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Giovani e giovanissimi disoccupati: la sterile “guerra” delle età

di Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo

Il confronto impossibile

Al Festival dell’economia di Trento abbiamo cercato di convincere Alessandro Rosina che condividevamo con tutto il cuore la sua preoccupazione per i disoccupati giovani e i Neet e che non sottovalutavamo minimamente l’inattività di nessuno. Come potrebbe essere altrimenti? Ci dispiace di non esserci riuscite.

Qui, come a Trento, concordiamo e ribadiamo che bisogna aiutare i giovani di 15-24 anni perché non siano poi disoccupati a 25-35, ma crediamo di doverli aiutare in maniera diversa dalla generazione dei 25-35. Chi ha mai pensato di mettere questi contro quelli? Che senso avrebbe?

Il conflitto esce dalla nostra logica, ma rileviamo che tutte le giuste osservazioni di Alessandro Rosina si allineano senza scalfire di un millimetro il nostro argomento. Rispondiamo alle sue domande con le sue stesse parole: il tasso di disoccupazione giovanile è imperfetto. Infatti, il gruppo dei giovanissimi si confronta male con tutte le altre classi di età a causa della forte presenza degli studenti, che nelle statistiche del lavoro sono classificati come “inattivi”.

Abbiamo ritenuto importante metterlo in evidenza: il 37,8 per cento, media del 2016, si ottiene dividendo i giovani disoccupati per una forza lavoro piccola, solo il 26,6 per cento della popolazione dei giovanissimi, perché di quei ragazzi circa il 57 per cento sono a scuola e all’università, dove è giusto che siano, non all’ufficio di collocamento. Nelle età successive quasi tutti, il 73-81 per cento, lavorano e la forza lavoro quasi coincide con la popolazione. Per questo, secondo Eurostat, i tassi di disoccupazione giovanile rappresentano il fenomeno in maniera imperfetta. Dire che la disoccupazione dei 15-24, è tre volte quella delle età centrali, non ha senso perché non è confrontabile.

Anche i valori assoluti dell’Istat ci dicono che nel mese di giugno 2017 tra i 15-24enni abbiamo 487mila disoccupati su una popolazione di riferimento di circa 5,9 milioni, sempre molti è vero, ma ce ne sono 819mila – quasi il doppio – tra i 24-34enni su una popolazione di 6,7 milioni: dovremo occuparci solo dei più giovani senza preoccuparci dei più adulti? In totale sono poco più di 1,3 milioni i ragazzi under 35 pronti a lavorare e non utilizzati: uno spreco enorme di produttività e di benessere. Come Istat ed Eurostat, abbiamo diviso per la popolazione invece che per le forze di lavoro, per rendere comparabili i termini del problema: l’incidenza della disoccupazione sulla popolazione dei 15-24enni nel 2016 dà un più sensato e corretto 10,1 per cento e 12,9 per cento per i 25-34enni. Anche queste sono cose che condividiamo. Ma noi, senza nemmeno sognarci di attribuire titoli di merito, sosteniamo che i due gruppi di giovani sono diversi e richiedono politiche specifiche.

Politiche specifiche per i due gruppi

I più giovani devono formarsi il più possibile per raggiungere la specializzazione richiesta dalle imprese; per loro bisogna incentivare la formazione sul lavoro, potenziare l’istruzione e l’orientamento e gli istituti professionali che li portino a poter coprire i centomila posti vacanti.

Per i più grandi bisogna incentivare ancora molto occupazione, nuova formazione e aggiornamento o formazione sul lavoro. E per entrambi i gruppi, più giovani e meno giovani, serve un collocamento degno di questo nome.

Chi ha 25-35 anni esce da un’istruzione di 10-15 anni fa, inadeguata alla rivoluzione che viviamo e, per colpa della crisi, non ha lavorato, né creato la sua professionalità. I più giovani invece possono ancora essere recuperati e orientati nella scuola per costruire un capitale umano idoneo e una loro professionalità sia nell’istruzione che sul lavoro.

Potrà il lettore stesso trarre le sue conclusioni dai dati Istat per l’anno 2016 e il primo semestre 2017 e dal grafico che confronta gli indicatori. Tra i 25 e i 49 anni l’incidenza delle forze lavoro sulla popolazione è 73-81 per cento, mentre nell’età 15-24 è di circa il 25-26 per cento. Al tasso di disoccupazione giovanile del 37,8 per cento tra i 15-24 anni corrisponde un’incidenza della disoccupazione sulla popolazione del 10 per cento: nella UE l’incidenza è del 7,8 per cento. Tra i giovani di 25-34 anni il tasso disoccupazione è del 17,7 per cento e l’incidenza sulla popolazione della disoccupazione è del 12,9 per cento.

Tabella 1

Figura 1

Dalla tabella 1 si vede che la popolazione tende a diminuire col passare del tempo: l’effetto dei passaggi di età, di non poco conto, è visibile tra il 2016 e il primo semestre 2017. L’Istat evidenzia giustamente che confronti corretti tra indicatori della disoccupazione, occupazione e inattività tra classi di età in serie storiche, non possono trascurare la componente demografica che con le sue variazioni interagisce con quella occupazionale. Con il passare degli anni le generazioni italiane dei giovani si assottigliano, mentre le più anziane e affollate dei baby boomer invecchiano e passano da una fascia di età a quella successiva, alterando i confronti tendenziali.

Per depurare i dati da queste due interazioni e rilevare l’effettiva intensità delle variazioni occupazionali e dei relativi indicatori al netto della componente demografica, Istat utilizza metodi di standardizzazione: una prima volta ipotizza costanti per ciascuna classe di età i passaggi di stato professionale (disoccupato, occupato e inattivo) e valuta l’effetto dei movimenti della sola popolazione, una seconda volta ipotizza costante la popolazione nel tempo e utilizza l’effetto “atteso” della condizione professionale.

La replica di Alessandro Rosina

Ringrazio Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo per la loro gentile e argomentata replica. I punti toccati sono due. Il primo è l’imperfezione del tasso di disoccupazione giovanile, mentre il secondo riguarda il gruppo di età di cui occuparsi nelle politiche di contrasto alla disoccupazione.

Sul primo punto le due autrici ribadiscono la loro critica all’indicatore che mette in rapporto chi cerca lavoro tra i 15 e i 24 anni e la corrispondente forza lavoro (composta da chi lavora e chi cerca attivamente lavoro). Il motivo principale della loro argomentazione è il fatto che la maggioranza studia a tale età. Ma non si può accusare il tasso di disoccupazione (unemployment rate) per quello che non è. Il suo compito è prendere quelli che vorrebbero lavorare e dirci quanti di essi ci riescono (consentendo confronti nel tempo e con gli altri Paesi). Se ci interessa invece capire quanti sono i disoccupati su tutti i giovani allora si può prendere il rapporto  di “incidenza” (unemployment ratio), che però ha il problema opposto (mette al denominatore anche persone non interessate a lavorare).

È allora il caso di tornare sull’esempio numerico per articolare meglio la differenza e la diversa interpretazione. Primo caso, consideriamo i seguenti dati: su 10 giovani 1 cerca lavoro e non lo trova, 2 lavorano, 7 studiano. Ne consegue che su 3 che vorrebbero lavorare 1 non riesce a collocarsi (tasso di disoccupazione pari a 33 per cento). Secondo caso: sempre su 10 giovani ora siano 2 quelli che cercano lavoro e non lo trovano, mentre 6 lavorano e 2 studiano. La difficoltà a collocarsi è di 2 su 6 e quindi ancora pari al 33 per cento.

Se come indicatore prendiamo invece l’”incidenza” sul totale dei giovani (ratio) nel primo esempio numerico il dato è 1 su 10 e nel secondo 2 su 10. Quindi il rischio di disoccupazione (rate) è lo stesso (33 per cento) ma nel secondo caso abbiamo più disoccupati sul totale dei giovani, questo però solo perché è aumentata la partecipazione al mercato del lavoro.

Terzo caso: supponiamo che su 10 giovani 8 studino e 2 vogliano lavorare ma nessuno dei due ci riesca. In tal caso avremmo 100 per cento come tasso di disoccupazione e invece sempre 2 su 10 (come nel secondo caso) come “incidenza”. Quel 2 su 10 potrebbe sembrare non troppo alto ma nasconde il fatto che tra chi decide di lavorare nessuno riesce a farlo in tale categoria di età. Quindi non concordo sull’idea di bocciare il tasso di disoccupazione e proporre un più rassicurante tasso di “incidenza”, ma penso sia giusto affiancarli nelle statistiche Istat e Eurostat.

Riguardo al secondo punto non posso che ribadire l’importanza di passare dalla logica delle classi di età a quella delle politiche che favoriscono, a qualsiasi età, le transizioni: dalla scuola al lavoro e verso una piena e solida vita adulta. Ricordo in ogni caso che l’età media al primo lavoro in Europa è inferiore ai 25 anni e noi siamo uno dei paesi con più alta disoccupazione di lunga durata tra i giovani. Dobbiamo aspettare che un disoccupato di lunga durata superi i 25 anni per occuparcene? Penso che concordiamo che un disoccupato è un disoccupato, che abbia 23 o 27 anni.

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  1. QualeWelfare

    ohh…interessante…ma il libro non è un testo accademico di disquisizione su concetti e indicatori, ha fin dalla sua descizione una vena polemica e accusatoria che, ahimè, i dati riportati non consentono di sostenere… ecco la descrizione del libro
    “Disoccupazione giovanile in aumento: siamo proprio sicuri che i numeri sbandierati dai media restituiscano un’immagine oggettiva della realtà? Esodati, uscite anticipate, APE: è davvero questa la strada per creare lavoro per i giovani?
 Con il supporto di analisi di dati, una lettura che smonta i luoghi comuni su un tema cruciale e che dimostra la sostanziale insussistenza di un conflitto generazionale in ambito lavorativo. Preoccuparsi del futuro dei giovani e della sicurezza degli anziani è normale in tempi di crisi e doveroso per una società che tiene alla giustizia distributiva e alla solidarietà verso i più deboli. Nel nostro paese però le preoccupazioni sono alimentate da un dibattito carico di polemica e vuoto di analisi, interessato più a suscitare indignate lamentazioni – spesso esagerate, quasi sempre infondate – che a cercare soluzioni. […] Questo libro smonta i luoghi comuni che imperversano e dimostra come i dati rivelino invece realtà più sfumate, inattese, talora rassicuranti. La disoccupazione giovanile è un problema serio, ma riguarda davvero il 40% dei soggetti o un inganno statistico amplifica il fenomeno?” chiamare inganno statistico quel che è la definizione del tasso di disoccupazione è ridicolo…

  2. Savino

    Non ci sono problemi tra giovani e giovanissimi.
    Ci sono solo anziani iperprotetti, che abbondano di privilegi, sia quando lavorano, che quando sono in pensione.
    La questione generazionale c’è tutta ed è causa delle nostre difficoltà economico-sociali, nonchè della cattiva convivenza civile in società.
    E’ assurdo che il mondo del lavoro continui solo a fidarsi degli over 55 e all’esperienza del “saper vivere”, spesso coincidente col “saper rubare il prossimo”.
    La realtà è che giovani e giovanissimi vogliono, in tanti ambiti, vedere le cose andare più dritte.
    Ci vuole un mercato del lavoro per una domanda fatta da studiosi e non da fannulloni, non soltanto in materia informatica e tecnologica. Invece, il mercato del lavoro italiano favorisce chi non sa fare la “o” col bicchiere e, poi, tutto ciò lo si vede nei risultati di lavori svolti senza professionalità, serietà ed onestà.

  3. Savino

    Non commenta nessuno. Vedete quanto interesse suscitano in Italia i giovani e i giovanissimi.
    Tornando al fatto che assumono solo ignoranti, c’è un video sul Corriere dove nella segnaletica orizzontale è scritto “Bolognia” ; come non dimenticare, poi, chi, sul sito del MIUR, ha scritto “traccie”.

  4. Savino

    “Solo il 20% degli italiani tra i 25 e
    i 34 anni è laureato rispetto alla me-
    dia Ocse del 30%”.Così il rapporto Ocse
    sulla “Strategia per le competenze”.
    Inoltre, “gli italiani laureati hanno,
    in media, un più basso tasso di compe-
    tenze”in lettura e matematica.Non solo,
    da noi i laureati non vengono utilizza-
    ti al meglio e sono un po’ bistrattati.

    Infine,le regioni del Sud”restano molto
    indietro rispetto alle altre”,tanto che
    il divario fra studenti della provincia
    “di Bolzano e quelli della Campania
    equivale a un anno scolastico.
    Fonte: Televideo Rai

    Non c’è bisogno di aggiungere altro.

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