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Chi guadagna dal taglio delle tasse universitarie?

Basta far parlare i dati per scoprire che il trasferimento di risorse agli studenti universitari proposto
da Liberi e Uguali non è una misura perversa sotto il profilo redistributivo, sebbene essa possa non essere ottimale in termini di efficacia.

Effetti redistributivi

Liberi e Uguali propone di trasferire 2,2 miliardi di euro verso le famiglie con figli iscritti all’università abolendo le tasse di iscrizione per 1,6 miliardi e assegnando 600 milioni aggiuntivi all’Ente per il diritto allo studio. Il gettito fiscale necessario andrebbe reperito da un incremento dell’imposizione diretta sul reddito.
L’intenzione sembra essere quella di incentivare l’iscrizione all’università per favorire la formazione di capitale umano capace di generare innovazione e crescita.
Sebbene la proposta non sembri essere focalizzata sul tema redistributivo, è proprio su questo profilo che si è concentrata l’attenzione. Per valutare la variazione distributiva complessiva che la misura determina, occorre verificare sia verso chi trasferisce risorse sia da chi le reperisce.
Nella tabella 1 classifichiamo la popolazione in quattro grandi classi rispetto al reddito e alla fruizione universitaria. Lungo la dimensione reddituale, si distinguono le famiglie attualmente esenti dalle tasse di iscrizione da quelle che invece superano la soglia di esenzione (in media 15 mila Isee). Lungo la dimensione della fruizione, si separano dal resto delle famiglie quelle che usufruiscono dei servizi universitari attraverso l’iscrizione di almeno uno dei propri figli.
Data tale classificazione, simuliamo sui dati reali l’effetto redistributivo congiunto di: (i) abolizione delle tasse universitarie; (ii) trasferimento di 600 milioni alle famiglie di universitari con reddito inferiore a 15 mila euro Isee; e (iii) aumento dell’Irpef per un totale di 2,2 miliardi mantenendo costante la frazione pagata da ciascuna famiglia.
Definiamo poi come ricavo il trasferimento ricevuto da ciascuna classe attraverso le prime politiche, mentre il costo è dato dall’Irpef aggiuntiva versata da ciascuna classe. Costi e ricavi aggregati per classe vengono poi divisi per il numero di famiglie corrispondente, così da stimare il trasferimento medio normalizzato.

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Tabella 1 – Trasferimento medio normalizzato per classe simulato sui dati del 2014

Nota: Si fa l’approssimazione secondo cui l’ordine delle famiglie rispetto al reddito e all’Isee sia lo stesso. Sapendo che gli studenti universitari esenti dalle tasse di iscrizione ammontano a circa il 36 per cento degli iscritti, ne deriva che il 36° centile della distribuzione Isee degli studenti universitari corrisponde al 36° centile nella distribuzione degli studenti universitari ordinati per i redditi delle famiglie di origine. La famiglia corrispondente a tale centile nei dati Banca d’Italia si trova a versare circa 3.300 euro di Irpef. Si fa inoltre l’ipotesi che il numero di studenti all’interno di ciascuna classe resti costante dopo l’abolizione delle tasse di iscrizione.

Fonte: Elaborazione degli autori a partire dai microdati estratti dalla base di dati “Indagine sui bilanci delle famiglie italiane” della Banca d’Italia, 2014.

Per quanto approssimativo, l’esercizio mette chiaramente in luce almeno due risultati immediati.
L’effetto redistributivo più importante consiste nel trasferimento dalle famiglie senza figli universitari verso quelle con figli iscritti all’università. Come si legge in tabella 1(1), le numerose famiglie che non hanno figli iscritti all’università si troverebbero a sopportare, in media, un modesto costo aggiuntivo normalizzato di 88 euro dovuto all’aumento dell’Irpef, senza ricevere alcun beneficio. Al contrario, come si vede dalla tabella 1(2), le famiglie con figli all’università godrebbero di un saldo normalizzato pari a 1.464-152=1.312 euro.
Vi è poi un leggero effetto redistributivo dall’alto verso il basso della scala di reddito. Come si legge in tabella 1(3), le famiglie al di sotto della soglia di esenzione si troverebbero, in media, a sopportare costi aggiuntivi per 21 euro e ricavi per 46, così da beneficiare di un saldo positivo normalizzato di 25 euro. Al contrario, le famiglie al di sopra della soglia di esenzione registrerebbero un saldo negativo normalizzato di 30 euro, poiché i costi maggiori derivanti dall’aumento dell’imposizione progressiva non sarebbero interamente compensati dall’abolizione delle tasse di iscrizione.
La grossolana suddivisione in sole quattro classi oscura parzialmente ciò che avviene per le famiglie più vicine ai confini di classe, per le quali gli effetti redistributivi sono più attenuati. Per quantificarli occorrerebbe suddividere la popolazione in classi più fini e conoscere quante risorse saranno destinate verso ciascuna, ma l’attuale definizione del programma di LeU non permette di fare valutazioni così precise.

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L’efficacia

I risultati riassunti nella tabella 1 sono ottenuti sotto l’ipotesi che il numero di iscritti per classe resti costante. Eventuali variazioni delle iscrizioni in ciascuna classe dovute all’abolizione delle tasse universitarie contribuirebbero invecenon solo a modificare il profilo redistributivo dell’università, ma soprattutto a decretare l’efficacia della proposta di LeU.
Presumibilmente, gli studenti più sensibili agli incentivi economici sono quelli appartenenti alle fasce di reddito più basse. Di conseguenza, qualsiasi trasferimento volto ad aumentare le iscrizioni avrebbe gli effetti maggiori quando concentrato verso i redditi più bassi, ad esempio se i 2,2 miliardi fossero interamente destinati a potenziare l’Ente per il diritto allo studio. Dunque, nel caso di questa specifica politica, rendere massimo l’effetto redistributivo potrebbe aumentare molto anche l’efficacia dell’intervento.

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  1. loredano

    non è che si premino gli evasori e puniscano i percettori di redditi da lavoro dipendente come d’uso?
    non mi sembra che questo aspetto della problematica sia stato affrontato

    • asdra

      Anche oggi, ma tanto più se l’iscrizione all’università fosse a carico della collettività, sarebbe giusto che lo studente che non dà o non supera esami, o che va fuori corso senza una ragione valida, sia penalizzato.

  2. Pietro Manzini

    Sono molto perplesso. La prima parte dell’articolo sfida la legge della domanda. Se i costi si abbassano le iscrizioni aumentano mentre l’A sembra partire dal presupposto che il numero degli iscritti non muti. Poi vengono bellamente ignorati i costi che il sistema universitario dovrebbe sostenere a causa dell’aumento degli iscritti. Nuovi spazi, amministrazione, nuovi docenti, ecc. Oppure l’università italiana è il nuovo fattore k? Funziona sempre uguale a prescindere dalle risorse attribuite…

  3. Sergio

    Grazie per l’utile studio! Resto dell’idea che servirebbe a poco se non si risolvessero gli altri problemi fondamentali dell’università italiana, in primis la scarsa incentivazione dei docenti a curare la didattica, con studenti spesso lasciati a loro stessi e alla dispersione delle energie. Occorre un sistema molto più strutturato, con obblighi di frequenza a fronte di servizi didattici sostanziali, non limitati alla lezione cattedratica e agli esami. All’Istituto Universitario Europeo dove lavoro part time ci stiamo muovendo verso approcci didattici fortemente interattivi, a somiglianza delle migliori università del mondo. Abbassare i prezzi e basta rischia di aggravare lo squilibrio tra una domanda di didattica crescente e un’offerta già scarsa e statica se va bene.
    Parte delle risorse andrebbero trasferite ai docenti specie giovani in cambio di maggiori e migliori servizi didattici.
    Il problema è che in Italia in molti casi le posizioni universitarie servono da etichetta e trampolino per altre e più lucrose carriere, peraltro con garanzie del posto tenuto in caldo. Altro che articolo 18.
    Tra quelle carriere spiccano quelle politiche, e ciò garantisce l’irriformabilità del sistema, protetto da una falange trasversale di parlamentari/professori che di tale sistema beneficiano.

  4. Ugo Gragnolati

    @Pietro Manzini:
    Nella prima parte dell’articolo si ragiona “a parità di altri fattori”, isolando così l’effetto redistributivo immediato dal resto. Successivamente, invece, si discute di come sia l’efficacia che gli effetti redistributivi di più lungo termine verranno decisi da quanto aumenteranno gli studenti. Quanto più si ritiene che la politica sia inefficace sulle iscrizioni, tanto più i conti proposti nella prima parte risulteranno essere una buona approssimazione. Se gli iscritti aumentano è del tutto ragionevole attendersi che anche i costi aumentino di livello, come lei scrive. Quanto alla loro ripartizione tra classi, invece, essa dipende da quanto l’eventuale aumento degli iscritti sarà uniforme tra classi. In caso di perfetta uniformità nell’aumento, la distribuzione dei costi resterebbe invariata. In ogni caso, andrebbe mantenuta salda la logica di valutazione: per valutare gli effetti redistributivi di una politica occorre considerare sia a chi si destinano i ricavi sia su chi gravano i costi; inoltre, occorre valutare congiuntamente le diverse leve utilizzate. Le altre analisi divulgative a me note, pur restando nell’ottica ristretta “a parità di altri fattori”, analizzano tipicamente solo la distribuzione dei ricavi, dimenticando interamente di guardare anche alla variazione dei costi nonché all’insieme di leve mosse. Il principale obiettivo dell’articolo è invece di chiarire che tutte queste componenti vanno analizzate congiuntamente.

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