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Il vecchio vizio di garantirsi il seggio in Parlamento

Anche la nuova legge elettorale permette di candidarsi in più collegi diversi. Rispetto al passato, ci sono più vincoli alla discrezionalità, ma resta il fatto che un candidato bocciato all’uninominale dagli elettori può essere ripescato nel proporzionale.

Come funziona la candidatura plurima

I partiti hanno definitivamente presentato i simboli, i programmi e le liste elettorali che si sfideranno il 4 marzo. Può finalmente cominciare ufficialmente la campagna elettorale, che vedrà sfidarsi i candidati in 232 collegi uninominali alla Camera e in 116 al Senato. Tolti i seggi spettanti alla circoscrizione estero (12 alla Camera e 6 al Senato), i posti restanti – 386 alla Camera e 193 al Senato – saranno assegnati con metodo proporzionale a candidati raccolti in liste circoscrizionali brevi, bloccate, che rispettano le quote di genere e caratterizzate dalla possibilità di candidature plurime.

La candidatura plurima è un istituto che permette a un candidato di correre contemporaneamente in più collegi elettorali. Si tratta di una caratteristica tipica dei sistemi proporzionali o perlomeno misti. Nei collegi uninominali e con metodo di voto maggioritario, la rinuncia di un candidato eletto non porterebbe alla sua sostituzione con il secondo arrivato (significherebbe annullare la volontà della maggioranza relativa di quel collegio) bensì all’indizione di elezioni suppletive (come avviene nei casi di dimissioni o decesso di un eletto). È un metodo di sostituzione costoso (ci vogliono soldi e tempo per indire nuove elezioni in un seggio che altrimenti rimarrebbe vacante), ma senza alternative. Nel sistema proporzionale, invece, i seggi della circoscrizione sono assegnati a liste di partito, di fatto indipendentemente dall’identità di chi ne fa parte. È quindi del tutto possibile che un eletto venga sostituito da chi lo segue nella posizione in lista (o nel numero di preferenze, se fossero possibili). Quando però un candidato si presenta in più collegi plurinominali, la possibilità che sia effettivamente eletto in più luoghi non è affatto remota. La nuova legge elettorale (legge 165/2017) dà la possibilità a ogni candidato di essere incluso fino a un massimo di cinque volte in liste plurinominali, anche se risulta candidato all’uninominale.

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Non si tratta certo di una novità: in Italia – e non solo – le pluricandidature sono sempre esistite (e sono possibili, per esempio, per le elezioni europee). L’intento è almeno triplice. Innanzitutto, offre al candidato maggiori possibilità di elezione: è quindi una norma che mette al riparo i leader – o talune personalità rilevanti – da eventuali bocciature ed è naturalmente molto apprezzata dai partiti più piccoli. Permette poi a eventuali leader acchiappavoti di aumentare i consensi per la propria lista in tutti i collegi in cui è presente (celebre il caso di Silvio Berlusconi capolista in tutte le circoscrizioni per le elezioni europee del 2009). Infine, permette allo stesso leader di decidere strategicamente chi far entrare in parlamento, imponendo la scelta del collegio di elezione al candidato e determinando quindi quali “secondi” far passare al suo posto e quale no.

Tutto come prima?

Di riforma in riforma, quindi, il vizio di permettere le pluricandidature non sembra abbandonare il legislatore italiano. Da un lato, la norma può avere aspetti positivi, perché consente appunto di tutelare alcune candidature, considerate meritorie (per ragioni più o meno legittime); dall’altro, tuttavia, interferisce con il meccanismo democratico perché rende ripescabile, cioè eleggibile, chi invece non è stato eletto in un determinato collegio.

A differenza del passato, però, la nuova legge elettorale contiene un elemento che vincola la discrezionalità dell’eletto: prevede infatti che il parlamentare eletto in più collegi plurinominali sia proclamato nel collegio nel quale la lista cui appartiene ha ottenuto la minore cifra percentuale di collegio plurinominale, così come determinata ai sensi della legge. Inoltre, il parlamentare eletto in un collegio uninominale e in uno o più collegi plurinominali si intende ovviamente eletto in quello uninominale.

Si tratta di un passo in avanti? Forse, ma solo se si accetta come naturale la presenza della candidatura plurima: diminuendo la discrezionalità dell’eletto, si rende la sua proclamazione “neutrale” rispetto alla composizione del parlamento. Tuttavia, resta il dubbio che la norma continui a essere usata per tutelare la longevità del ceto politico più che per promuovere l’elezione di outsider senza un bacino elettorale. È ancor più grave che la pluricandidatura permetta a un candidato non eletto all’uninominale di essere ripescato: se il voto proporzionale è più un voto di lista, quello maggioritario nel collegio uninominale è più personale. Il candidato bocciato nel collegio uninominale è un candidato rifiutato dal suo elettorato. Ritrovarselo comunque in parlamento, per gli elettori di quel territorio, non deve essere particolarmente gradito. Non è certo un buon metodo per aumentare il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto.

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Perché dunque non basare la propria preferenza elettorale anche su questo elemento? Come si comportano cioè i diversi partiti in questo caso? Una volta che le liste elettorali saranno ufficiali e disponibili, sarà interessante capire quale partito ha sfruttato di più la norma e per quale motivo.

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  1. Michele Lalla

    L’articolo è molto equilibrato, ma, alla fine, l’equilibrio salta. Per un partito piccolo, la bocciatura all’uninominale e il seguente ripescaggio al proporzionale, non è un inganno per gli elettori, salvo abbandonare il buon senso, che con l’insistenza diventa nonsenso; in generale, anche per il partito grande non lo è, perché si tende a candidare persone rilevanti e si cerca di farli eleggere in quei collegi proprio, dove il partito è debole per prendere piú voti possibili. Se c’è una quota proporzionale, allora questo è inevitabile, altrimenti si avrebbero dei paradossi del tipo: un candidato con voti nell’uninominale piú numerosi dei colleghi di partito non viene eletto, rispetto a quelli eletti nel proporzionale. Per brevità mi limito a questo e noto solo, infine, che si possono limitare ancora di piú le candidature plurime, ma eliminarle del tutto è una assurdità, quando c’è una quota proporzionale. Diversamente, bisogna passare al maggioritario, ma personalmente lo vedo come la dittatura della maggioranza: il proporzionale garantisce una rappresentanza anche ai piccoli, che il sale della democrazia.

  2. Henri Schmit

    Il momento (legge appena approvata, elezioni imminenti) è più per considerazioni di strategia che per giudizi di valore e di conformità. Attraverso le LISTE BLOCCATE e l’uninominale CONGIUNTO la legge crea rigidità che comunque premiano l’alternativa mediana (meno rifiutata). Per superare l’ostacolo (o evitare la trappola) il M5S ha dovuto aprirsi candidando personaggi della società civile nei collegi uninominali e ammorbidendo il programma con proposte moderate. Ma forse troppo tardi e non abbastanza. Tutti fanno quello che la legge favorisce: nominano i fedeli al capo, quelli del cerchio magico; grazie alle liste bloccate e alle pluricandidature loro saranno eletti in gran parte a prescindere dalla preferenze degli elettori. Sono loro che domani legifereranno. Dopo le elezioni, come al solito, tutti denunceranno se non l’ennesima truffa, l’eccesso proporzionale e le nomine dispotiche. Dovremmo imparare a liberarci dalla dicotomia fuorviante fra maggioritario e proporzionale e distinguere invece fra voto individuale e voto di lista, e fra uninominale (in pochi o tanti collegi) e plurinominale (piccolo o grande). L’Italicum e il Porcellum erano iper-maggioritari GRAZIE alle liste, mentre verso il 1848 l’uninominale per numerosi deputati è stato promosso come sistema proporzionale, anti-maggioritario (il sistema dominante era allora un plurinominale a voto plurale -uguale al numero dei seggi – senza liste).

  3. enzo

    Diciamo che la legge è stata fatta così proprio perché questi difetti sono per chi l’ha realizzata dei pregi e svincolarsi dal giudizio dell’elettore sembra utile e opportuno. Ma le leggi elettorali italiane hanno ulteriori difetti . In primo luogo per tutta la legislatura l’elettore si convince che esistono dei partiti in base ai quali forma un’opinione, intanto nel parlamento si creano gruppi parlamentari non corrispondenti a questa divisione. Ad esempio nella scorsa legislatura elettori del PDL hanno votato contemporaneamente per la maggioranza di governo e per l’opposizione. Il 4/3 ci troveremo oltre ai relativamente pochi partiti una miriade di liste che il giorno dopo si fonderanno e/o divideranno in base a criteri da mercante in fiera. In breve tra qualche mese molti elettori si accorgeranno …di aver votato diversamente da come volevano.

  4. Sì l’articolo è ben fatto ed equilibrato: ma resta di fondo tendenzioso. Asseconda (v. titolo) un giudizio irragionevolmente qualunquistico, in parte contraddetto nel testo che evidenzia la grande diversità fra voto uninominale (prevalente attenzione alla persona) e proporzionale (prevalente attenzione alla proposta di partito: i partiti del Novecento si sono affermati in parallelo alla proporzionale!).
    Primo: per le ragioni che Balduzzi illustra, NON parlarei di “ripescati”. Ripescati ce ne potevano essere PRIMA, grazie al sistema delle opzioni. Ora che le opzioni non ci sono più, è solo il voto che determina chi è eletto. E’ dunque scorretto parlare di “ripescati”!
    Secondo: siamo di fronte a persone che per la loro capacità di attrarre voti e per il radicamento sul territorio sono candidate ANCHE nell’uninominale. Ma gli elettori sono informati (non si parla d’altro). E non vedo proprio perché un partito (specie piccolo e dunque non in grado di misurare le proprie possibilità nei vari collegi) non debba disporre di uno strumento per eleggere il nucleo del proprio gruppo dirigente.
    Terzo: essere bocciato all’uninominale, caro Balduzzi, non è equiparabile a un rifiuto dall’elettorato. Varrebbe in un sistema solo uninominale. I seggi uninominali davvero contendibili sono solo una parte: nessuno accetterebbe di candidarsi sacrificandosi senza la possibilità di essere eletti nella parte proporzionale, pensi solo a tutti i candidati non PD, non destra, non M5S!

    • Grazie mille per i commenti e le critiche. 1) Penso che ripescato sia il termine corretto: l’ho utilizzato per indicare un candidato bocciato in un collegio ‘uninominale e, appunto, “ripescato” al proporzionale: il voto nominale esclude un candidato, il voto al partito lo ripesca; 2) Nel testo sono critico ma evidenzio anche i lati positivi delle pluricandidature: concordo con lei sul suo secondo punto, per esempio 3) Ma nei sistemi solo uninominali, qualcuno che accetta di candidarsi solo per spirito di partito lo si trova: anzi, potrebbe essere anche un anche un modo che hanno i partiti per far emergere una candidatura molto condivisa sul territorio che, nonostante la sconfitta, sia in grado di raccogliere consensi da usare in futuro. Perchè invece nel nostro Paese dobbiamo ripagare certi candidati con un posto più o meno sicuro nella lista proporzionale? Ripeto quanto scritto: alcune candidature è giusto che siano tutelate. L’impressione, tuttavia, è che i partiti abusino di questo strumento

    • Henri Schmit

      L’illustre commentatore fautore dei “sistemi majority-assuring” difende con una domanda retorica anche le candidature bloccate: “E non vedo proprio perché un partito (specie piccolo e dunque non in grado di misurare le proprie possibilità nei vari collegi) non debba disporre di uno strumento per eleggere il nucleo del proprio gruppo dirigente”. La risposta è comunque semplice ed evidente: perché nonostante la giurisprudenza permissiva della Consulta la Costituzione (come TUTTE le costituzioni liberal-democratiche) lo vieta: i deputati sono eletti dai cittadini, non da corporazioni quali i partiti. Le libere associazioni partitiche hanno tutta la libertà di selezionare i loro candidati, sia per collegi uninominali sia per circoscrizioni plurinominali, con o senza liste, ma non dovrebbero mai decidere anche chi sarà eletto. Le pluricandidature (accettabili in teoria) vanno valutate in questo contesto: ampliano il potere discrezionale di chi abusivamente decide al posto degli elettori chi sarà eletto. Votare per un partito di appartenenza piuttosto che per le qualità personali di un candidato, infine, è sempre permesso, anche nei sistemi rigorosamente individuali, uninominali (USA, UK, F) o non (IRL, SF).

  5. Alessandro Morresi

    Ritengo che la pluricandidatura (sia quella uninominale-plurinominale, sia quella in più plurinominali) sia ingiusta perchè non rispetta in pieno la volontà dell’elettore e scolla l’atto di voto dai destini del medediomo. Oltre a ciò il fatto che tra più vittorie nei plurinominali si venga eletti lì dove la cifra elettorale è minore (quindi molto probabilmente dove si è preso meno voti tra i collegi in cui ci si è candidati) è illogico: vengo eletto dove ho meno voti… curioso!
    Sui cambi di casacca-colore-partito-grupoo nel corso di una legislatura ogni commento è amaramente superfluo.

  6. Henri Schmit

    Chi (come il prof. Fusaro) difende le pluricandidature con liste bloccate (e eventualmente collegi uninominali) promuove un sistema di nomenclatura parlamentare, cioè 1. la scelta dei legislatori da un’élite fattuale (quelli che nelle associazioni partitiche detengono il potere) e 2. la riduzione del diritto elettorale dei cittadini alla scelta fra nomenclature in competizione fra di loro. La ciliegina sulla torta di questa concezione è il meccanismo “majority-assuring” (premio di maggioranza certo = Procellum, o condizionale = Italicum) , uno stratagemma che garantisce ad una delle nomenclature di occupare (quasi) tutto il potere. Il passaggio preoccupante e inaccettabile di questa concezione è quando la teoria viene trasformata – dai professori di diritto pubblico (come Carlo Fusaro), dai legislatori (1922, 1956, 2006, 2015) e dai giudici supremi ( 1/2014 e 35/2017) – da un’analisi descrittiva di sociologia politica (Robert Michels, Mosei Ostrogorski, Joseph A. Schumpeter) in una soluzione di diritto positivo (Mussolini-Acerbo, De Gasperi-Scelba, Berlusoni-Calderoli, Renzi-Boschi). La scelta teorica, o filosofica, è fra ideologia liberal-democratica che garantisce i diritti individuali e ideologia corporativa degli enti preesistenti sovraordinati agli individui.

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