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Alle radici della crescita che non c’è

Una nuova metodologia permette di misurare quale fattore abbia inciso di più sulla lunga crisi che ha caratterizzato l’Italia degli ultimi anni. La causa principale della mancata crescita è la produttività. E il 2007 è stato un vero e proprio spartiacque.

L’economia italiana dal 1981 al 2015

La crisi che ha caratterizzato l’economia italiana dopo il 2007 ha avuto varie componenti: la perdita di Pil, il crollo degli investimenti, il raddoppio del tasso di disoccupazione e la perdita di dinamismo della produttività. Un calcolo preciso delle conseguenze economiche deve poi aggiungere alla diminuzione in termini assoluti delle variabili indicate anche la mancata crescita relativamente al trend precedente. Seguendo la metodologia sviluppata dall’economista Robert Hall in un articolo di recente pubblicazione (“Understanding the Stagnation of Modern Economies”) si possono quantificare i vari elementi e misurare quale di essi sia stato il più rilevante. È anche possibile calcolare di quanti punti percentuali il prodotto sarebbe stato più alto se un particolare componente del Pil avesse seguito il suo trend da un certo anno in poi.

Concentrandosi su una finestra temporale che va dal 1981 al 2015 e che permette di utilizzare i dati più attendibili, il tasso di crescita del Pil è dell’1,1 per cento. Sebbene vi siano stati periodi in cui la produzione è aumentata a un ritmo ben più alto, il risultato può considerarsi legittimo in quanto dopo il boom della ricostruzione postbellica la crescita è progressivamente rallentata, per poi crollare a seguito della crisi. All’interno di questo orizzonte temporale, è interessante confrontare il 2015 con il 2007 (ultimo anno di crescita prima della crisi finanziaria) e con il 1993: quest’ultimo è l’anno che più si avvicina al livello medio del Pil “detrendizzato”, cioè privato della componente di crescita all’1,1 per cento.

Date queste premesse, è interessante quantificare la produzione che è stata persa a causa della scarsa crescita di popolazione in età lavorativa, stock di capitale, tasso di partecipazione, tasso di disoccupazione e produttività totale dei fattori. Per la precisione, è stato calcolato di quanti punti percentuali il Pil sarebbe stato più alto se il singolo componente fosse cresciuto al suo tasso di crescita di lungo periodo a partire dall’anno di riferimento.

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Figura 1

 

 

 

 

 

 

I risultati

Il primo evidente risultato è che la causa principale della mancata crescita è la produttività, indipendentemente dall’anno preso in considerazione. Il crollo nella capacità di impiegare efficientemente i propri output sperimentato dall’economia italiana a seguito della crisi finanziaria ha portato a una perdita di Pil del 6,9 per cento, ma anche rispetto al 1993 vi è stato un forte rallentamento, con una produzione che sarebbe potuta essere più alta del 5,5 per cento.

Se si guarda all’effetto della popolazione in età lavorativa, cambia molto a seconda dell’anno di riferimento. Se dal 1993 fosse stato seguito il trend, il Pil sarebbe stato più alto quasi del 2 per cento, ma dal 2007 l’effetto è quasi nullo, a indicare che da quell’anno la crescita è stata quella media del periodo. La spiegazione è facilmente individuabile nel rallentamento delle nascite iniziato negli anni Novanta e nell’aumento del numero di immigrati arrivati in Italia a partire dagli anni Duemila.

Per lo stock di capitale vale invece la considerazione opposta, in quanto vi è una differenza di solamente lo 0,2 per cento (il prodotto del 2015 sarebbe stato più alto del 3,8 per cento se il capitale fosse cresciuto costantemente dal 1993, del 4 per cento dal 2007). Ciò significa che dal 1993 al 2007 il capitale è pressappoco rimasto sul trend, ma è crollato a seguito della crisi.

C’è un’unica nota inequivocabilmente lieta nell’andamento dell’economia ed è il tasso di partecipazione al mercato del lavoro: la partecipazione nel 2015 è stata particolarmente alta, è ciò ha mitigato una recessione che sarebbe potuta essere peggiore dello 0,5 o 0,7 per cento. In particolare, è nel 2012 (subito dopo la riforma Fornero) che si è verificato un improvviso aumento in questa componente.

Spostando infine l’attenzione al tasso di disoccupazione, raggiungiamo il fattore il cui effetto varia maggiormente a seconda dell’anno che prendiamo in considerazione. Se guardiamo al 2007, la disoccupazione è la seconda componente per importanza (circa il 60 per cento della produttività), ma se ci focalizziamo sul confronto con il 1993, l’impatto crolla al 30 per cento della produttività, diventando la componente meno importante.

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Dai numeri emerge come l’effetto di capitale, disoccupazione e produttività sia maggiore se guardiamo al 2007 invece che al 1993, cosa che può apparire quasi scontata se pensiamo a quello come a un anno di crescita straordinaria, in cui l’economia accelerava prima di fermarsi rovinosamente. Sottraendo i risultati per il 1993 a quelli per il 2007, è possibile quindi individuare la porzione di crescita che è mancata a partire dal 2007 semplicemente perché in quell’anno ci si trovava in un momento particolarmente favorevole del ciclo economico (A decomposition of stagnation in Italy).

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  1. Paolo Gelain

    Articolo molto interessante. Sarebbe anche interessante valutare l’impatto delle produttivitá dei singoli fattori. Mi sembra che sia quella del lavoro la produttivitá che maggiormente ha impattato sul PIL (Daveri ha scritto su tale argomento). Mi sembra poi che ci sia un typo nella frase “Il crollo nella capacità di impiegare efficientemente i propri output sperimentato dall’economia…”. Intendeva INPUT?

    • Aldo Mariconda

      Condivido e mi domando: cosa sarebbe l’economia italiana se avessimo un governo possibilmente di legislatura, un parlamento più agile e una selezione della classe politica almeno come in Francia, poche leggi ma chiare (ora 10 volte la Germania e 5 gli UK), burocrazia snella e manageriale più che giuridico/formale, meno tasse e vincoli all’impresa, Mercato, Concorrenza e Merito a 360°, Ricerca maggiore. Wishful thinkong?

      • bob

        …quello che lei sostiene forse, con tutte le storture che ci sono state, lo abbiamo avuto nel dopo guerra fino agli anni ’60. Comprendo che i periodi storici sono diversi. Ma oggi parlare di “economia italiana” in un sistema-Paese che non esiste più credo sia inutile. La memoria italica si sa quanto è labile, non ci ricordiamo neanche di quello che abbiamo cenato ieri sera. Dimentichiamo 30 anni di favole dove i”miseri bidelli” hanno preso il posto di discreti professori, curando e facendo crescere “l’ orticello locale” unico spazio nel quale si sanno muovere . Adesso con la bacchetta magica si vuole pensare a progetti, politiche di lungo termine. Un patetico Paese chiuso su se stesso, ridicolo e quindi inutile pensare ” cosa saremmo se avessimo”

  2. Michele

    Interessante articolo che conferma diagnosi note e prognosi che stentano ad affermarsi. I driver a lungo termine della TFP sono noti: scelte strategiche delle imprese, capacità imprenditoriale e organizzativa, capitali ed effetto sistema. Tutte risorse che scarseggiano nelle imprese italiane che ben più volentieri si dirigono verso settori protetti dove quello che conta è il rapporto con il regolatore.

  3. Savino

    Per poter tornare ad assumere in modo stabile bisogna poter cominciare a licenziare chi non è produttivo e chi non ci tiene al proprio posto di lavoro, sia nel pubblico che nel privato. Inaccettabile, di fronte a tanta disoccupazione continuare ad assistere a furbetti del cartellino, maestre che maltrattano bambini, infermieri che maltrattano anziani e malati, medici che fanno il doppio lavoro o che fanno quello che gli pare, furti nelle aziende da parte di dipendenti, sindacalismo spregiudato. Chi non si comporta bene va via e lascia il posto ad un disoccupato da tempo in attesa.

    • roberto

      dimentica che renzi ha cancellato l’art. 18 e lo statuto dei lavoratori.. ora le aziende possono licenziare ed assumono solo con contratti a termine….

    • Vittorio

      Sarebbe bello anche avere una strategia di lungo periodo, un piano industriale, ordini e commesse da clienti in Italia e nel mondo, questo spingerebbe un’azienda ad assumere, altrimenti se la produzione non aumenta cosa mi spinge ad assumere più gente?

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