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Anche se vince il “no”

Gli scenari apocalittici descritti anche dalla stampa internazionale in caso di vittoria del “no” sono realistici? Eventuali oscillazioni dei mercati finanziari non possono cancellare il fatto che negli ultimi anni le condizioni di sostenibilità del debito pubblico italiano sono finora migliorate.

Scenari bui

Nelle settimane precedenti il referendum The Economist, il Financial Times in due occasioni (Wolfgang Munchau e Rachel Sanderson) e una famosa economista come Carmen Reinhart su Project Syndicate hanno descritto scenari apocalittici per l’Italia in caso di vittoria del No al referendum costituzionale. Nel frattempo lo spread tra il costo del debito italiano e quello tedesco è tornato a salire, da 125 punti base registrati dalla prima metà del 2016 fino all’inizio di ottobre ai 190 punti toccati nella mattina del 28 novembre. A questo concorre la mancata soluzione dei problemi di bilancio di alcune banche italiane (prima fra tutte Mps). Sarà però bene ricordare che, anche se un’eventuale vittoria del “no” provocasse instabilità sui mercati, la sostenibilità del debito pubblico dell’Italia non è più nelle condizioni del 2014 e tanto meno in quelle del 2012.
Certo, se la riduzione del carico fiscale ottenuta con il bonus 80 euro e la cancellazione della tassa sulla prima casa fosse stata accompagnata da una revisione della spesa meno timida di quella attuata dal governo, l’aumento del debito pubblico ne sarebbe stato frenato. Ma forse (forse) lo sarebbe stata anche la sia pur timida ripresa dell’economia del biennio che non è certo dovuta alle riforme a metà attuate in questo periodo di tempo. In ogni caso, il debito pubblico italiano ha continuato ad aumentare in valore assoluto: dai 2mila miliardi di euro del 2012 agli attuali 2200 miliardi. E in rapporto al Pil, il debito è salito dal 116 per cento del 2011 al 132,8 con cui, secondo il Ddl di bilancio 2017, si chiuderà il 2016.

Ma non è il 2012

Rimane che non esiste un valore massimo del rapporto debito pubblico-Pil oltre il quale si manifesti ineluttabilmente una sua insostenibilità. Ciò che conta è infatti la differenza tra il costo del debito e la crescita del Pil a prezzi correnti. Bisogna cioè confrontare il tasso di interesse medio (il costo dell’indebitamento) che misura l’onerosità di un euro di indebitamento aggiuntivo con la crescita dei redditi, la più ovvia misura della capacità di rimborsare l’indebitamento aggiuntivo. C’è insomma da confrontare il tasso di interesse sul debito e la somma della crescita del Pil in termini reali e del “prezzo del Pil”, il prezzo medio dei beni e servizi prodotti in Italia. Da questo punto di vista, in base ai dati oggi disponibili, le cose dovrebbero essere molto migliori nel 2017 di quanto fossero nel 2012 e anche nel 2014.
Nel 2012 il costo medio del debito era del 4,3 per cento, mentre il Pil scendeva di 2,9 punti percentuali e i prezzi salivano dell’1,4 per cento. La differenza tra costo del debito e crescita del Pil nominale era dunque di 5,8 punti percentuali. Nel 2014, le cose andavano già meglio. Il costo del debito era sceso al 3,7 per cento. Sul fronte del Pil calma piatta (nessuna variazione) e l’inflazione arrivava allo 0,8 per cento. Il divario 2014 tra interessi e crescita dei redditi era dunque di 2,9 punti percentuali, un valore dimezzato rispetto ai valori 2012. Nel 2017 le cose dovrebbero andare decisamente meglio. Il costo medio di interessi sul debito dovrebbe scendere al 3,2 per cento (soprattutto grazie agli interventi della Bce), mentre la crescita del Pil dovrebbe avvicinarsi all’1 per cento (+0,9, secondo le stime del Fondo monetario) così come l’inflazione (se il prezzo del petrolio risale dai 46 dollari al barile del 2016 ai 53 dollari previsti dal governo per il 2017). Nel complesso, il divario tra interessi e Pil scenderebbe dunque all’1,3 per cento, un valore nettamente più basso che nel passato recente e meno recente.
Che cosa sarebbe della sostenibilità del debito pubblico italiano se l’aumento dello spread di questi febbrili giorni pre-elettorali persistesse nel tempo? Cosa sarebbe se lo spread, oggi vicino ai 200 punti, salisse a 300 o anche più su? Al netto di eventuali paracadute e cinture di salvataggio che la politica italiana ed europea sta predisponendo, c’è da tenere conto del fatto che la vita media del debito italiano è costante al valore di sei anni e mezzo da molto tempo e che circa il 70 per cento di questo è a tasso fisso. Implicazione: le variazioni nelle condizioni di finanziamento prevalenti sul mercato non si tradurrebbero subito in un grande aggravio del costo del debito. A titolo esemplificativo si può calcolare che, se i 320 miliardi di titoli in scadenza tra ottobre 2016 e ottobre 2017 fossero rinnovati a tassi superiori per 100 punti base, l’onere aggiuntivo che ne deriverebbe per le casse dello Stato sarebbe di circa 3,2 miliardi di euro, meno dello 0,2 del Pil sul primo anno, per poi arrivare a 21,2 miliardi di euro una volta che tutto il debito fosse riemesso con il nuovo costo del debito maggiorato. Un effetto certo non marginale, ma non una disastrosa valanga.
In conclusione, le eventuali oscillazioni dei mercati finanziari nei prossimi giorni non possono cancellare il fatto che negli ultimi anni le condizioni di sostenibilità del debito pubblico italiano sono migliorate. Il che dovrebbe portare gli italiani a votare razionalmente sulle riforme costituzionali che li riguardano, senza sentirsi una pistola puntata alla tempia.

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I risparmi dal referendum: chiarimenti e confronti

  1. Maurizio Sbrana

    Daveri ovviamente ha ragione. Ha dalla sua parte i numeri…
    MA sono numeri anche questi altri: 1) il livello del nostro Debito è praticamente la somma degli interessi pagati negli ultimi 30 anni… E 2) quando si potrà finalmente capire che il nostro Debito ha anche a che fare con evasione fiscale e corruzione del nostro amato Paese? (diciamo, per stare bassi, circa 150 miliardi di euro annui…).
    Le risorse nel Paese ci sono. Ma non si vogliono ‘sfruttare’ seriamente!

  2. Paolo Mariti

    La sostenibilità del debito è migliorata malgrado certe disinvolte politiche del presente governo (bonus , detrazioni, colpi d’accetta).Potrebbe anche sembrare tutto bene. Il vero e grossissimo dubbio è quanto sia sostenibile questa linea tutta protesa, abbastanza platealmente, ad acquisire consensi anziché prendere di petto l’iceberg del debito. Servirebbe una spending review inquadrata in una più ampia e, soprattutto, selettiva politica di riduzione della spesa pubblica eccessiva CUM tassazione inefficiente che includa anche un contrasto inflessibile alla corruzione, alla evasione, al crimine. Ciò tra l’altro garantirebbe risorse utilizzabili. Di tutto questo si vedono solo barlumi e nemmeno se ne parla ultimamente se non rimandando a supposte innovazioni istituzionali che dovrebbero far saltare un vecchio ordine garantendo anche governabilità e stabilità. Talora viene il sospetto che la drammatizzazione del referendum e degli eventuali risultati negativi in effetti sia stata voluta per evitare la riflessione e le proposte in argomento. Per “legittimare” in futuro, a seconda dei casi, il protrarsi di quelle politiche che segnalano il e portano al “fallimento dello Stato”.

  3. EzioP1

    Non penso si possa sostenere che con il “no” non ci sarebbero significative ripercussioni sul nostro sistema economico, primo perchè gli effetti economici di una qualsiasi azione iniziano a manifestarsi dopo un po’ di tempo, non subito, secondo perchè le informazioni della settimana da diverse fonti sono per gli UK: sterlina svalutata del 13%; PIL 2017 rivisto da + 2,2% a + 1,4%; Debito salito di € 69 miliardi; £122,000,000,000 — that’s the Brexit price tag for the U.K. in the form of extra government borrowing that Chancellor of the Exchequer Philip Hammond (also known as “Spreadsheet Phil”) announced in his budget forecast Wednesday (sett. scorsa); British workers are facing the most prolonged squeeze on their earnings since World War II, the Institute for Fiscal Studies said Thursday (sett.scorsa). A ciò si aggiungano le preoccupazioni espresse questa settimana dalla May e dal governatore della BoE.

  4. EzioP1

    Aggiungo al commento precedente che la sterlina fa parte del gruppo di monete del FMI (sterlina Yen, Yuan, Dollaro, Euro) quindi moneta ben sostenuta

  5. Federico

    Nell’esaminare gli effetti del voto del 4 Dicembre non bisognerebbe prendere in considerazione anche le possibili ripercussioni sul PIL oltre che sul costo del debito? Non è infatti corretto ipotizzare un calo degli investimenti diretti esteri se dovesse vincere il no e dovesse di conseguenza aumentare l’instabilità politica del paese? e gli effetti sul sistema bancario? in particolare sulla questione MPS?

  6. Difendo l’Economist che (al netto di alcuni paragoni inutili) difende i veri interessi del paese: non descrive scenari apocalittici in caso di esito negativo del referendum, ma sostiene che, a prescindere dal referendum, lo scenario economico dell’Italia è (dopo quasi tre anni di governo Renzi) fra i peggiori e che la questione bancaria (non creata dal governo, ma tuttora irrisolta) rischia di aggravare la crisi del paese dopo il referendum, indipendentemente dal voto. In altre parole, il governo ha fatto delle riforme (auspicate e promesse), ma non abbastanza; ha preso alcune misure palesemente sbagliate (per mantenersi in sella); e la doppia riforma costituzionale ed elettorale, pur contenendo elementi positivi (titolo V e data fissa per proposte di legge del governo), è più dannosa che migliorativa, e viene utilizzata come diversivo rispetto al relativo fallimento della politica economica, alle mancate riforme, rinviate o abortite. Dopo il referendum il governo deve in ogni caso riprendere in mano le riforme economiche e il dossier delle banche, e il parlamento deve in ogni caso approvare una nuova legge elettorale, la quale, se vince il no, dovrebbe essere idonea ad eleggere un parlamento costituente. Queste purtroppo non sono novità, le esigenze erano le stesse nel 2013, solo che allora le banche sembravano ad alcuni le più solide del continente.

  7. Mario Rossi

    Infatti! il referendum non conta nulla non solo perchè non cambia quasi nulla se non assoggettare il parlamento italiano alla commissione europea! finche la BCE continuerà a comprare titoli pubblici italiani i problemi non ci sono. Il fatto è che se gli italiani decideranno di non farsi governare dalla commissione europea, automaticamente verrà imposto alla BCE di fermare il QE. A quel punto con una spesa pubblica fuori controllo e una economia debolissima già fiaccata da una tassazione indecente gli interessi sul debito esploderanno. E non sarà una passeggiata come dice il buon Daveri perchè gli ricordo che tutto il sistema di potere si finanzia a debito allora : le tasse non possono crescere perchè le imprese che sono per il 90% piccole molleranno quasi subito; o si cancellano gli imbucati e le clientele oppure si eliminano del tutto i meccanismi di walfare. Si può fare un pò e un pò ma questo non cambierà le cose.
    un bel cerino da tenere in mano. attenzione se vince il si non è che rimane tutto così le lacrime e il sangue ce li fanno cacciare a poco a poco come in grecia e non so se è meglio. comunque un consiglio: se avete soldi prelevate tutto e metteteveli in casa ….. vi serviranno. se avete figli mandate li all’estero.

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