Il decreto dignità farà salire il costo del lavoro, causando una riduzione di occupazione. Un calo quantificato in ottomila persone da Inps e Ragioneria dello stato. Ma non dal ministro Tria che non contesta i numeri quanto il metodo di calcolo.
Il decreto dignità e il lavoro
Il 12 luglio – dieci giorni dopo la sua approvazione in Consiglio dei ministri – è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il decreto legge 87 del 2018, il cosiddetto “decreto dignità”. Il decreto contiene varie misure eterogenee, come il divieto alla pubblicità del gioco d’azzardo, nuovi limiti alle delocalizzazioni e – nel suo articolo 1 – una stretta sul ricorso ai contratti a tempo determinato. L’obiettivo di quest’ultima parte del provvedimento – sulla cui efficacia giuridica si è già espresso Pietro Ichino – è quello di disincentivarne l’impiego, per favorire e accelerare la transizione verso i contratti stabili. La durata complessiva dei contratti a tempo determinato scende da 36 a 24 mesi e il numero delle proroghe ammissibili passa da cinque a quattro. Dopo i primi dodici mesi ritorna la necessità di indicare le causali – cancellate dal decreto Poletti del 2014 – in base alle quali l’azienda ritenga di proseguire il rapporto di lavoro a tempo determinato. E di queste si limita l’ammissibilità: occorre cioè che sussistano esigenze dovute a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria, la necessità di sostituire altri lavoratori in ferie oppure quella di far fronte a picchi di produzione.
Alla stretta regolatoria, il decreto aggiunge quella contributiva: ogni rinnovo, anche al di sotto dei 12 mesi, prevede che i contributi sociali crescano dello 0,5 per cento andando a sommarsi all’1,4 per cento che dal 2012 finanzia la nuova indennità di disoccupazione, la Naspi.
Le novità valgono per i nuovi contratti ma anche per rinnovi o proroghe di quelli in corso.
La stima degli effetti del decreto
I decreti – per essere valutati dal Parlamento ai fini della loro conversione in legge – devono essere corredati di valutazioni quantitative delle loro conseguenze sull’economia e sui conti pubblici. Nella maggior parte dei casi, la quantificazione è una valutazione effettuata in condizione di incertezza facendo l’uso migliore possibile dei dati esistenti da parte del ministero dell’Economia o di altre agenzie delle amministrazioni pubbliche che abbiano i mezzi per effettuare tali stime. Le stime sono poi sottoposte all’approvazione del dipartimento del ministero dell’Economia a questo preposto, la Ragioneria generale dello stato. Al contrario di quanto affermato anche dal ministro Luigi Di Maio non c’è nessuna “manina” occulta che aggiunge numeri notte tempo, ma un concorso di risorse mentali pubbliche che devono svolgere questa funzione. Per legge, non per lobbismo.
In questo caso, la Relazione tecnica allegata al decreto contiene una stima degli effetti della riduzione del limite massimo della sola durata dei contratti. È stata predisposta dall’Inps e condivisa (con il solito “bollino”) dalla Ragioneria. La stima parte da qualche dato e ipotesi, descritti sommariamente nel documento. Ci sono circa 2 milioni di contratti a tempo determinato attivati ogni anno (al netto dei lavoratori stagionali, agricoli e della pubblica amministrazione, inclusi i lavoratori soggetti a somministrazione). Il 4 per cento del totale (80 mila) supera la soglia dei 24 mesi ed è quindi soggetto al rischio di non riconferma. Di questi – si assume, in modo plausibile – il 10 per cento circa (il tasso di disoccupazione prevalente oggi in Italia) potrebbe non trovare un’altra occupazione, il che porta a concludere che nel 2019 circa 8 mila soggetti (e 3 mila nello scorcio di mesi prima della fine del 2018) sarebbero interessati da questo provvedimento – un numero che rimarrebbe costante negli anni futuri. Sotto queste ipotesi, la perdita di occupazione sarebbe dunque in tutto di ottomila unità. Una perdita risibile sul totale degli occupati anche solo a tempo determinato. Ma con vari effetti sul bilancio pubblico per le minori entrate contributive e le maggiori uscite per le indennità di disoccupazione (la tabella che li elenca in dettaglio sul numero delle persone coinvolte e sul bilancio pubblico è riportata sotto).
Tabella 1
Le stime Inps e gli irrituali attacchi del ministro dell’Economia
Le stime riportate mostrano effetti limitati e soggetti a varie incertezze. Potrebbe darsi il caso che almeno una parte della perdita dei posti di lavoro sia rimpiazzata da nuovi lavoratori, in precedenza non occupati o disoccupati, o che una parte dei lavori a tempo determinato sia trasformata in lavori a tempo indeterminato. In tutti questi casi, si ridurrebbe l’effetto negativo del provvedimento sul lavoro e sull’ammontare di coperture di finanza pubblica rispetto a quanto riportato nella tabella. Potrebbe anche darsi che la frazione di coloro che rimangono disoccupati a seguito del provvedimento sia maggiore o minore del 10 per cento del totale. E – soprattutto – c’è da aggiungere che, se si volesse quantificare nel suo insieme l’articolo 1 del decreto, ci sarebbe anche da contare che il provvedimento comporta effetti addizionali dovuti alle causali – non quantificati nella relazione – che aumenteranno gli effetti negativi del decreto.
Nell’insieme, non c’è chiara evidenza di sotto o sopravvalutazione dei fenomeni descritti nelle stime presentate nella Relazione tecnica. La sola cosa sicura è che gli effetti complessivi del decreto dignità sull’occupazione saranno negativi perché il decreto aumenta il costo del lavoro, al che di solito fa seguito un calo dell’occupazione.
In questo quadro suona davvero irrituale l’affermazione del ministro dell’Economia Giovanni Tria che ha definito “prive di fondamento scientifico” le stime prodotte dall’Inps e validate da un dipartimento del suo ministero come la Ragioneria generale. Peraltro, senza che siano state fornite stime alternative. Da un docente universitario che si sposta sulla difficile poltrona di ministro dell’Economia ci si aspetta che smetta di fare il professore per sporcarsi le mani con l’ardua arte di fare le previsioni e di quantificare i provvedimenti, non che si unisca alla caciara della politica. Il ministro Tria stavolta ha preferito fare diversamente, contestando metodologicamente le stime necessarie per orientare la discussione parlamentare. Un peccato, ma anche un grave errore da parte di chi rappresenta l’Italia nelle discussioni a Bruxelles.
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