Vari studi dimostrano che esecutivi più stabili e longevi favoriscono politiche meno miopi. Perché non hanno bisogno del consenso immediato degli elettori e possono concentrarsi su interventi che danno risultati nel medio periodo. Come investimenti in istruzione e riduzione del debito pubblico.
Governi europei a confronto
Un tema ricorrente anche nel dibattito sul referendum costituzionale è la necessità, o meno, che i governi del nostro paese siano più stabili e longevi. C’è una connessione fra la stabilità e il tipo di politiche che vengono attuate?
Grafico 1
Se si confronta il numero di governi che si sono succeduti in Italia con quelli in altri paesi europei a sistema parlamentare, dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra, emerge come la durata media dei nostri governi (1,2 anni) sia tra le più basse. Al contempo, non abbiamo certo una storia politica d’eccellenza rispetto a questi paesi: abbiamo per esempio un debito pubblico tra i più alti in Europa e un livello di spesa in istruzione e ricerca tra i più bassi.
Viene allora spontaneo chiedersi: c’entra o non c’entra questa mancanza di buona politica con la nostra peculiare instabilità? C’è un nesso causale tra la frequenza con cui cambiano i governi e il tipo di decisioni che questi prendono? La letteratura economica prova da tempo a rispondere alla domanda (ad esempio Vittorio Grilli, Donato Masciandaro e Guido Tabellini, 1991).
Riforme strutturali o bonus?
Immaginiamo che un governo possa scegliere se spendere soldi pubblici in ricerca, istruzione, innovazione o infrastrutture – investimenti i cui risultati maggiori si vedono dopo vari anni – oppure utilizzare gli stessi fondi per bonus immediati a categorie specifiche. Con il rischio continuo di elezioni anticipate, l’esecutivo preferirà investire nel futuro di tutti o cercare il pronto consenso di coloro che ricevono il bonus? Studi come quello di Anthony Annett (2000) notano come se c’è instabilità politica la spesa dei governi si concentri su consumi e trasferimenti fiscali invece che sugli investimenti.
Molte riforme strutturali condividono la caratteristica di avere costi concentrati e immediatamente tangibili, mentre i benefici sono diffusi e percepibili solo nel lungo termine. Ipotizziamo di voler introdurre un pacchetto di liberalizzazioni, che danneggerebbe immediatamente alcune piccole categorie di monopolisti e favorirebbe invece nel corso del tempo la maggior parte dei consumatori. I pochi che perdono un privilegio potrebbero diventare subito una solida fetta di consenso in meno per il governo, mentre l’eventuale beneficio sarebbe percepito dagli elettori-consumatori solo nel medio termine. Sarà più o meno probabile che il pacchetto venga sostenuto da politici che temono elezioni di lì a pochi mesi?
Risulta inoltre poco realistico immaginare che un governo che si aspetta di durare un paio di anni al massimo dia la giusta importanza a lasciare i conti in ordine o addirittura provi a ridurre il debito per pagare meno interessi in futuro. È invece più plausibile che cerchi di scaricare il peso di riforme con costi immediati e benefici di lungo periodo sul prossimo esecutivo e così via, di generazione in generazione. Studi come quelli di Torsten Persson e Guido Tabellini dimostrano come, soprattutto nelle repubbliche parlamentari, è più probabile che un governo aumenti in maniera sproporzionata la spesa pubblica all’avvicinarsi delle elezioni, rimandando le riforme strutturali e la riduzione del debito a dopo il voto.
Un’obiezione comune è che in una repubblica parlamentare debba essere il parlamento e non il governo a garantire continuità. Purtroppo, nei fatti ciò non accade da molti decenni in Italia.
Una causa potrebbe essere il declino dei partiti, storicamente considerati veicolo di disciplina e formazione della classe politica; o la scarsa responsabilità dei singoli parlamentari verso i propri elettori, oggi pressoché nulla: chi di noi sa chi siano i parlamentari eletti nel proprio collegio, in che commissione siano e come votino? Anche in questo caso, un parlamentare che raramente è chiamato a render conto della sua attività, che teme continuamente possibili elezioni anticipate, cercherà di salire sul carro che ha più probabilità di fargli vincere “le prossime elezioni”, e potrebbe essere più propenso a togliere la fiducia al governo non appena si rivelerà in difficoltà nei sondaggi. Anche in altre democrazie parlamentari, il parlamento e i partiti hanno il potere di sostituire il primo ministro o l’intero governo (Gran Bretagna ad esempio), ma è un’evenienza che si verifica con frequenza molto minore.
In conclusione, vi sono vari studi che cercano di dimostrare come esecutivi più stabili e longevi favoriscano politiche meno miopi. Ma come si può raggiungere l’obiettivo? Quanto conta da questo punto di vista il ruolo dei partiti, la legge elettorale e quanto invece l’assetto delle istituzioni? È fondamentale chiedersi se, per esempio, consentendo alla sola Camera dei deputati di votare la fiducia faremmo o meno un passo verso governi con maggiore longevità. Infatti, fare sì che chi vince le elezioni “governi per i successivi cinque anni” non è necessariamente un capriccio velleitario di qualcuno, né un modo per rafforzare un’oligarchia o escludere le minoranze. Potrebbe invece essere un modo per far sì che chi governa si preoccupi del nostro futuro e per far sì che i cittadini possano serenamente valutarne l’operato nel medio termine.
Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.
8 Commenti