La riforma fiscale di Trump non può essere letta come un atto ostile verso l’Unione Europea. Anche perché le misure adottate sono da tempo presenti nelle legislazioni europee. È invece un legittimo tentativo di riguadagnare la competitività perduta.
Nessun atto ostile verso la UE
Un recente articolo pubblicato su lavoce.info attribuisce alla riforma del fisco americano la valenza di una “dichiarazione di guerra” all’Europa, non tanto (o non solo) per l’abbassamento dell’aliquota dell’imposta societaria al 21 per cento, quanto per alcuni istituti (immediata deduzione degli investimenti, patent box, esenzione dei dividendi esteri) che gli autori inquadrano in una concorrenza fiscale aggressiva.
Si tratta tuttavia di misure presenti da tempo nelle legislazioni europee; usando metafore belliche, quella approvata dal Congresso americano sarebbe allora, paradossalmente, una ritorsione.
Molti stati europei (come Francia, Olanda, Gran Bretagna, Spagna, Italia), ad esempio, già prevedono regimi di patent box, ovvero una tassazione agevolata dei proventi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali (intangibles). E se l’aliquota Usa ridotta sulle cessioni all’estero di proprietà intellettuali può essere vista come una violazione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio sui sussidi all’esportazione, vanno anche menzionate, in campo europeo, le minacce di una web tax sui ricavi delle multinazionali americane, che costituirebbero nella sostanza dazi all’importazione, anch’essi vietati dal Wto.
Gli autori dell’articolo immaginano una reazione degli stati UE mercé l’applicazione della disciplina sulle Controlled Foreign Companies alle controllate estere domiciliate negli Stati Uniti, con tassazione per trasparenza dei loro redditi, ma un tale regime scatta solo nei confronti di società site in paesi a fiscalità privilegiata (e gli Usa non sono tali) e soltanto se non svolgono un’attività commerciale effettiva.
Quanto alla deduzione immediata degli investimenti in capitale fisso, in luogo di ammortamenti, si tratta di una misura temporanea che avvicina quella Usa a una imposta sui consumi (consumption tax) e riecheggia analoghe previsioni già sperimentate nel nostro continente e anche in Italia, come la detassazione degli utili reinvestiti (le cosiddette “leggi Tremonti”) o le recenti misure sui super e iper-ammortamenti, che hanno un impatto sovvenzionale molto maggiore, non limitandosi all’immediata deduzione del costo pluriennale bensì ampliandolo a un multiplo della spesa sostenuta dall’impresa, con un vero e proprio sussidio pubblico all’acquisto di beni strumentali.
Analoghe considerazioni si possono fare per la transizione del sistema americano da una tassazione con deferral del reddito mondiale maturato dai gruppi multinazionali, al principio di territorialità: gli utili delle società partecipate da una casa madre statunitense erano fino al 2017 tassabili negli Usa in caso di distribuzione, mentre dopo la riforma i dividendi saranno – a certe condizioni – esentati al 100 per cento.
Una riforma per riguadagnare competitività
Ma ciò non può essere visto come una politica fiscale ostile agli altri paesi: la participation exemption – cioè, per quanto qui interessa, l’esenzione dei dividendi – è un meccanismo per evitare la doppia imposizione, in questo caso transnazionale, degli utili societari, previsto dall’Unione Europea fin dalla direttiva “madre-figlia” del 1990 sui dividendi intracomunitari (esteso dall’Italia anche ai dividendi extraeuropei a partire dal 2004).
Veniamo infine alla riduzione dell’aliquota corporate deliberata dal Congresso Usa: è stata consistente (dal 35 al 21 per cento), ma si è contestualmente superata la bizzarra struttura progressiva delle aliquote (con un massimo del 35 per cento), allineando così il sistema americano allo standard internazionale che prevede di solito un’aliquota societaria flat.
Il livello di partenza, assai elevato, costituiva un’anomalia (lo riconoscono anche gli autori dell’articolo citato) e la nuova aliquota è di poco inferiore alla media Ocse, mentre quelle di molti paesi europei sono allineate o inferiori al 21 per cento, come la Svezia (22), il Regno Unito (19), la Polonia (19), l’Irlanda (12,5), l’Ungheria (9) e così via.
Non va poi trascurato che negli Usa anche i singoli stati applicano di solito un’imposta sul reddito societario, che secondo la media pesata dall’Ocse per i 50 stati americani è pari al 6 per cento. Per fare un raffronto col nostro paese, ciò rende il prelievo complessivo sulle società statunitensi (imposta federale e imposta statale) di entità simile a quello sulle società italiane (considerando l’Ires al 24 per cento e l’Irap al 3,9 per cento). Ma non basta: accanto alla riduzione dell’aliquota societaria, il Tax Cuts and Jobs Act ha ampliato la base imponibile, ad esempio restringendo la deducibilità delle perdite pregresse all’80 per cento del reddito tassabile, o limitando la deducibilità degli interessi passivi al 30 per cento del business’s adjusted taxable income (con norme che curiosamente riecheggiano quelle introdotte qualche anno fa dall’Italia).
Se ne possono certo discutere singole previsioni, ma più che una “dichiarazione di guerra” la riforma della fiscalità societaria Usa appare un ammodernamento dei meccanismi della tassazione e un legittimo tentativo di riguadagnare la competitività perduta.
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