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Stress test bancari: regole rigide ma non per tutti

Una cinquantina di gruppi bancari europei, tra cui quattro italiani, sono nel pieno del processo degli stress test che si concluderà a novembre. Numerose le critiche ai rigorosi criteri stabiliti dall’Eba e interpretati con accondiscendenza. Ma non nei confronti di tutti.

Tra pochi giorni le autorità di vigilanza (la Bce, nel caso delle grandi banche italiane) riceveranno i primi esiti degli stress test, “prove di carico” con cui gli istituti di credito sono chiamati a simulare l’effetto sul proprio bilancio di possibili scenari macroeconomici futuri. Tra revisioni e integrazioni, il processo proseguirà fino ai primi di novembre, quando l’Autorità bancaria europea (Eba) renderà noti i risultati per una cinquantina di grandi gruppi, tra cui quattro operanti nel nostro paese.

Al fine di rendere confrontabili le simulazioni di banche diverse, la stessa Eba ha emanato una corposa metodologia che pone diversi vincoli ai meccanismi con cui verranno prodotti i risultati. Se non bastasse, la Bce confronterà le stime degli intermediari con i risultati di propri modelli interni, sollecitando revisioni in caso di scostamenti ingiustificati.

La “dura lex” dell’Eba

Alcuni di questi vincoli sono stati criticati perché poco realistici. Primo fra tutti, il cosiddetto “bilancio statico”, che richiede di mantenere invariati per tre anni dimensioni dell’attivo e business mix (anche per quelle poste che iniziano a generare margini negativi per effetto degli scenari macroeconomici indicati dalle autorità: in pratica, se i nuovi impieghi rendono il 5% e vengono finanziati con fondi pagati il 10%, la banca deve continuare a erogarli, con uno slancio degno del barone Von Masoch. A esso si aggiunge la “trasmissione asimmetrica” (“asymmetric pass-through”) che impedisce alle banche di traslare interamente sul rendimento degli attivi i rincari previsti nel costo della provvista (ovviamente più severi per quei paesi, come l’Italia, più vulnerabili ai capricci degli investitori e dello spread).

Ulteriori restrizioni attengono all’implementazione del nuovo principio contabile Ifrs 9, che riguarda tra l’altro la stima delle perdite su crediti. La sua recentissima entrata in vigore (il primo gennaio scorso) fa sì che non esistano serie storiche affidabili e ha costretto l’Eba ha emanare regole rigide per evitare che i singoli istituti procedano in ordine sparso. È previsto, tra l’altro, che un credito deteriorato non possa “guarire”, né essere cancellato dal bilancio, ma resti per sempre nel purgatorio dello “stage 3”, una pattumiera che rende poco e va finanziata con raccolta via via più onerosa.

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E il rischio di mercato? Che ne è stato degli attivi e passivi di “livello 2 e 3”, strumenti finanziari illiquidi e difficili da valutare presenti ancora in quantità elevate (a dieci anni dalla crisi dei subprime…) nei bilanci di alcune grandi banche francesi e tedesche? Lo stress test prevede che al loro valore si applichi uno “scarto di sicurezza”, salutato con grande favore da alcuni commentatori italiani. Peccato che tale scarto vada applicato partendo da valutazioni prodotte dalle banche stesse: insomma un 70 potrà diventare 69, ma se il valore vero fosse 30? Le autorità di vigilanza non hanno abbastanza tecnici e software per verificare stime prodotte con algoritmi tanto sofisticati quanto oscuri, né la volontà politica (e forse è un bene) per imporre svalutazioni draconiane.

La legge è uguale per tutti?

In definitiva, alcuni aspetti della metodologia penalizzano le banche commerciali rispetto al quelle di investimento, mentre i paesi periferici dell’Eurozona pagheranno la propria indisciplina fiscale con un quadro macro più pesante e regole più rigide. Ma possiamo almeno star certi che la legge valga per tutti? In proposito i precedenti non sono del tutto confortanti. Due anni fa una grande banca tedesca ha recuperato 35 punti base di patrimonio grazie a un’interpretazione delle regole vantaggiosa, negata ad alcuni intermediari britannici e, recentemente, a un istituto greco. La governance dello stress test da allora non è cambiata: la cabina di regia è ancora dominata dalle singole autorità di vigilanza, talvolta assai sensibili alla ragion di stato (del loro, ovviamente). In un mio recente parere al Parlamento europeo ho suggerito, non so con quanta fortuna, di riprendere una proposta della Commissione rivolta a dotare l’Eba di un executive board indipendente, che possa tra le altre cose sovrintendere agli stress test senza condizionamenti “dal basso”. La crisi bancaria si era incaricata di ricordarci quanto resti cruciale l’antico quis custodiet ipsos custodes: vediamo se qualcuno a Bruxelles se ne ricorda ancora.

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E in Grecia per la Troika è missione compiuta

  1. Henri Schmit

    L’analisi è interessante e l’informazione fornita è ricca, ma sorprendono le conclusioni. Fa sorridere l’affermazione che le autorità potrebbero non essere attrezzate per verificare l’adeguatezza degli scenari prodotti dalle banche stesse; dispongono infatti di due strumenti per superare ostacoli legati alla complessità delle variabili utilizzate: chiedere spiegazioni e dettagli alle banche stesse e/o riprodurre i test con i propri parametri. Sorprende anche l’argomento del rischio di trattamento discriminatorio fra banche: quelle maggiori sono vigilate dalla BCE, per ipotesi neutra, mentre le autorità di vigilanza nazionali verificano gli istituti del loro paese. Un problema reale è invece la sudditanza dei controllori nazionali nei confronti delle ragioni di potere interne al loro stato. Posso immaginare che i vizi di connivenza con poteri pubblici e privati emersi durante il recente processo politico alla crisi bancaria italiana esistano anche altrove. Ma intanto denunciano e correggiamo le evidenti imperfezioni di casa nostra piuttosto che lamentarci di subire ipotetiche ingiustizie altrui.

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