Le famiglie tengono i risparmi nei depositi e le banche, prese tra stringenti requisiti patrimoniali e rischi di liquidità, investono in titoli di stato invece di erogare nuovo credito. Una combinazione che non aiuta la ripartenza dell’economia.
Effetto dei costi di transazione sul risparmio familiare
Ottant’anni fa, il premio Nobel Ronald Coase pubblicava i suoi primi lavori sui costi di transazione, che hanno poi rivoluzionato la teoria dell’impresa e della regolamentazione.
I costi di transazione hanno un ruolo centrale anche nei mercati finanziari e nelle le scelte di destinazione del risparmio. Ad esempio, per acquistare un titolo obbligazionario si deve pagare una commissione di negoziazione pari in media allo 0,2 per cento del valore dell’operazione. Poi è necessario aprire un conto titoli, sul quale si paga ogni anno un’imposta di bollo pari allo 0,2 per cento. Quando si rivende il titolo bisogna pagare un’ulteriore commissione di negoziazione e, a parità di altre condizioni, si ottiene un prezzo inferiore a quello di acquisto per un differenziale (cosiddetto bid/ask spread) pari allo 0,1/0,2 per cento (per i titoli più liquidi).
Sommando tutti gli oneri, un investimento annuale comporta costi di transazione fino allo 0,8 per cento; su due anni il costo medio annuo scende allo 0,5 per cento e su tre allo 0,4 per cento. Se ci si rivolge a un gestore professionale del risparmio, acquistando ad esempio un fondo obbligazionario, il costo medio annuo sale all’1 per cento (in base alle rilevazioni più recenti di Mediobanca).
Poi ci sono le tasse. I rendimenti di obbligazioni e fondi comuni sono tassati con una aliquota del 26 per cento (quelli dei titoli di stato del 12,5 per cento).
Ma con una politica monetaria che ha portato i tassi d’interesse sotto zero, quale obbligazione offre rendimenti, al netto delle tasse, superiori ai costi di transazione? Nessuna, se non ad alto rischio (cioè con rating inferiore a BBB-, che individua la “soglia di sicurezza” dell’investment grade) o con una scadenza molto lunga. Oggi i titoli investment grade con scadenze fino a cinque anni hanno rendimenti netti negativi o prossimi allo zero. Solo quelli con scadenze superiori (o rating inferiori a BBB-) hanno rendimenti netti positivi, ma, dedotti i costi di transazione, alla fine si rimane con un pungo di mosche. In più vi è il rischio di forti perdite se i tassi dovessero salire. Renato Carosone direbbe: “chi t’o fa fa”.
Per rimanere in tema musicale, la strofa di una famosa canzone di Cole Porter suona oggi come un monito ai risparmiatori: “don’t you know little fool, you never can win”. Tradotto: i tuoi risparmi non renderanno neanche un euro, se non assumendo rischi molto elevati. Ormai anche i più sprovveduti l’hanno capito.
Perché le banche acquistano titoli
E allora, parafrasando Lenin, che fare? Semplice: tenere i risparmi sul conto corrente o sui conti di deposito (danno rendimenti appena superiori all’imposta di bollo dello 0,2 per cento, ma è sempre meglio di niente) e aspettare che i tassi risalgano.
È proprio quello che stanno facendo le famiglie italiane. In base ai conti finanziari pubblicati dalla Banca d’Italia, si può calcolare che la ricchezza finanziaria delle famiglie investita in depositi (bancari e postali) è pari al 32 per cento, in crescita di oltre 300 miliardi di euro rispetto a fine 2007, quando era il 27 per cento. Il peso di titoli (escluse le partecipazioni in società non quotate) e risparmio gestito è invece sceso dal 52 al 47 per cento. Gli investitori esteri hanno fatto lo stesso, aumentando il peso dei depositi (dal 17 al 24 per cento delle attività sull’Italia) e riducendo quello dei titoli (dal 62 al 57 per cento).
Risultato? In dieci anni il peso dei depositi sul passivo delle banche italiane è salito dal 60 al 66 per cento.
Se le famiglie hanno venduto titoli (per circa 520 miliardi di euro), le banche italiane li hanno invece acquistati a man bassa. Il loro peso sull’attivo delle banche è passato dal 15 al 25 per cento (con un picco del 28 per cento nel 2013), crescendo di oltre 450 miliardi di euro.
Perché l’hanno fatto? Per diversi motivi. Alcuni ben noti: la cronica carenza patrimoniale (per le elevate sofferenze, l’inasprimento delle regole e della vigilanza e la difficoltà di fare aumenti di capitale) le ha portate a prediligere investimenti in titoli di stato che non assorbono capitale. Ma non è solo questo. Per quanto risicati, i rendimenti dei titoli possono essere attraenti per le banche, perché, a differenza dei comuni risparmiatori, non sopportano costi di transazione. Vi sono poi altri possibili motivi: i titoli, a differenza dei prestiti, sono asset liquidi che consentono di mitigare i rischi di trasformazione delle scadenze dovuti all’aumento del peso dei depositi.
Ma questa combinazione di fattori non aiuta a far ripartire l’economia. Le famiglie preferiscono i depositi e le banche, stritolate tra fabbisogni patrimoniali sempre più pressanti e rischi di liquidità, preferiscono investire in titoli (di stato) invece di erogare nuovo credito. Gli ultimi dati mostrano infatti che i prestiti alle imprese non decollano, nonostante la politica monetaria super-espansiva e i timidi segnali di ripresa.
Costi di transazione e tasse sui mercati finanziari contribuiscono a spiegare perché il Quantitative easing fatica ad avere gli effetti desiderati.
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