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Startup italiane in attesa di una svolta*

Le startup creano lavoro e aumentano la produttività nel medio-lungo periodo. Grazie a politiche mirate, anche in Italia si intravedono segnali di miglioramento. Ma restano scarsi gli investimenti da venture capital. Per questo servono riforme più ampie.

In numeri delle startup italiane

Le startup sono il principale motore della creazione di posti di lavoro e, almeno quelle più dinamiche, offrono un contributo cruciale alla crescita della produttività nel medio-lungo periodo, rendendo più competitivi i mercati e creandone di nuovi. Possono anche favorire l’inclusione e la mobilità sociale.
In altri paesi europei, le giovani imprese innovative hanno un ruolo centrale nel dibattito politico. Non così in Italia, specie se usiamo come termine di paragone l’attenzione riservata alle difficoltà, spesso croniche, vissute da alcune grandi imprese mature.
Sin dall’introduzione, a fine 2012, di una strategia nazionale organica per le startup innovative, il dibattito è polarizzato tra entusiasmo e disfattismo. L’ultima Relazione annuale del ministro dello Sviluppo economico al parlamento, pubblicata nel dicembre scorso, offre utili spunti fattuali.
Un primo aspetto è la crescita esponenziale delle imprese che la legge italiana identifica come startup innovative: al 30 giugno 2017 erano 7.398, oltre 3 mila in più rispetto alla stessa data del 2015, anche in virtù della nuova procedura che permette di avviare una impresa innovativa online gratuitamente, utilizzata da quattro startup su dieci tra le nuove nate nel 2017.
Segnali positivi emergono anche dall’analisi dei fatturati. Le startup che hanno cominciato a beneficiare delle misure previste nel 2013 o nel 2014 hanno in media triplicato la propria produzione annua a fine 2016 (tavola 1). Sono numeri incoraggianti in prospettiva: altre analisi mostrano come le startup innovative italiane siano dirette in buona parte da giovani imprenditori e investano in proporzione molto di più delle altre nuove imprese, specie in attività immateriali.

Tavola 1 – Crescita del valore della produzione delle startup innovative registrate nel 2014, triennio 2014-2016

Fonte: elaborazioni Mise su dati InfoCamere, Relazione annuale 2017

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L’utilizzo delle agevolazioni dedicate al settore è aumentato di pari passo. Negli ultimi quattro anni le startup innovative hanno ricevuto prestiti coperti da garanzia pubblica per circa 600 milioni di euro: di questi, 220 milioni sono stati concessi nel solo 2017 (figura 1). Anche l’equity crowdfunding, dopo una partenza in sordina, ha visto una crescita esponenziale negli ultimi mesi: 59 campagne sulle 107 finora avutesi in Italia sono state avviate nel solo 2017 (figura 2).

Figura 1 – Operazioni autorizzate dal Fondo di garanzia per le Pmi verso startup innovative per anno, importo (milioni di euro) e stato dell’operazione

Fonte: Elaborazioni Mise su dati MedioCredito Centrale

Figura 2 – Flusso temporale delle campagne di equity crowdfunding in Italia, per data di conclusione

Fonte: Elaborazioni Mise su dati Politecnico di Milano (Osservatorio CrowdInvesting)

Il problema del venture capital: un circolo vizioso?

Nonostante questi segnali positivi, un’altra statistica espone in maniera eloquente una debolezza dell’ecosistema italiano: l’ammontare totale degli investimenti da venture capital è rimasto significativamente inferiore anche rispetto a paesi europei con un’economia di minori dimensioni (figura 3). Seppur destinato a una frazione minuscola di nuove imprese, il venture capital è di centrale importanza per aziende che hanno difficoltà a ottenere credito a causa del loro profilo di rischio troppo elevato e di prospettive di accesso al mercato spesso lontane nel tempo.

Figura 3 – Investimenti da venture capital (milioni di dollari in valore nominale, 2010 e 2016)

Fonte: Oecd (2017), Entrepreneurship at a Glance 2017, Oecd Publishing, Paris.

Perché in Italia è così ridotto l’ammontare degli investimenti in venture capital, peraltro fortemente agevolati sul piano fiscale,? Per varie ragioni (domanda interna debole, commesse pubbliche assenti e così via), i beni e servizi innovativi hanno pochi sbocchi sul mercato. Gli investitori, pertanto, faticano a vedere prospettive solide per le startup.
Altri ostacoli hanno carattere sistemico e afferiscono in generale alla carenza di incentivi e agli ostacoli alla concorrenza. Un esempio particolarmente significativo è l’inefficienza della giustizia civile: la debolezza dei contratti formali accresce il peso della componente reputazionale, creando una rendita per chi opera sul mercato da più tempo e una barriera all’ingresso per i nuovi attori. Il risultato è un circolo vizioso: finché il mercato rimane troppo piccolo, gli investitori stranieri sono restii a entrarvi, per assenza di esperienza. Al contempo, gli investitori italiani stentano ad avere un portafoglio abbastanza ampio e differenziato per investire nelle startup più rischiose.
Cosa può fare il legislatore? Un primo passo è riconoscere che i problemi delle startup non si risolvono solo con politiche mirate. L’evidenza empirica suggerisce che riforme strutturali tese a creare un ambiente più favorevole per tutte le imprese possano avere un effetto più che proporzionale per quelle più giovani.
Un secondo passo potrebbe mirare a costruire una massa critica di venture capital tramite investimenti pubblici, prendendo spunto da strategie simili adottate in diversi paesi Ocse (come Germania e Francia). Tuttavia, date le ingenti risorse pubbliche necessarie, è fondamentale disciplinare con attenzione le modalità di erogazione e la governance degli enti preposti. Ad accompagnarle dovrebbe poi essere un’azione di rimozione degli ostacoli “a valle” (mercato di sbocco e acquisizione di startup), per evitare l’effetto collaterale di una saturazione del mercato di venture capital “a monte” e lo “spiazzamento” (crowding out) degli investitori privati.

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* Le opinioni espresse in questo articolo sono riconducibili esclusivamente agli autori e non riflettono le posizioni delle istituzioni di appartenenza.

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  1. Henri Schmit

    Bell’articolo su un tema cruciale. Il passaggio decisivo è il seguente: “Perché in Italia è così ridotto l’ammontare degli investimenti in venture capital, peraltro fortemente agevolati sul piano fiscale? Per varie ragioni (domanda interna debole, commesse pubbliche assenti e così via), i beni e servizi innovativi hanno pochi sbocchi sul mercato. Gli investitori, pertanto, faticano a vedere prospettive solide per le startup.
    Altri ostacoli hanno carattere sistemico…” Non vedo il problema della domanda interna e delle commesse pubbliche; il mercato è globale e il MSviluppoEconomico (meritevole) organizza incontri “Borsa dell’Innovazione e dell’Alta Tecnologia” con operatori ed investitori internazionali. Il problema rimane: perché nonostante le evidenti capacità di numerosi operatori innovatori, giovani e meno giovani (!), in Italia non fioriscono i progetti innovativi? Perché tutto è pensato in termini di caccia alla rendita sicura, preferibilmente pubblica? Perché uno start up o un investimento innovativo rischioso conviene farlo altrove, in sistemi-paese più snelli, più trasparenti, in cui la PA non il principale ostacolo al successo?

  2. Marco

    Bella analisi. Sarebbe utile aggiungere anche un’analisi sul grado di innovazione di tali aziende. Quante di queste sono realmente innovative e non maschere per prendere i contributi? Quante replicano modeli già esistenti senza aggiungere nulla di nuovo? Nella mia esperienza ho visto aziende fotocopia prendere centinaia di migliaia di euro di contributi solo perché residenti in zone agevolate. Altro problema è la burocrazia. Ci sono camere di commercio che non sanno inquadrare le aziende realmente innovative e magari le tengono sospese per mesi prima di dargli il via. Di solito questo capita in aree a più bassa concentrazione di imprese innovative. Si possono trovare soluzioni a questi problemi?

  3. Giovanni Medioli

    Penso che si sommino due problemi. Il primo è culturale: gli startupper italiani non mancano ma hanno ancora spesso una visione “prendi i soldi e scappa”. Nessuno parte pensando “diventerò grandissimo”, “da grande farò l’unicorno”. Il secondo ostacolo è di sistema: oggi è (relativamente) facile partire, crescere no. All’estero si cresce, qui prevale l’idea dell’impresa bonsai. E chi parte pensando “da grande voglio fare il nano”, forse, ha un atteggiamento un po’ strano

  4. Federico Leva

    «Le startup sono il principale motore della creazione di posti di lavoro»: fatico a trovare conferma di questa affermazione nello studio OCSE collegato.

    Si intende forse la figura B2, «Average shares of gross job creation of small young units by 2-digit sector»? «Notes: the graph reports the cross-country distribution of the share of gross job creation (gross job creation of small young units
    over total gross job creation) of small (0-49 employees) young (0-5 years old) units by 2-digit sector».

    Includendo le medie imprese con 49 impiegati e le imprese vecchie 5 anni mi pare che siamo abbastanza lontani dal parlare di startup nel senso comune del termine. E comunque il dato si colloca per lo piú intorno al 30 %.

    Comunque non capisco perché dovrebbe importarci dove abbiano sede le startup, finché sono in UE. Piú interessante è dove vadano ad assumere. Lo stesso articolo indicato dimostra che la crescita degli impiegati è concentrata in un numero minuscolo di startup, che presumibilmente si espandono anche oltre i confini nazionali della propria sede legale.

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