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Soldi sprecati: 75 miliardi di fondi Ue al palo

In Italia c’è un preoccupante silenzio sul tema fondi Ue. Ma i dati confermano difficoltà di spesa che richiederebbero un ripensamento dell’intera impalcatura funzionale della politica di coesione, anche in vista del negoziato sul bilancio dell’Unione.

Fondi non utilizzati

In ambito Ue già da tempo circolano le posizioni-paese relative al prossimo ciclo dei fondi strutturali, ma in Italia manca ancora un primo documento ufficiale che certifichi il livello di spesa per il periodo 2014-2020. Si tratta, tuttavia, di una sorta di segreto di Pulcinella. Basta poco, infatti, per scoprire dai dati della Commissione europea che l’Italia a marzo 2018, cioè a due anni e mezzo dalla fine dei giochi, è all’8 per cento dello speso. Ultimi in Europa, insieme a Malta, Croazia e Spagna, ma la differenza è che il Bel Paese, con oltre 75 miliardi di euro, è il secondo stato membro beneficiario, dopo la Polonia che però ha speso in valore assoluto più del doppio dell’Italia.
Del budget complessivo il fondo con la dotazione finanziaria più cospicua è il Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale), quasi a quota 34 miliardi, che si caratterizza per un dato di spesa associato ai progetti selezionati inferiore alla media nazionale, ossia pari al 5 per cento (figura 1).
Un dato più basso (3 per cento) si registra per il Feamp (Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, che poggia però su una dotazione (978 milioni di euro) risibile rispetto al Fesr. Al di sotto della media nazionale anche il Fse (Fondo sociale europeo), con una spesa del 7 per cento rispetto al budget di oltre 17 miliardi di euro.
Le regioni più sviluppate registrano tassi di spesa superiori a quelli delle regioni meno sviluppate (tabella 1): per il Fesr la differenza è di 3 punti percentuali (6 per cento contro 3 per cento), mentre per il Fse il gap raggiunge i 9 punti percentuali (14 per cento contro 5 per cento).

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Figura 1 – Lo stato di attuazione della programmazione 2014-2020 in Italia, per fondo, marzo 2018

Fonte: elaborazione Ifel-Diset su dati CE, marzo 2018

Tabella 1 – Lo stato di attuazione del Fesr e del Fse 2014-2020 in Italia, per categoria di regioni, marzo 2018

Fondo FESR FSE
Regioni più sviluppate 6% 14%
Regioni in transizione 5% 5%
Regioni meno sviluppate 3% 5%
Programmi sovraregionali 7% 3%
Totale 5% 7%

Fonte: elaborazione Ifel-Diset su dati CE, marzo 2018

Dei dati della Commissione colpiscono gli spazi finanziari ancora liberi per l’attuazione della politica di coesione in Italia: a marzo 2018 risulta allocato solo il 42 per cento del budget. Restano così 44 miliardi di euro da associare a singoli progetti. Un po’ come dire che in un paese che vive una costante crisi di investimenti pubblici non sono bastati oltre quattro anni per programmare progetti di crescita e sviluppo, figurarsi per arrivare a spendere. Certo, in molti penseranno che in fondo anche il ciclo 2007-2013 ha attraversato periodi difficili, ma alla fine si è riusciti a certificare quasi tutto, perdendo qualche decina di milioni di euro. Perché non dovremmo farcela anche questa volta?

Politica da ripensare

Vale, allora, spostare l’attenzione dalla politica allo strumento. Non è bastata una nuova impostazione metodologica, mirata sul territorio, né tantomeno una riforma della governance, tutta nazionale, con la nascita dell’Agenzia per la coesione e del dipartimento per le politiche di coesione, per invertire le sorti di questa missione impossibile. Anzi, proprio quell’Agenzia, che negli obiettivi avrebbe addirittura dovuto accelerare i meccanismi di spesa ed entrare in surroga delle amministrazioni meno efficienti, fa registrare per i due Pon (Programma operativo nazionale) di cui è autorità di gestione i livelli di spesa più bassi (0,3 per cento per il Pon Gov. e 0,5 per cento per il Pon Metro, figura 2).

Figura 2 – Lo stato di attuazione dei programmi nazionali/interregionali 2014-2020 in Italia, marzo 2018

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Fonte: elaborazione Ifel-Diset su dati CE, marzo 2018

In effetti, quello che subito e più che in passato è entrato in crisi è proprio la spesa; ossia la capacità da parte delle amministrazioni di svolgere il loro fondamentale ruolo di stazioni appaltanti. Ciò sia per le difficoltà oggettive derivanti dall’introduzione della riforma del codice degli appalti sia per una attività di progettazione che rimane spesso troppo alta, impegnando le amministrazioni in tavoli di concertazione, codecisione, compartecipazione che durano anni. Lo stato di palese sofferenza spingerebbe ancora una volta alla necessità di ripensare non la politica di coesione in quanto politica redistributiva, ma la sua impalcatura tecnico/strumentale, auspicando un ruolo delle amministrazioni coinvolte più di arbitro e molto meno di giocatore. Non basta appellarsi a slogan vuoti, come concentrazione, semplificazione, armonizzazione, premialità o flessibilità per immaginare un superamento dello stallo. Bisogna avere il coraggio di rimettere mano alla governance dei fondi strutturali a partire da misure di spesa di tipo indiretto, ovvero scommettere su una sensibile riduzione dei meccanismi ascendenti e discendenti di programmazione, progettazione, spesa, monitoraggio, controllo e valutazione che generano stallo e sclerosi amministrative. Occorre guardare a una contribuzione al bilancio dell’Unione che lasci nelle casse degli stati membri più risorse vincolate all’attuazione di una politica di coesione, sì di respiro europeo, ma a trazione nazionale o meglio più rispondente ai bisogni immediati di crescita e investimenti dei singoli territori.

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Gender gap anche tra lesbiche e gay

  1. Savino

    Questi dilettanti del governo m5s-lega ci faranno perdere tutti i treni europei fino all’ultimo.
    Colpa delle aspettative solo assistenziali degli italiani che li hanno votati.

  2. Roberto Bellei

    Questa dei miliardi che l’Italia non è in grado di spendere è spesso una favola perchè non si tratta di fondi che stanno lì a disposizione e basta prenderli. Oltre a presentare dei progetti credibili (e questa è già una difficoltà) è necessario integrare i Fondi EU con fondi nazionali o privati, che spesso non si riescono a trovare. Questo è il vero problema e non l’incapacità a spendere.

    • Francesco

      Roberto, scusa ma è esattamente la stessa cosa: le regole dei fondi UE chiedono progettualità e (nella maggior parte dei casi) cofinanziamento. Se manca una delle due, i fondi restano lì. Ovvero, l’Italia è incapace di spendere per mancanza di capacità progettuale o per mancanza di disponibilità di cofinanziamento (pubblico o privato che sia). Non capisco dove stia la favola, state dicendo esattamente la stessa cosa

    • Massimo GIANNINI

      E’ vero: non solo è un problema di presentare i progetti fattibili che rientrino nei criteri dei bandi ma soprattutto che le amministrazioni locali devono metterci minimo in media un 30% di cofinanziamento. Questo significa che se ci sono 75 miliardi fermi al palo in realtà alle amministrazioni mancano 25-30 miliardi di cofinanziamenti.

  3. Marco Spampinato

    Il silenzio può avere significati diversi. Tra i tanti può esserci la confusione. Uno dei migliori antidoti è fare analisi e valutazioni rigorose. Questo vale in generale. In questo caso non riesco a formarmi un’idea del suo articolo. Non per i dati, ma per le proposte delle ultime due frasi. Che cosa intende per “misure di spesa di tipo indiretto”, all’interno dei fondi strutturali? Perché considera monitoraggio e valutazione come generatori di stallo e sclerosi amministrativa? Di norma monitoraggio e valutazione, quando trasparenti, sono attività poco o per nulla considerate da chi programma e da chi spende. I “molti tavoli” non corrispondono per nulla a “molte valutazioni”, nel senso trasparente del termine. Infine, lei dice che si dovrebbero lasciare nelle casse nazionali più risorse per programmi “di respiro europeo” (non capisco molto), ma a “trazione nazionale” (cioè chiudere i fondi strutturali?) o meglio più rispondenti a “bisogni immediati” (quindi nulla di strutturale?). Mi viene il dubbio che lei stia descrivendo l’esistente più che proporre una riforma. Quello che si è fatto negli ultimi cicli di programmazione sembra corrispondere (tolto quell'”indiretto” che non ho ben compreso) a sostituzione di spesa nazionale, ordinaria, con spesa etichettata UE, più qualcosa di strutturale spesso poco visibile o poco valutato (anche quando forse positivo). D: ma non sarebbe preferibile eliminare proprio l’intermediazione nazionale?

  4. Henri Schmit

    Il problema è la canalizzazione dei fondi europei (e nazionali) verso i progetti meritevoli. Non mancano né le opportunità, né le persone capaci, ma manca la procedura aperta, competitiva, trasparente e neutra per collegare i fondi disponibili alla realizzazione dei progetti più validi. Il cinismo, l’uso clientelare o peggio delle informazioni privilegiate, le decisioni occulte, l’abuso di potere, la mancanza di regole o l’arte di by-passarle, la furbizia, l’inganno e il sopruso, sono tutte categorie della stessa famiglia di vizi che spiegano sia la genialità di numerose storie di successo sia la generale inefficienza del paese, in particolare nell’uso dei fondi pubblici, nazionali e europei. A volte i progetti finanziati sono perfettamente inutili ed inutilizzati, altre volte capita che un ministro o la moglie di un governatore finanziano i loro progetti privati con fondi pubblici. Ma il più spesso si fa in modo meno vistoso, con gli amici per amici degli amici.

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