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Economisti: scienziati o narratori?

di Davide Pinardi

Tante definizioni di scienza

Viviamo in tempi confusi e sarebbe bene non lasciare tematiche come etica ed epistemologia solo ai filosofi. Non sarebbe allora il caso di invitare gli economisti che ancora si ritengono scienziati a cambiare pelle e dichiararsi narratori? Narratori vincolati ai dati di fatto e a cui sono proibiti effetti speciali e invenzioni. Ma comunque narratori.

Alla lunga ne ricaverebbero una maggiore stima, sia generale sia personale. Scendere dal presunto altare della scienza li aiuterebbe a scrollarsi di dosso l’aura di “hybris” che ormai li avvolge e li soffoca. Sembra una questione marginale e invece è identitaria.

Per argomentare l’invito partiamo dalle definizioni di scienza. In verità sono così numerose che qui appare inevitabile ridurle a due, radicalmente opposte. La prima – minimalista – afferma che la scienza è soltanto una metodologia operativa atta a comprendere i codici regolatori di fenomeni e processi allo scopo di garantirne una predittiva riproducibilità. La seconda – massimalista – sostiene che la scienza è la sola pratica che permette agli esseri umani di avvicinarsi a una cognizione oggettiva (e dunque vera) della realtà. Tra le due definizioni estreme si ritrovano infinite sfumate varianti.

La prima di esse trova certo il favore anche di ristoratori e casalinghe: saper cucinare ogni giorno spaghetti al dente nonostante le potenziali variabili (come altimetria, sezione dello spaghetto, rapporto grano duro-grano tenero) è splendido frutto di una metodologia che permette riproducibilità predittiva (i bravi cuochi sono dunque scienziati?).

Con la seconda si schierano, non sempre con pudore, soprattutto i cultori di scienze dure (tipo fisica o chimica). Eppure il pudore sarebbe doveroso visti i tanti potenziali conflitti di interesse. Ergersi a chierici unici custodi di una pretesa gnosi, e distribuire a piacere scomuniche e assoluzioni, porta grandi vantaggi, anche se a volte con qualche rischio.

Ma in questa sede limitiamo l’analisi ai cultori delle cosiddette soft science (per esempio, sociologia, psicologia o economia): costoro possono riconoscersi seriamente in una delle due definizioni? No. E neppure nelle molte intermedie. Ovviamente, da una parte sanno di non poter garantire predittive riproducibilità: negli ultimi anni hanno ricevuto tante di quelle smentite alle loro profezie che non possono più autoingannarsi. E dall’altra non possono fingere di tendere alla verità assoluta, ovvero a una conoscenza oggettiva delle realtà umane che sono troppo sfuggenti e che, come sappiamo, dipendono da chi le guarda e cambiano con il cambiare dell’osservatore.

Ma insomma, perché tanti sociologi, psicologi o economisti continuano a definirsi scienziati? Non sarebbe il caso di ammettere finalmente che sono narratori? Non perderebbero di status, anzi. La parola narratore non è affatto sminuente, se ben intesa.

Le qualità del buon narratore

Narrare non significa solo raccontare storielle (o favole, balle, bubbole) ma anche, su un piano qualitativo, saper descrivere scenari, identificare conflitti, mostrare contesti. Il buon narratore costruisce “strutture di senso” che come bussole possono aiutare gli altri a orientarsi nella realtà (rendendola viabile) senza l’illusione di spiegarla, possederla, asservirla, esaurirla, conoscerla oggettivamente grazie al possesso della verità. Una buona narrazione di un viaggio nella foresta tropicale risulta molto più utile per attraversarla di un esaustivo catalogo di botanica.

Per quale motivo sarebbe importante definirsi narratori e non scienziati?

Perché nessun narratore pretenderà mai che le proprie narrazioni siano oggettive o che garantiscano la riproducibilità predittiva: chi si sente scienziato cade spesso in questa tentazione – e si arruola, senza ammetterlo, tra le vestali del sacro tempio. Un narratore invece è già contento che qualcuno lo stia ad ascoltare e che trovi interessante il suo racconto.

Economisti travestiti da scienziati hanno spacciato bubbole utili alla loro carriera imbellettandole con grafici e formule e presentandole appunto come “scientificamente provate”. Qualcuno di loro ora passa il tempo a rimuoverne la memoria; altri sono infuriati con la realtà perché non si è adattata alle loro previsioni. Fossero stati economisti serenamente narratori avrebbero mostrato meno sicumere allora e ora potrebbero riderci sopra e costruirebbero narrazioni finalmente utili.

Uno dei timori che frena nel dichiararsi narratori è quello di non essere presi più sul serio nelle accademie o altrove perché il narrare sconfina spesso nel mito, nel mistero, nell’irrazionale, nel mistico, nel “populistico”. Non a caso da noi la parola narrazione a volte viene utilizzata in certi seriosi dibattiti come un sinonimo di fake story (mentre gode ancora di favore se citata come storytelling o narrative: al solito, siamo provinciali). A parte il fatto che anche la storia della “scienza” è strapiena di paradigmi esoterici di cui oggi si può soltanto ridere (ma che, quando erano in voga, risultavano molto utili alla politica e alle lobby), è comunque bene ricordare che il narrare ha statuti deontologici disciplinari spesso molto più severi di quelli di certa scienza magari servile nei confronti di sponsor pubblici e privati. Il bravo storico è un narratore, non uno scienziato, ma sa che rischia grosso se, nelle sue ricostruzioni, vengono scoperte falsificazioni documentarie o errori di luoghi o date. Il buon medico (quello che non si finge scienziato) sa che le sue ipotesi narrative (diagnosi e prognosi) hanno il vincolo assoluto di basarsi sull’anamnesi del paziente e devono tendere alla soluzione della sua patologia.

Il bravo narratore mette la faccia su quello che dice e non può tirare il sasso e poi nascondere la mano affermando che lui non ha fatto altro che rappresentare oggettività. Il buon narratore sa che le analogie sono analogie e non identità e che il contesto modifica il significato del particolare (per questo non propone ricette Usa in Congo). Sa tacere o chiedere supporto a chi ne sa più di lui in quasi tutti gli ambiti (cosa pensare di certi scienziati che spiegano come insegnare ai bambini delle elementari “perché loro sono razionali e la sanno lunga” mentre le maestrine, poverette…)

Il buon narratore è un suggeritore. Pone molte domande e dà poche risposte. E in un momento tanto complesso le collettività hanno bisogno di suggerimenti, non di ricette scritte senza sentire il parere degli interessati. Insomma, in questi tempi confusi abbiamo necessità degli interrogativi aperti di veri narratori, non delle risposte semplicistiche di pretesi scienziati.

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  1. Chiara Fabbri

    un raro esempio di onesta’intellettuale da parte di un economista, complimenti per il coraggio

    • Tomaso Pompili

      purtroppo l’autore (o laVoce) ha dimenticato di inserire la sua bio. altrimenti sarebbe noto che si tratta di un laureato in filosofia, abilitato all’insegnamento di italiano e storia alle scuole superiori, di professione scrittore e sceneggiatore. tutte degnissime attività, ma non un economista, e neppure uno scienziato, qualunque significato si voglia dare a questo termine

      • Interessante questo modo di dibattere. Non si discute la tesi avanzata (che ovviamente può essere messa in discussione in modo radicale) ma si cerca di delegittimarla a priori. Si raccolgono così in rete sparse notizie biografiche dell’Autore il cui insieme dovrebbe dimostrare una sua non qualificazione a dibattere argomenti alti e nobili; al contempo si dissimulano quei dati che potrebbero invece dimostrarla (pur facilmente reperibili nel Web). Si insinua anche che forse l’autore vuole nascondere questo suo peccato originale. Si sostiene infine implicitamente che soltanto economisti e scienziati (senza dare una definizione della loro identità) hanno il diritto di discutere di scienza ed economia. Evidentemente i filosofi, i professori delle superiori, gli scrittori e la gente di cinema non ha diritto di occuparsi di materie tanto superiori. Roberto Bellarmino era un dilettante, a confronto…

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