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Come riparare la rete idrica colabrodo

Secondo l’Istat, si perde per strada il 41,4 per cento dell’acqua immessa nella rete idrica italiana. Che sconta decenni di manutenzioni mancate, scarsi investimenti e basse tariffe. Solo destinando più risorse si può pensare di cambiare la situazione.

Quant’acqua persa

Di solito in Italia l’acqua fa notizia solo in occasione delle emergenze. Ben venga quindi l’inchiesta “fuori stagione” che il Corriere della Sera ha dedicato alle perdite nelle reti idriche italiane. Un tormentone, quello delle “reti colabrodo”, che si trascina irrisolto da decenni e rende il nostro paese fanalino di coda nelle classifiche internazionali. Secondo l’Istat, si perde per strada il 41,4 per cento dell’acqua immessa, quasi 3,5 miliardi di metri cubi. Il record spetta a Frosinone (75 per cento); tra le Regioni, spiccano Lazio, Friuli-Venezia Giulia e Basilicata. Ciò che desta maggiore sconcerto è che il dato è in sensibile peggioramento dal già allarmante 37,4 per cento del 2012. Come se gli interventi fatti nel frattempo avessero sortito l’effetto opposto.

Il dato della quantità di acqua “persa”, pur impressionante, andrebbe tuttavia contestualizzato. Non tutte le perdite sono uguali. Spesso, l’acqua ritorna semplicemente nella stessa falda da cui era stata poco prima prelevata. L’Italia è un paese di montagne e colline e in buona parte del territorio disponiamo di fonti situate a una quota altimetrica conveniente per poter “pompare” l’acqua nelle reti usando la forza di gravità (che non costa nulla) e di qualità tale da non richiedere particolari trattamenti di potabilizzazione. Ovviamente, in molti casi è vero il contrario, ma fare di tutta l’erba un fascio può dare un’immagine distorta delle priorità da affrontare.

Le perdite sono un problema più serio laddove la risorsa locale è effettivamente scarsa, o dove per procurarla sono necessari costi energetici per il sollevamento o la potabilizzazione. Proprio per questo, è un errore stimarne il costo moltiplicando la tariffa dell’acqua potabile per il volume delle dispersioni: la tariffa si compone infatti in larga misura di costi che verrebbero sostenuti comunque (per esempio, per personale o ammortamento impianti). Andrebbe contabilizzato solo il costo marginale – ossia il costo che è stato sostenuto per sollevare ed eventualmente trattare i volumi di acqua che poi si disperdono. A occhio, non più del 5 per cento dei 4 miliardi stimati da Milena Gabanelli. Considerato che rifare i tubi a sua volta costa, dove la risorsa naturale è abbondante e poco costosa da movimentare, potrebbe non essere la prima priorità.

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Va anche ricordato che le perdite sono dovute certamente alla vetustà delle condotte, ma in parte dipendono anche dal fatto che sono state progettate per sopportare pressioni che erano standard in passato. Per ragioni diverse, oggi servono pressioni più alte e quindi si sottopongono le tubature a uno sforzo maggiore, dando loro il colpo di grazia. Andrebbe programmato in modo razionale un rifacimento completo, partendo da quelle più vecchie e costruite con i materiali più fragili. Invece, siamo costretti a intervenire inseguendo le emergenze, correndo dietro ai tubi che man mano si rompono.

Sono mancati gli investimenti

Se la nostra rete è in queste condizioni è perché sconta decenni di mancate manutenzioni, dal dopoguerra in poi. Per tutto il periodo che va dal 1945 alla fine degli anni Novanta, in Italia si sono investiti 15-20 euro l’anno pro capite. Quando ne sarebbero serviti almeno tre o quattro volte tanto.

Con la riforma varata nel 1994 – ma andata a regime in un tempo molto lungo – gli investimenti sono lentamente ripresi, ma non quanto sarebbe necessario per rimetterci in pari. Con fatica, siamo arrivati a circa 30 euro l’anno pro capite, ancora lontani dagli 80 che l’Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente) stima necessari e ancor più dai 90-100 o più che si investono nel resto d’Europa. Anche per questo le tariffe tedesche, francesi, olandesi, inglesi sono il triplo o il quadruplo delle nostre. L’acqua è un settore che ha cicli di investimento di durata pluridecennale. I guasti di oggi sono il risultato di un lento accumularsi di incurie durate decenni ed è un errore valutarle in una logica di breve periodo.

È tuttavia errato sostenere che i gestori non investono “perché devono fare utili”. Ciò per il semplice motivo che la tariffa è costruita in modo tale che non solo gli investimenti non penalizzano gli utili, ma semmai si fanno più utili se si fanno più investimenti. Però non è il gestore a decidere quanto investire: il piano di investimenti infatti viene definito dall’ente di governo dell’ambito (ossia dai comuni). Il gestore propone il programma degli interventi e il piano tariffario che ne consegue, ma è il soggetto politico ad avere l’ultima parola – e in genere preferisce tariffe più basse e meno investimenti. E le aziende – che, non dimentichiamolo, per la stragrande maggioranza appartengono ai comuni stessi – si adattano ai desideri dei loro azionisti.

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Investire non è solo un problema finanziario. Bisogna aprire le strade e bloccare il traffico, paralizzando le città. Bisogna assegnare i lavori, superando le forche caudine imposte da un codice degli appalti bizantino. Molte aziende, specie quelle di minori dimensioni, sono impreparate a gestire la mole di lavoro che ne consegue. Non si può pensare di ovviare a decenni di incuria concentrando in pochi anni ciò che non si è fatto nei 30-40 precedenti.

Nel frattempo, qualcosa si muove. Da quando nel 2011 Arera ha assunto competenza regolatoria sul settore idrico, molto è cambiato e in meglio. Il metodo tariffario varato a partire dal 2012 ha permesso una graduale ripresa degli investimenti, sebbene ancora non quanto si vorrebbe. Con l’aggiornamento per il 2018-2019 è stato avviato un ambizioso monitoraggio dei livelli di qualità tecnica dei servizi (perdite comprese, ovviamente, ma non solo), richiedendo ai gestori e alle autorità locali di individuare le priorità e adattando di conseguenza i programmi di intervento. Un po’ alla volta, si sta introducendo una regolazione premiale, che penalizzerà economicamente i disservizi e il mancato conseguimento degli obiettivi di qualità, e premierà invece chi li raggiungerà prima degli altri.
Non illudiamoci, tuttavia, che le cose possano cambiare davvero finché non ci convinceremo che, per affrontare i deficit strutturali delle nostre reti idriche, occorre non solo rimboccarsi le maniche, ma anche mettere mano al portafoglio. Continuando a investire 30 euro all’anno a testa non andremo lontano.

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Cinque punti per il governo dell’acqua

  1. Renato Drusiani

    Valutazioni apprezzabili sul piano economico e non solo. Forse si sarebbe potuto enfatizzare che le dispersioni idriche sono anche indipendenti dal dilemma pubblico-privato che tanto ha ossessionato i sonni di molti in questi ultimi anni. Tutto è legato alle politiche gestionali e queste possono essere buone o cattive indipendentemente dall’assetto proprietario. Ma forse il fatto che l’Autore non ne parli proprio è già una risposta.

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