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Senza le riforme non si esce dalla crisi

“I sette luoghi comuni sull’economia” esaminati nel libro di Andrea Boitani (Editori Laterza) sono presentati come assiomi e ripetuti come mantra. Sono nelle parole dei politici, dei giornalisti, degli economisti. Ma sono (spesso) sbagliati o (in parte) fuorvianti. Un estratto dal sesto capitolo.

Dottor Dulcamara d’Europa

b

O voi matrone rigide,
ringiovanir bramate?
Le vostre rughe incomode
con esso cancellate.
Volete voi donzelle
ben liscia aver la pelle?
Voi giovani galanti
per sempre avere amanti?
Comprate il mio specifico,
per poco io ve lo do.

Dottor Dulcamara

 

 

 

 

 

Dal settembre del 2008 il numero di “dottor Dulcamara” sul palcoscenico della politica economica europea si è moltiplicato. Da Berlino, Bruxelles e Francoforte, lo specifico della tentata (e in alcuni casi riuscita) vendita è stato sempre lo stesso: “riforme strutturali” da mandar giù, in varie combinazioni, assieme all’austerità. Qualche “dottore” più baldanzoso è anche arrivato a offrire quelle riforme a costo zero, come fossero i frutti degli alberi nel giardino di Eden. Altri, compreso in anticipo l’effetto dolorifico dell’austerità, hanno proclamato la magica virtù delle riforme strutturali di lenire i dolori, manco fossero morfina. Altri ancora hanno creduto di spiegare l’insuccesso dell’austerità – soprattutto nei paesi del Sud Europa – col fatto che i governi di questi ultimi non hanno fatto i loro “compiti a casa”, consistenti naturalmente nel far prendere alle riottose popolazioni mediterranee adeguate dosi di magico liquore. Cioè, non hanno realizzato o hanno realizzato solo parzialmente le riforme strutturali raccomandate dall’asse Berlino-Bruxelles-Francoforte.
Ci tengo a chiarire che non sono un vero eretico e quindi non sono un nemico delle riforme, specie di quelle ben concepite e meglio realizzate. Come il lettore avrà ormai capito, però, i luoghi comuni suscitano in me il desiderio di andare a “vedere il gioco”. E quello delle riforme è diventato un luogo comune ripetuto con martellante frequenza.

 Fu vera gloria? L’Irlanda, la Grecia e le riforme

L’impegno a fare le riforme strutturali è stato posto da Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Commissione europea come condizione per concedere ai governi di Irlanda, Portogallo e Grecia aiuti finanziari necessari a superare la crisi dei debiti sovrani. Secondo la Commissione europea, l’Irlanda è il vero campione delle riforme: ha realizzato al 100 per cento quanto le veniva chiesto nei vari memorandum di intesa che hanno accompagnato (tra 2010 e 2013) la concessione di finanziamenti. Bevendo a gran sorsate il magico liquore delle riforme, l’Irlanda ha ripreso a crescere e non ha conosciuto la seconda recessione che ha caratterizzato gli altri paesi “periferici” dell’Eurozona. L’Irlanda avrebbe insomma applicato con gran successo il modello tedesco di una ripresa guidata dalle esportazioni, a loro volta favorite da miglioramenti di competitività, ottenuti comprimendo la dinamica delle retribuzioni e, quindi, la domanda interna.
Mentre è certamente vero che l’Irlanda ha vissuto una ripresa trainata dalle esportazioni, è molto discutibile che queste siano cresciute grazie ai più bassi salari e alla flessibilità del lavoro. Le imprese che hanno guidato le esportazioni irlandesi appartengono a settori – come la farmaceutica, le biotecnologie e i servizi basati sulla Ict (information, communication technology) – dove i salari sono elevati e la domanda è abbastanza insensibile ai prezzi relativi internazionali. Cioè settori per i quali la competitività misurata dal costo del lavoro unitario conta molto poco. In effetti, in questi settori – dominati da multinazionali americane con sede in Irlanda – le retribuzioni sono aumentate prima, durante e dopo la crisi. E l’occupazione è aumentata insieme alle retribuzioni. Soprattutto nei servizi legati all’Ict, che oggi rappresenta il 50 per cento delle esportazioni irlandesi di servizi. In fin dei conti, tutto ciò è il frutto degli ingenti investimenti diretti dagli Usa di società come Google, Facebook, Oracle, Microsoft, Amazon e Adobe. Ad attrarre questi giganti dell’economia mondiale in Irlanda non sono state le riforme pro-mercato imposte dalla Commissione europea, ma l’efficacia e l’efficienza dell’Industrial Development Agency irlandese, una agenzia pubblica (ma indipendente dalla politica) molto brava ad attrarre in Irlanda parti pregiate e specializzate dell’attività produttiva di importanti imprese americane dell’high tech.
Sia chiaro: non c’è alcuna garanzia che una strategia simile abbia lo stesso successo se attuata in Grecia, Portogallo o Italia. Non si può esagerare abbastanza l’importanza del mondo e, soprattutto, delle sue differenze. Ma il caso irlandese mostra a sufficienza che non esiste una sola taglia che va bene per tutti, un solo magico liquore che, preso con regolarità, guarisca i mali di tutti con la stessa prontezza ed efficacia. In Grecia, per esempio, circa l’80 per cento delle riforme comprese nel primo programma di aiuti (2010) e il 75 per cento di quelle comprese nel secondo (2012) sono state effettivamente attuate nei tempi previsti. Come è stato notato dal think tank di Bruxelles “Bruegel” (certo non nemico delle riforme strutturali), né l’ordine temporale né la composizione delle riforme imposte e in gran parte attuate in Grecia erano stati scelti in modo da facilitare una rapida accelerazione della crescita. Le misure previste nel primo programma erano certamente utili a migliorare la qualità e l’efficacia dei processi decisionali, ma molto difficili da attuare nell’orizzonte temporale relativamente breve di un programma di aiuti. E soprattutto non si era tenuto conto che erano misure capaci di dare benefici solo nel lungo periodo. Che l’amministrazione pubblica greca producesse (e in buona misura ancora produca) servizi di livello scadente è cosa risaputa; ma il settore pubblico greco non era più ampio che nella media dell’Eurozona nel 2007, con una spesa pubblica pari al 47,5 per cento del Pil (era il 46,1 nella media dell’Eurozona). Certo, nel 2012 il valore per la Grecia era salito al 53,7 per cento mentre per l’area euro al 49,9. Si sa l’effetto che fa il crollo del denominatore (cioè il Pil) su certi rapporti. Prima del 2000 l’impiego pubblico era in Grecia molto al di sotto della media Ocse. Tra 2000 e 2008 c’era stato un aumento di trecentomila unità, ma con l’attuazione dei due programmi di aiuti altrettanti occupati pubblici sono andati a casa. Quello greco, dunque rimane uno Stato inadeguato, non troppo grosso, che mantiene con pensioni basse un esercito di giovani pensionati (i cancelli sono stati chiusi quando una buona parte dei buoi erano già scappati), impiegati nei mille rivoli dell’economia nera o nei minuscoli negozi di famiglia, ai margini dell’economia grigia a bassissima produttività. Uno Stato afflitto dalla permeabilità agli interessi costituiti e aggravato dal continuo cambio di direzione politica.
Molti ritengono che le cose in Grecia siano andate male perché le riforme strutturali non sono state neanche avviate o si è fatto un passo avanti e due indietro. Ma questo è un luogo comune all’interno del grande luogo comune che occupa le pagine di questo capitolo. Le riforme richieste in Grecia sono state in buona parte compiute o avviate, solo che spesso sono state distorte dalla contemporanea imposizione di una stringente austerità per ripagare un debito estero comunque insostenibile (come ha ammonito più volte il Fondo monetario internazionale). E si trattava di riforme capaci di ottenere risultati solo in un periodo di tempo lungo, quando tutti i greci saranno morti.

Leggi anche:  Nuove regole fiscali europee: è pur sempre una riforma*

 

Andrea Boitani, I sette luoghi comuni sull’economia, 2017, Editori Laterza, 206 pagine, 16 euro.

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  1. vittorio

    Il libro è di grande interesse. Come nel caso delle riforme strutturali, luoghi comuni e semplificazioni producono conseguenze sulla vita delle persone; è, perciò, meritoria l’analisi critica del prof. Boitani. Si parla dell’Irlanda come un caso di successo. Vorrei evidenziare come l’Irlanda applichi una tassazione sui redditi d’impresa del 12,5%, cioè nettamente inferiore a quella della maggior parte dei paesi europei. L’aliquota del 12,5% sulle attività produttive, industriali e commerciali, è stata mantenuta anche durante il programma di salvataggio di Ue e Fmi dal 2010 al 2013. Nel paese si applica anche un’aliquota del 25%, per le attività di investimento e di partecipazioni, ma la stessa è ridotta per la contemporanea esenzione dei dividendi e delle plusvalenze e per un’imposta del 6,25% per l’utilizzo dei brevetti. Le differenze fiscali sono un aspetto che andrebbe certamente tenuto in considerazione quando si parla di competitività nel contesto europeo.

    • Attilio

      Salve, sono d’accordo con Vittorio riguardo al fatto che l’Irlanda non vada presa a modello della ripresa, essendo un competitor “sleale” in ambito fiscale rispetto ai paesi europei, credo che tuttavia si debba iniziare a ragionare sul fatto che sempre più alla base della capacità di un sistema paese di ripresa post crisi la struttura socio-demografica ed ancor di più fattori culturali. In merito ai due elementi da ultimo, ci sono elevate somiglianze tra Grecia ed Italia (in particolare del sud Italia), popolazione vecchia (più dell’estonia e dell’irlanda) e livelli di corruzione nel pubblico e privato ed evasione da primato, pertanto in un sistema del genere, Grecia o Italia sono equivalenti per me, senza riforme strutturali serie (vedi liberalizzazioni, semplificazioni burocratiche, giustizia etc.), politiche di incentivo alle famiglie e stimoli fiscali agli investimenti (vedi industria 4.0 et similia) non riusciremo ad uscire da un pantano che è si strutturale oggi. Basta questo piagnucolare tipico italiano di dire no ai sacrifici, si alla morfina etc. La forza dell’Italia del dopoguerra era gente che senza niente a supporto ha creato quella base industriale (oggi 2° in europa) che è un vanto, del tipo “il medico pietoso fa la piaga purulenta”.

  2. Piero Fornoni

    La mia opinione e’ che per vedere se le riforme strutturali portano ad uscire dalla crisi bisognerebbe guardare all’Estonia non all’Irlanda che e’ partita da una buona posizione.
    L’ Estonia dalla caduta del muro di Berlino in poi ha continuato ad attuare riforme strutturali anche piu’ avanzate di quelle dei paesi piu’ moderni, nonostante le varie crisi, ultima della quale e’ dovuta alle sanzioni alla Russia.
    Oggi l’Estonia ha un GDP per capita PPP di 26743 USD, superiore a quello della Grecia 24535 USD e simile a quello del Portogallo 26689 USD.
    Sto seguendo le vicende della Grecia, leggendo la stampa greca pubblicata in inglese e mi sembra di capire che 80% delle riforme richieste e’ stato approvato sulla carta, ma solo circa il 30% e’ pienamente operativo.

  3. Ottima analisi. IRL e GR sono 2 casi esemplari perché opposti. La conclusione ineccepibile dell’autore è che non tutte le riforme, condizioni o cause con effetti macroeconomici similari sono equivalenti, come appunto i 2 paesi menzionati illustrano. Forse servirebbe un passo in più, una proposta per l’Italia. Conviene insistere sulla diversità delle condizioni esistenti per rivendicare una ridefinizione dei parametri fiscali convenuti in precedenza? Forse. Ma non è una soluzione. Bisogna definire il modello di economia che si intende sviluppare e darsi i mezzi regolamentari per implementarlo. Il potenziale d’investimento e di sviluppo dell’Italia sarebbe immenso in diversi settori; basta pensare ai 4f, food, fashion, furniture, fun; nel fun sono comprese le attività turistiche, culturali etc. L’industria 4.0 vale trasversalmente, pure la protezione dell’ambiente e il risparmio energetico. Comunque sia, oltre un piano condiviso e la definizione di regole strumentali serve la coerenza del progetto nel tempo. Spesso si chiama superficialmente stabilità di governo, in realtà è consapevolezza e condivisione degli obiettivi più importanti. Il successo di paesi come IRL o Lussemburgo è costruito più su questo, un modello, delle priorità, degli strumenti continuamente aggiornati e la coerenza del progetto nel tempo; l’equivalente dell’Industrial Development Authority esiste in Francia; domani l’UK sarà IL grande concorrente e l’argomento della concorrenza sleale varrà sempre meno.

  4. Alessandro Sebastiani

    Chi non vorrebbe riforme che creino un “paese più efficiente”, con meno corruzione, una giustizia funzionante, meno criminalità, tecnologia più diffusa, meno tasse, meno burocrazia, assunzioni (e licenziamenti) più semplici, un governo più stabile, aziende pubbliche meno sprecone, appalti pubblici più trasparenti, ecc.,ecc.). Queste sono alcune delle tante riforme strutturali di cui l’Italia ha bisogno per riprendere il cammino dello sviluppo. Riguardo al fatto che il costo del lavoro non sia sceso nelle aziende irlandesi che hanno ridato slancio all’economia dell’isola, è noto come il prezzo dei salari è solo una delle componenti della competitività di un paese, peraltro è normale che si abbassi durante una recessione, non c’è bisogno che sia imposto ad un paese in crisi dalle istituzioni europee. Del resto se lo si tenesse artificialmente alto “per decreto” le aziende fallirebbero.

  5. Mauro

    Ho sempre avuto l’impressione che molte ricette economiche che rimbalzano nell’opinione pubblica, e spesso diventano parte dell’armamentario di chi governa, abbiano un fondamento molto fragile. Talvolta, cioè che viene venduto come (superficialmente) ragionevole si dimostra poi clamorosamente sbagliato.
    Se questo è comprensibile che avvenga a livello politico, dove le scelte sono dettate da vari interessi che a volte, anche consapevolmente, sono ben diversi da quelli propagandati come gli obiettivi degli interventi, stupisce però che non vi sia, nella comunità di chi fa ricerca nel campo economico la capacità di prevedere, anche solo in prima approssimazione, gli effetti macroscopici dei provvedimenti prima che vengano adottati. In molti campi oggi si sanno fare simulazioni estremamente sofisticate e complesse, anche per la disponibilità di mezzi di calcolo sempre più potenti. Perché questo approccio non funziona in economia? Per quanto ancora gli economisti ci spiegheranno che le cose non hanno funzionato sempre un po’ dopo che sono successe?

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