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Regionalismo differenziato in cerca di un faro nella nebbia

Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna hanno avviato le procedure per ottenere una maggiore autonomia. Ma come si deve svolgere la trattativa fra governo e regioni? E come si risolve la questione delle risorse? Per superare le incertezze serve pragmatismo.

Più autonomia per Emilia, Lombardia e Veneto

Il “regionalismo differenziato” ha ripreso slancio, dopo diversi anni in cui sembrava completamente sopito. Il 22 ottobre 2017 Lombardia e Veneto hanno tenuto un referendum consultivo per una maggiore autonomia. In precedenza, l’Emilia-Romagna si era mossa nella stessa direzione, senza alcun referendum. Nelle ultime settimane il Veneto ha dichiarato di volere lo statuto speciale, impegnando il proprio consiglio alla scrittura della relativa legge d’iniziativa regionale. Lombardia ed Emilia-Romagna hanno seguito invece la strada del confronto con il governo ai sensi dell’articolo 116, terzo comma. E si sono tenuti già tre incontri preliminari: uno a Roma, uno a Bologna e uno a Milano.

Le tre regioni sono governate da due governatori leghisti e uno democratico, con ruoli e complicità non scontate. Può essere utile allora ricordare l’origine della norma costituzionale che ha introdotto la possibilità che le regioni ordinarie compiano – se così si può dire – un (piccolo) passo d’avvicinamento verso quelle a statuto speciale, chiedendo d’avere competenze su una o più materie di “legislazione concorrente” o alcune (in realtà pochissime) delle materie oggetto di legislazione esclusiva dello stato. L’articolo è stato introdotto con la riforma del titolo V (legge costituzionale 3/2001) votata dal centro-sinistra nell’ultimo scorcio della XIII legislatura, quando premier era Giuliano Amato. La legge venne sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001. Il centro-destra votò contro in parlamento e fece campagna per il “no” alla consultazione. Occorre aggiungere tuttavia che anche la sinistra è stata tutt’altro che compatta nel sostenere il regionalismo differenziato: per esempio, la prima stesura della legge Renzi-Boschi di riforma della Costituzione prevedeva la sua abrogazione (la norma venne “recuperata” soltanto durante il dibattito in aula).

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Per questa ragione probabilmente non è mai stata scritta una legge attuativa, che in realtà sarebbe necessaria. Molti aspetti infatti non sono chiari: come si deve svolgere la trattativa fra governo e regioni? Cosa significa concretamente il richiamo ai princìpi dell’articolo 119? L’accordo potrebbe essere emendato in aula nella sua conversione in legge?

I punti fermi del sottosegretario

In occasione dell’incontro milanese del 21 novembre scorso il sottosegretario per gli Affari regionali Gianclaudio Bressa ha fatto dichiarazioni che sembrano porre alcuni punti fermi, fra molte incertezze. In primo luogo, ha affermato che non è pensabile la richiesta di tutte le materie, in blocco, indicate nel terzo comma dell’articolo 116. Soprattutto, ha precisato che non vi sarebbe una maggior disponibilità di risorse di fronte alle ulteriori (eventuali) competenze regionali.

Quest’ultimo è un punto di capitale importanza che sembra gelare le aspettative lombarde. Nel corso della campagna referendaria il presidente Roberto Maroni aveva sostenuto infatti che il suo obiettivo era quello di “recuperare” il 50 per cento del residuo fiscale della Lombardia, stimabile a suo avviso in oltre 50 miliardi di euro annui (si veda qui e qui).

In questa prospettiva, il senso del regionalismo differenziato sarebbe quello di recuperare risorse da parte delle regioni più ricche e dinamiche. Dal punto di vista del governo, invece, si tratterebbe della volontà delle regioni più efficienti d’offrire più servizi ai propri cittadini, con le stesse risorse. Punti di vista distanti, che non sono solo il frutto di una diversa sensibilità politica, ma delle troppe incertezze che circondano la materia.

In altre parole, rimane completamente aperto il dilemma che ha sempre avvolto il regionalismo differenziato, voluto dal centro-sinistra nel 2001: è un regalo alla propaganda autonomistica, oppure può essere uno strumento pragmatico, in grado di incidere in modo positivo sul diverso – molto diverso – rendimento istituzionale delle regioni italiane? Tony Blair diede il la alla devolution nel 1997-1998 con gli stessi intendimenti: a suo avviso, un atteggiamento distensivo avrebbe reso più debole l’indipendentismo scozzese. In realtà è stato il contrario. Da noi, paradossalmente, si è riaperto il tema nel momento in cui la Lega ha virato verso il sovranismo populista: speriamo che questo dato politico contribuisca a rendere ancora più pragmatica la trattativa governo-regioni.

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  1. giorgio ponzetto

    Più che una riflessione pragmatica sul regionalismo differenziato auspicherei un ripensamento circa l’opportunità e l’utilità dello stesso. La normativa costituzionale del 2001 è stata una riforma affrettata e superficiale fatta con l’unico illusorio scopo di togliere voti alla Lega. In realtà l’esperienza di quasi 50 anni ha mostrato i limiti e i difetti del nostro regionalismo e la necessità di un suo totale ripensamento, compreso quello delle Regioni a statuto speciale ormai prive di qualsiasi giustificazione. La riforma costituzionale bocciata nel 2016si muoveva, (anche sull’onda dei tanti casi di malgoverno emersie ora già dimenticati) almeno per le Regioni ordinarie, nel senso di una ridefinizione del loro ruolo e dei loro poteri, riequilibrati a favore dello Stato,ma purtroppo non ha avuto seguito. Ma è questo il problema di fondo che dovrebbe essere affrontato: in un mondo globalizzato con problematiche che vanno quasi sempre al di la degli stessi confini nazionali hanno ancora senso le nostre 20 Regioni le quali, più per la spinta e per le ambizioni dei ceti politici locali che per una esigenza sentita, aspirano a diventare sempre più 20 piccole entità autonome, ciascuna con competenze e poteri in ogni campo L’esperienza passata e il mondo che cambia suggerirebbero invece di pensare a nuovi diversi modelli di governo locale.

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