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Alitalia, dal prestito ponte al vicolo cieco

Se le regole europee sugli aiuti di stato fossero state seguite alla lettera, oggi Alitalia avrebbe un piano di ristrutturazione effettivo. E non correrebbe il rischio di essere obbligata a rimborsare il prestito ponte di 900 milioni erogato un anno fa.

Regole per l’aiuto di stato

Il nuovo governo ha eredito dal precedente non solo la crisi di Alitalia, ma anche una posizione molto problematica verso la Commissione europea in relazione al prestito ponte erogato alla compagnia un anno fa.

Quando il 2 maggio 2017 gli azionisti di Alitalia presentarono istanza per l’amministrazione straordinaria, consegnando le chiavi aziendali al governo e di fatto nazionalizzandola, fu garantito un prestito ponte di 600 milioni per garantire la continuità aziendale, salito a 900 milioni sei mesi dopo. Il 23 aprile 2018 la Commissione UE, sollecitata dai ricorsi di diversi operatori europei concorrenti di Alitalia, ha aperto un’indagine approfondita per accertare se il prestito sia un aiuto di stato e in tale caso se sia compatibile con il diritto comunitario. Se la Commissione giudicherà il prestito un aiuto non conforme, ne chiederà l’immediata restituzione, interessi maturati compresi, generando notevoli problemi all’azienda e al governo. La sopravvivenza di Alitalia sarà allora inevitabilmente a rischio.

Sul fatto che il prestito sia un aiuto di stato vi sono ben pochi dubbi. Quale operatore di mercato sarebbe stato disponibile a erogare, pur se al tasso di circa il 10 per cento, 900 milioni a un’azienda dichiarata insolvente, con un patrimonio netto negativo, perdite annue superiori al 20 per cento del fatturato e priva di qualsivoglia piano di ristrutturazione?

Il problema è che, in quanto aiuto, è non conforme alle regole comunitarie, riassunte negli “Orientamenti sugli aiuti di stato”, pubblicati in Gazzetta ufficiale dell’UE il 31 luglio 2014. In base a quelle regole, gli aiuti pubblici erogabili a un’azienda delle dimensioni di Alitalia rientrano in due sole tipologie, aiuti per il salvataggio e aiuti per la ristrutturazione.

“Gli aiuti per il salvataggio sono, per natura, una forma di assistenza urgente e temporanea, il cui obiettivo principale è consentire di tenere in vita un’impresa in difficoltà per il breve periodo necessario all’elaborazione di un piano di ristrutturazione o di liquidazione. Come principio generale, gli aiuti per il salvataggio consentono di fornire sostegno temporaneo a un’impresa che si trova a dover affrontare un grave deterioramento della sua situazione finanziaria che si manifesta sotto forma di un’acuta crisi di liquidità o un’insolvenza tecnica. Questo sostegno temporaneo deve consentire di guadagnare tempo per analizzare le circostanze all’origine delle difficoltà ed elaborare un piano idoneo a porvi rimedio” (punto 26 degli Orientamenti).

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Vincoli non rispettati

Questa prima tipologia di aiuto ha tuttavia vincoli ben precisi, temporali e di importo. Vi è infatti una durata massima tassativa di sei mesi entro la quale il prestito deve essere restituito oppure deve essere presentato un piano di ristrutturazione. “Una volta presentato il piano di ristrutturazione, l’autorizzazione dell’aiuto per il salvataggio viene automaticamente prorogata finché la Commissione non prenda la sua decisione finale sul piano di ristrutturazione (…); una volta che è stato elaborato e attuato il piano di ristrutturazione, tutti gli aiuti successivi vengono considerati come aiuti per la ristrutturazione” (punto 55, lettera d, degli Orientamenti).

L’importo massimo erogabile corrisponde alla somma che serve a coprire strettamente il fabbisogno di cassa di un semestre, stimato attraverso il 50 per cento delle perdite industriali dell’ultimo anno (Ebit) al netto dell’ammortamento (in quanto non richiede esborsi) e incrementato della variazione del capitale circolante netto (Allegato I degli Orientamenti). Nel caso di Alitalia, in base al conto economico 2016 (che tuttavia è stato reso noto dai commissari solo in una recentissima audizione parlamentare (tabella di pag. 35), il calcolo avrebbe dato luogo a un prestito massimo di 210 milioni di euro, corrispondenti al 50 per cento dei 419 milioni di Ebitda al netto delle poste non ricorrenti. Il prestito ammissibile era dunque pari solo al 23 per cento dei 900 milioni effettivamente erogati. Peraltro, se a maggio 2017 il governo avesse voluto adempiere alle norme comunitarie, non avrebbe potuto erogarlo, avendo accettato la richiesta di amministrazione straordinaria senza esigere il deposito del bilancio 2016. L’ultimo bilancio noto, quello del 2015, non permetteva alcun prestito, perché la situazione finanziaria della compagnia non si era ancora deteriorata.

I sei mesi di validità del prestito di salvataggio avrebbero dovuto essere utilizzati per l’elaborazione di “un piano di ristrutturazione realistico, coerente e di ampia portata che ripristini la redditività a lungo termine del beneficiario” (punto 46 degli Orientamenti), al fine di poter giustificare un successivo e più ampio finanziamento pubblico per la ristrutturazione. Ma il piano non è arrivato, né entro i sei mesi né dopo. Ed è indubbio che un prestito di 900 milioni, che si protrae senza l’elaborazione di alcun piano di ristrutturazione per oltre un anno e mezzo – invece di uno da 210 milioni per soli sei mesi – rappresenti un aiuto di stato incompatibile, del quale la Commissione UE chiederà la restituzione.

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Nel contratto di governo tra Movimento 5 stelle e Lega si dice che Alitalia non va “semplicemente salvata in un’ottica di sopravvivenza economica bensì rilanciata”, dato che non si può fare a meno di un “vettore nazionale competitivo”.

L’obiettivo è meritorio, a maggior ragione considerando che nelle attuali condizioni Alitalia non è vendibile, neppure a Lufthansa. È però molto difficile da raggiungere. E non perché lo impediscano le regole europee, che anzi ammettono aiuti pubblici per riportare aziende sul mercato in condizioni di equa competizione. Se queste regole fossero state seguite alla lettera dal governo precedente, oggi avremmo un piano di ristrutturazione di Alitalia già valutato nella sua fattibilità anziché un percorso di vendita finito in un vicolo cieco.

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  1. Se le regole europee fossero state migliori e non avessero seguito quelle della “deregulation amerikana” forse oggi staremmo meglio tutti e ogni “Stato” d’Europa avrebbe mantenuto la propria compagnia aera di bandiera invece di sguinzagliare arruffoni di ogni genere affiancati da consulenti che non sanno neanche come e’ fatto un aereo. Le regole europee vanno cambiate, ci penseranno Luigi Di Maio e i suoi collaboratori a cambiare le regole europee: “una volta presentammo 300 mila firme a monteciorio per il referendum sull’euro” poi Luigi disse in TV: “l’Europa sara’ meno restrittiva nei nostri confronti e quindi il referendum non serve piu'”. Il liberale Ugo vince ma non convince.

  2. Andrea Goldstein

    Fa specie come a gestire AZ si siano susseguiti managers privi di,competenze nel trasporto aereo, mentre altrove ,nn ci sono praticamente esempi di generalisti

  3. Michele

    Ilva, alitalia, l’aumento dell’iva e accise sono le principali polpette avvelenate lasciate dai governi renzi/Gentiloni a beneficio di chiunque avesse vinto le elezioni del 4 marzo. Gli italiani ringraziano e speriamo se ne ricordino alle prossime politiche

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