa comprendere che non tutti abbiamo la fortuna di avere un posto fisso all’Università. Comunque soffermandoci non sul soggetto da chi viene la domanda, ma piuttosto sul merito della questione, quello che, ripeto senza alcuna volontà polemica, volevo sottolineare è che la RT del job act, giustamente, non stimava per prudenza i maggiori posti del lavoro perché una norma non crea posti, ma sono le scelte imprenditoriali. Quindi, parallelamente, qualora, peraltro parzialmente, vengono reintrodotte norme modificate dal jobs act, non si dovrebbero, per prudenza, stimare perdite di posti di lavoro ma solo maggiore turn over. Soprattutto perché le stime ISTAT della crescita del PIL sono costanti e non prevedono un crollo degli investimenti privati (quello si genererebbe una perdita di posti di lavoro). Quindi, a parità di commesse, il decreto dignità, sicuramente migliorabile perché contiene molte norme inapplicabili, potrebbe favorire una sostituzione nelle tipologie contrattuali o turnover tra lavoratori, ma non genererà né disoccupazione né lavoro nero, perché l’impresa (onesta) avrà comunque bisogno di qualcuno che faccia quel lavoro. Piuttosto le suggerisco di indagare sul limite dei 15 dipendenti ai fini dell’applicazione dello Statuto dei lavoratori e sull’impatto che ha sulle politiche delle PMI di conversione dei contratti a tempo indeterminato.

        • filippo rossini

          Caro Asterix, io concordo pienamente col professor Daveri, invece.
          La scelta del nickname nonostante l’invito della redazione a firmare con nome e cognome i propri commenti a mio avviso denota scarso senso di responsabilità riguardo a ciò che si scrive, e non serve essere professore universitario per capirlo, nè tantomeno il “posto fisso” all’università (che lei evidentemente identifica come una sorta di immunità contro ipotetiche “ritorsioni” per le proprie opinioni, e non anche come un attestato di merito della persona in un determinato campo), affermazione fra l’altro curiosa perchè contiene una velata accusa all’interlocutore di “giudicare” il soggetto e non l’oggetto, utilizzando però proprio tali modalità.
          Le consiglio la lettura a tal proposito dello scritto di Freud “Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa”.
          Credo inoltre sia offensivo commentare con tesi complottiste, ipotesi formulate su wikipedia, o accuse di “partigianità politica” il lavoro serio e puntiglioso del professor Daveri che ancora una volta offre un prezioso servizio informativo da questa piattaforma: nella maggior parte dei commenti si notano particolare attenzione al dato “politico”, mentre il contenuto dell’articolo a mio avviso vorrebbe soffermarsi invece sul significato della RT, come riportato verso la fine dello stesso, e cioè che logicamente se aumenta il costo del lavoro, l’occupazione tendenzialmente calerà.
          A mio avviso, opporsi in modo astratto a tale tesi è politica e non scienza

  3. Henri Schmit

    Analisi precisa e giudizio ineccepibile! Non ho invece capito la critica puntuale dell’ex ministra ME Boschi la quale, beneficiando senz’altro di informazioni privilegiate, ha stimato – sui social poi riportati dagli altri media – la perdita di posti di lavoro come effetto del famigerato dl a 80.000 unità. Ha calcolato l’effetto decennale o ha usato un altro algoritmo per arrivare a una cifra così precisa? Ah, se ci fossero ancora i grandi politici esperti e capaci delle precedenti legislature!

    • gmn

      8.000 x 10 = 80.000
      (cosa non si fa per poter tirare al solito piccione!)

  4. Alessandro Bellotti

    Mah, si tratta di un calcolo che lascia il tempo che trova. Soprattutto se pensato avanti 10 anni. 8000 posti di lavoro in più o in meno in un anno sono una nullità. Ben altri numeri andrebbero presi in esame. Perché continuare a parlare di numeri insignificanti ?

  5. Claudio Resentini

    Senza entrare nel merito della polemica penosa, tutta politica (con la “p” minuscola) sulla “manina”, è del tutto evidente che uno studio che ignori completamente l’effetto di “sostituzione” che avrebbe luogo in uno scenario di difficoltà delle aziende di estendere a 36 mesi i contratti a tempo determinato, a me sembra uno studio molto poco scientifico. In parole povere se le aziende non potranno rinnovare i contratti a t.d. dopo 24 mesi e avranno necessità di personale, dovranno convertirli in contratti a tempo indeterminato o porre in essere altri tipi di contratto, portando quindi in sostanza ad un saldo non negativo in termi di posti di lavoro e di entrate fiscali e contributive. Non credete?

    • Michele

      Assolutamente d’accordo. Il metodo di calcolo degli effetti del decreto sembra fatto apposta solo per segnalare una diminuzione dell’occupazione, con tutti i risvolti mediatici del caso. Poi che il metodo di calcolo non tenga conto dell’effetto “sostituzione” oppure che il risultato sia statisticamente irrilevante, non cambia i titoli dei giornali.

  6. Michele

    A mio giudizio la relazione tecnica utilizza un metodo di calcolo ben bizzarro e senza fondamento logico. Se il 4% dei contratti a t. determinato supera i 24 mesi e quindi è a rischio di rinnovo perche il 10% dovrebbe non essere rinnovato o sostituito con altri contratti? Cosa c’entra il livello di disoccupazione? Se il livello attuale di attività economica necessita di un determinato numero di unità di lavoro, perché un cambiamento della normativa sui contratti a t. determinato dovrebbe cambiare tale fabbisogno? Oltretutto riducendo il fabbisogno di unità di lavoro, cosa che vuole dire che – a parità di output – aumenta la produttività!
    Inoltre non regge neanche l’affermazione che gli effetti del decreto siano negativi perché “il decreto aumenta il costo del lavoro, al che di solito fa seguito un calo dell’occupazione”. In primo luogo l’aumento del costo del lavoro è irrisorio: 0,5% di maggiori contributi sui rinnovi a t. determinato. Irrilevante nelle decisioni se rinnovare o meno un contratto. In secondo luogo – di nuovo – i fabbisogni di unità di lavoro dipendono fondamentalmente dal livello di attività produttiva e il possibile aumento del costo del lavoro è facilmente evitabile con altre forme contrattuali: ad esempio trasformando il t. determinato in un contratto a t. indeterminato. Proprio l’obbiettivo del decreto.

    • francesco daveri

      La relazione (che – ribadisco – non ho scritto e di cui posso solo offrire un’interpretazione) indica che il 90 per cento dei contratti sarà rinnovato ma un 10 per cento no. SEcondo lei sarebbe il 100 per cento: perché non si sa. Il fatto che il livello attuale dell’attività economica necessiti di “un determinato numero di unità di lavoro” non è vero. la frase vale DATO il costo del lavoro, direi. in un’economia di mercato non ci sono i coefficienti fissi. e il costo del lavoro è dato da componenti variabili (il contributo sociale che lei giudica irrisorio: su che base non si sa) ma anche da componenti fisse come i requisiti sulle causali e simili. a priori lei considera questi elementi irrilevanti. ma le faccio notare che questo suo assunto soffre della stessa o peggiore arbitrarietà che lei critica nel metodo di calcolo seguito nella RT. Infine, il decreto (e lei) assume che basta rendere più costoso il tempo determinato per trasformare automaticamente un tempo determinato in un tempo indeterminato. altra ipotesi arbitraria (e anche irrealistica, se ha mai avuto esperienza di attività economiche)

      • Claudio Resentini

        Prof. Daveri, le critiche che lei fa al suo interlocutore non dovrebbero essere risparmiate neppure alla RT. Anche lì su quale base si possa ipotizzare una disoccupazione del 10% delle persone “lasciate a casa” in base ad un eventuale rinnovo oltre i 24 mesi non si capisce proprio. Lei mi insegna che estrapolare un dato dall’universo delle forze lavoro ad un sottoinsieme di persone che hanno lavorato fino all’altro ieri è quanto di più campato per aria esista. Molto meno campata per aria è sicuramente l’ipotesi, che lei indica sdegnosamente come fallace (su che base non si sa) che un’attività economica che fino all’altro ieri necessitava “di un determinato numero di unità di lavoro”, ne abbia ancora bisogno. Non si capisce davvero quali siano i criteri per cui alcune bizzarre estrapolazioni, siano accettabili ed altre, assai meno bizzarre, non lo siano. Sospetto però che si tratti di un criterio eminentemente politico.

        • Claudio Resentini

          ERRATA CORRIGE: ovviamente alla quarta riga intendevo dire “eventuale MANCATO rinnovo”

          • francesco daveri

            Cosa sia bizzarro e cosa no è una questione di gusti. Lei assume che il decreto non produca nessun effetto tranne che sul turnover. Ed è ottimista sulla conversione dei lavori a tempo determinato in tempo indeterminato. La RT riflette una visione diversa, forse ritenendo – a mio avviso a ragione – che rendere più difficile i rinnovi con divieti e restrittività varie possa ridurre la creazione di posti di lavoro. Se ne può discutere, come ho fatto con il mio articolo e con i commenti, se possibile indicando previsioni migliori: il ministro Tria non ha fatto questo. e tirare fuori complotti e manine come ha fatto il ministro del Lavoro invece non va bene.

      • Michele

        Gentile Prof.Daveri, sono ovviamente d’accordo con Lei che in una economia di mercato non ci sono coefficienti fissi. Tuttavia davvero Lei ritiene che un incremento dello 0,5% sui contributi di una quota parte minoritaria dei FTE sia tale da determinare una riduzione del livello di attività? Altrimenti non si scappa: ipotizzare una riduzione dei rinnovi dei contratti significa ipotizzare un incremento della produttività a causa del Decreto Dignità! Bastasse così poco! Grazie per l’attenzIone

  7. gmn

    Un elemento trascurato dai commentatori avversi è che la relazione tecnica DEVE mettere in evidenza eventuali costi per il bilancio dello stato. Quindi DEVE prevedere, in regime di incertezza sugli esiti del provvedimento, il caso peggiore. Solo nel caso di evidenti inevitabili effetti positivi potrebbe evitarli. Immagino che la relazione tecnica sul contratto a tutele crescenti con incentivo abbia stiomato maggiori esborsi a fronte di maggiori assunzioni. In termini politici non è stata attaccata perchè nessuno era contro maggiori assunzioni. Qui è diverso per la cattiva implementazione di misure contro il precariato che hanno completamente sbagliato obiettivo.

  8. Michele

    La flessibilità del fattore lavoro è una droga per le imprese. Nel breve aumenta la performance, nel medio termine può uccidere. Noto in giro una certa isteria nel reagire al Decreto Dignità tipica del “addiction to drugs”. Qualunque cambiamento, anche oggettivamente poco o nulla rilevante, che vagamente inverte la rotta della precarizzazione crescente viene subito indicato come causa di riduzione dell’occupazione (moderna ordalia, però molto in conflitto di interessi). In the real-world non è cosi, come ogni persona onesta intellettualmente e di buon senso sa bene. Ma anche fosse in minima parte vero, siamo sicuri di volere questa occupazione di pessima qualità: pagata poco, di bassissima produttività, precaria e che non garantisce stabilità e crescita della domanda interna? Henry Ford nel 1914 raddoppiò il salario giornaliero dei propri lavoratori. Lo credettero pazzo. In un anno quasi raddoppiò le vendite di Model T. Ovviamente non è sempre così facile. Nell’economia reale non esistono relazioni lineari di causa effetto se non per brevissimi intervalli. L’ideologismo neoliberista nell’approcciare i problemi però non aiuta.

  9. Claudio Resentini

    Credo che l’interessante dibattito, a cui il prof. Daveri non si è finora sottratto, abbia dimostrato in maniera lampante come la questione sia eminentemente politica e come non ci esistano inopinabili certezze scientifiche da esibire nè da una parte, nè dall’altra. Ribadito che non intendo entrare nella penosa questione della “manina” sollevata in maniera improvvida dal Ministro, mi permetto di consigliare maggiore prudenza a tutti in futuro prima di prestarsi a fare da imbarazzanti foglie di fico “scientifiche” ad obiettivi politici, quali che siano. Buon lavoro!

  10. antonio petrina

    Alle critiche all’Inps per l’improvvida previsione alla RT dell’emanando decreto le ha data giustamente Damiano , ricordando il balletto delle cifre degli esodati ante e post fornero !!

    • Michele Zazzeroni

      Che è come pensare che un Mastopasqua qualsiasi valga un Tito Boeri. Non direi proprio.v

  11. Henri Schmit

    Mi si permetta di formulare una tesi scandalosa: 24 o 36 mesi, due o tre rinnovi, sono soluzioni perfettamente equivalenti. Lo scandalo, l’errore, l’inganno è di far credere che la riduzione dei limiti garantisca meglio i dipendenti. Se poi aggiungiamo la reintroduzione della causa, l’inganno è perfetto. La perdita di posti di lavoro, purtroppo quasi impossibile a misurare e a dimostrare, sarà molto più pesante, non per la meccanica della politica di assunzione delle aziende, ma per la corrosione della fiducia degli investitori nel quadro normativo instabile, imprevedibile, e nella serietà di coloro che lo decidono.

  12. Salvatore

    Non essendo un economista sono andato a cercare la definizione del “tasso di disoccupazione” su wikipedia, e ho l’impressione che sia stato utilizzato in modo totalmente abusivo. Come mai il tasso di disoccupazione, che è il rapporto tra il numero di persone in cerca di lavoro e l’interezza della forza lavoro (occupati + disoccupati) è utilizzato per stimare il tasso di conversione di un contratto a tempo determinato di una persona che un lavoro ce l’ha già? Il punto è che, questo tasso di disoccupazione è applicato a una popolazione statistica totalmente diversa da quella su cui è stato calcolato. Perché mi pare che questi “soggetti interessati” abbiano abbiano per costruzione una probabilità molto più alta di restare occupati, rispetto al tasso di disoccupazione. In sostanza per me questo studio non ha senso, ma non essendo un economista chiedo spiegazioni. Grazie.

    • Salvatore

      Ripensandoci, l’uso del tasso di disoccupazione non è così sbagliato come ho scritto nel mio commento sopra, anzi mi sembra una approssimazione tutto sommato sensata. Però ho un’altra domanda. Per calcolare l’effetto netto sull’occupazione, dovreste fare lo stesso calcolo considerando il caso in cui la legge non sia cambiata. Cioè prendere il numero di contratti prossimi ai 36 mesi e quindi a rischio di non riconferma, applicare lo stesso tasso del 10%, e sottrarre il risultato agli otto mila che avete ottenuto. O no? Grazie.

  13. Pietro Brogi

    Come spesso accade una discussione meramente accademica trasforma un dato certo (il numero di contratti in essere in scadenza, non rinnovabili) in un numero di posti di lavoro persi tramite un banale coefficiente numerico di trasformazione. Credo che raramente gli accademici economisti abbiano vissuto la realtà di azienda. Il Dirigente d’Azienda basa le sue scelte su fattori di previsione mercato, di costi di produzione, di tempistica di produzione etc. Direi che la tipologia di contratto di lavoro è inserita nelle ultime posizioni, la flessibilità dei numeri della forza lavoro si può ottenere in molti altri modi: attraverso lavoro interinale, lavoro svolto sotto partita iva, ma anche con contratti a tutele crescenti che nel breve/medio periodo possono non aggravare eccessivamente i costi. La mia impressione è che un fattore numerico di trasformazione sia quindi assolutamente errato nel breve periodo 1-2 anni in quanto le scelte saranno trainate dalle situazioni contingenti sullo stato degli ordinativi in essere, pochissimo attendibile anche nel medio lungo periodo con altri fattori economico finanziari che guideranno le scelte.

  14. lucio

    Grazie per queste delucidazioni e approfondimenti. La relazione tecnica (RT) fa delle ipotesi che Daveri qui ritiene plausibili e in parte ne argomenta pure il perche’ ad esempio con riferimento alla percentuale del 10%, scelta in base al tasso di disoccupazione). La relazione dell’ufficio bilancio della Camera nel commentare la RT evidenzia invece che la scelta di quella percentuale non sia chiara e anzi sembra ritenerla del tutto arbitraria (cio’ mi sorprende alquanto se e’ vero che riferirsi al tasso di disoccupazione corrente costituisca invece la migliore delle opzioni possibili al fine di una stima realistica di quel parametro). Sarebbe interessante un confronto che spero avvenga; se la motivazione sulla scelta del parametro non e’ esplicitamente riportata nella RT ma ci sono motivi per riferirsi al tasso di disoccupazione allora chi la critica dovrebbe se non altro presentare una contro argomentazione di qualche tipo e indicare quale sarebbe invece la scelta piu’ opportuna. Aldila’ della mi par marginale questione degli 8000 sarebbe forse meglio buttere anche un occhio ad altri aspetti del decreto (ad es split payment) sui cui effetti negativi o di dubbia efficacia sono concordi sia le RT che la relazione dell’ufficio bilancio della Camera, circostanza che imporrebbero un profondo ripensamento anche sulle strategie future e nel caso specifico una rettifica del tiro in sede di conversione.

  15. Virginio Zaffaroni

    Da quanto comprendo la RT afferma quasi una banalità, e cioè la possibilità (possibilità) che norme ostacolanti il tempo determinato abbiano come conseguenza, a parità di attività produttiva, una anche piccola quota (10%!) di contratti risolti anziché trasformati in tempo indeterminato. Eppure leggo commenti un po’ lunari e sofistici tendenti a negare la cosa. Rovesciamo allora i termini della questione. Cosa si vuol dire quindi? Che il 100% passeranno a tempo indeterminato? E’ questa l’ipotesi realistica cara al Ministro? Non è poi forse vero che decisioni come queste alla lunga sostituiscono il lavoro con macchine e tecnologia, con buona pace del Ministro al Lavoro?

  16. Diego

    Salve a tutti e Vi ringrazio per l’attenzione. Sono un disoccupato di 52 anni, iscritto al collocamento obbligatorio, e che è stato lontano dal mondo del lavoro per una decina d’anni (per una scelta puramente personale, nulla che possa inficiare la mia assunzione). Fino al 2014, quando ho fatto questa scelta, avevo maturato un esperienza quasi decennale nel campo Customer Care Inbound, lavorando per i principali call-center, tra cui Comdata e Corvalis. Ora che sto cercando di rientrare sempre in quel campo, dove le succitate società sono i maggiori fornitori di questi servizi, mi trovo continuamente la porta sbattuta in faccia a causa del fatto che ho già lavorato per loro, anche se parliamo di quasi vent’anni fa (ho lasciato Comdata nel 2006, per mancato rinnovo). Questa realtà non faceva che confermare una delle mie peggiori ipotesi, e cioè che nel mondo del call-center le persone vengono usate come fazzolettini usa e getta, e una volta che si sono serviti di loro non ne hanno più bisogno, mai più. Recentemente però ho scoperto che questa situazione è molto recente, dal 2018 che ha portato quello che da pochissimo ho conosciuto come il “decreto dignità” e che pare permettere a queste società di ghettizzarmi, negandomi qualunque posizione lavorativa. Ora chiedo a Voi che mi leggete un consiglio, uno spunto, qualcosa che mi permetta di pensare che anch’io ho dei diritti, almeno qualcuno in più di un kleenex gettato in strada.

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