L’aumento dei bitcoin in circolazione è disciplinato da una regola matematicamente precisa e vigilato in modo decentralizzato. Le sue quotazioni, invece, sono estremamente volatili. Il picco del 2017 potrebbe indicare una prossima situazione di monopolio.
Cos’è una criptomoneta
In un pezzo del 2014, scritto in occasione del fallimento di Mt. Gox, uno dei suoi principali gestori, raccontavo che i bitcoin erano – e restano – la più importante “criptomoneta”.
Per criptomoneta (o moneta virtuale) si intende una moneta la cui emissione non è gestita in maniera sostanzialmente centralizzata da un unico istituto di emissione (per l’appunto una “banca centrale”), ma è invece supervisionata in maniera decentralizzata da un insieme di soggetti riuniti in un network. I vigilanti locali – detti miner – devono verificare che le unità di bitcoin registrate presso il singolo utente non vengano “contate due volte”, ovvero restino invariate sul conto del compratore e nel contempo accrescano il conto del venditore nel momento in cui il compratore acquisti un oggetto o un servizio – oppure saldi un debito – pagando per l’appunto in bitcoin.
Una moneta virtuale come i bitcoin, a parte prestarsi a fenomeni di speculazione basati sul fatto stesso che vi sia un mercato di cambio contro le valute tradizionali, ha una sua utilità come mezzo di scambio e riserva di valore nella misura in cui il suo valore, similmente a quanto accade con le monete tradizionali, non venga annacquato da un eccesso di offerta. Ed è questa la ragione principale per la presenza dei miner, i quali presidiano un meccanismo deterministico di aumento dell’offerta dei bitcoin, che crescono a un tasso decrescente nel tempo, secondo una regola fissata prima della loro introduzione effettiva.
L’importanza della concorrenza
Il dato interessante è che chi avesse investito un gruzzolo nei bitcoin all’inizio del 2017 a una quotazione vicina ai 750 dollari si troverebbe oggi (22 giugno) a detenere un’attività che vale 2.716 dollari, dopo aver toccato un picco vicino ai 3mila dollari l’11 giugno. Di fatto, la quotazione attorno ai 750 dollari dell’inizio del 2017 rappresenta un “ritorno di fiamma” rispetto a un periodo precedente di lunga flessione delle quotazioni rispetto al massimo precedente raggiunto nel 2014: nel 2015, ad esempio, le quotazioni dei bitcoin hanno gravitato attorno ai 250 dollari.
È dunque pressoché automatico contrapporre la regola matematicamente precisa sull’aumento dei bitcoin in circolazione all’andamento estremamente volatile delle quotazioni: nell’interpretazione più ottimistica, gli investitori stanno cercando di capire il valore di una moneta virtuale quando non esistono precedenti comparabili per farsi un’idea e potrebbero avere puntato decisamente e in maniera finalmente stabile sui bitcoin apprezzandone le virtù (future) di stabilità nell’emissione. D’altro canto, c’è anche una visione pessimistica che guarda all’escalation nei prezzi di bitcoin con il timore che si tratti di una bolla speculativa destinata a sgonfiarsi rapidamente, proprio per l’eccesso di velocità che ha caratterizzato la fase di crescita.
Nel 2014 citavo il ragionamento di Tyler Cowen sull’ipotesi di un calo dei prezzi di equilibrio dei bitcoin a motivo della possibilità intrinseca di concorrenza da parte di altre monete virtuali basate su meccanismi simili di vigilanza decentralizzata. Ebbene, è facile – e non particolarmente elegante – ragionare dopo che gli eventi sono accaduti, ma un’ipotesi coerente con un prezzo elevato dei bitcoin è che il valore di una moneta, virtuale o meno, dipende dall’ampiezza del gruppo di persone che la utilizza e che il network di utenti dei bitcoin è talmente più ampio rispetto ai concorrenti da creare una situazione di monopolio difficilmente scalfibile. Il fatto che gli economisti amino generalmente la concorrenza perfetta – anche in campo monetario – non implica certamente l’impossibilità di un monopolio.
E dato che i monopoli vengono spesso regolamentati se non nazionalizzati, i fautori dei bitcoin potrebbero a un certo momento sinceramente sperare nel successo di altre monete virtuali, per evitare di diventare una moneta tradizionale (leggi: un monopolio regolamentato, anzi nazionalizzato).
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