Nella legge di bilancio 2017 il governo manterrà l’impegno a non far scattare l’aumento dell’Iva. È una scelta che risponde a una ricerca di consenso politico immediato. Perché se si facessero i conti su un orizzonte più ampio, la manovra darebbe vari vantaggi. Agire solo sull’aliquota più alta.
2017: non scatta la clausola di salvaguardia
Sembra che il governo abbia deciso di non applicare nella legge di bilancio per il 2017 la clausola di salvaguardia a suo tempo concordata con la Commissione europea in caso di deficit eccessivo rispetto a quello consentito dall’Europa: dunque niente aumento dell’Iva dal 10 al 13 per cento e dal 22 al 24 per cento.
Nel 2017, si rinuncerà così a un introito di circa 15,1 miliardi di euro, con conseguente compressione dei margini di allentamento della pressione fiscale su Irpef e Ires o di aumento della spesa pubblica.
Una decisione inevitabile, si dirà, vista la rissosità messa in campo dalla politica e i conseguenti reiterati impegni del governo a non far ricorso all’aumento. Una scelta diversa verrebbe dai più considerata come presa d’atto che il governo ha fallito negli obiettivi che si è dato. Inoltre 2-3 punti di Iva in più graverebbero sulle già magre tasche dei consumatori.
Saggia decisione, dunque, sotto il profilo del consenso. Ma è saggia anche sotto quello degli effetti sull’economia e quindi del consenso in un periodo di tempo più lungo?
Nelle condizioni attuali della nostra economia, un aumento dell’Iva produrrebbe alcuni effetti positivi che non andrebbero trascurati prima di prendere una decisione.
L’incremento dell’imposta sul valore aggiunto in qualche misura (perché non è detto che venga interamente traslato sui prezzi) farebbe aumentare il livello dei prezzi, alleviando lo stato di inflazione zero o negativa che certo non fa bene alla finanza pubblica né all’incentivo a indebitarsi per investire o consumare. Non avrebbe impatto negativo sulla nostra competitività verso il resto del mondo. Soprattutto, libererebbe almeno altrettante risorse per rilanciare l’economia e la crescita dei prezzi potrebbe alleggerire (magari anche in parte modesta) il servizio del debito in termini reali.
È vero che la pressione fiscale resta da noi elevatissima, ma forse non guasterebbe avere un po’ più “tassa da inflazione” (non se ne vede da tempo) in cambio di un po’ meno imposizione palese, se il ricavato dell’Iva fosse utilizzato per ridurla.
Effetti nel tempo
Certo, un aumento indifferenziato dell’Iva avrebbe nell’immediato effetti regressivi, che potrebbero però essere in parte temperati dalla destinazione di una quota delle risorse così ottenute a maggiore spesa sociale. L’altra quota dovrebbe andare a sostenere la spesa per investimenti, con conseguente effetto moltiplicatore sui redditi più avanti nel tempo. Che una manovra di questo tipo sia destinata dunque a essere nel tempo effettivamente regressiva è da vedere; anzi è un aspetto che andrebbe studiato prima di prendere una decisione in merito.
D’altra parte, non penso che la scelta del governo debba essere necessariamente così secca: o tutto o niente. Dei 15,1 miliardi di maggiori introiti stimati, quasi 7 deriverebbero dal passaggio dell’aliquota dal 10 al 13 per cento e quasi 8,2 miliardi da quello dell’aliquota dal 22 al 24 per cento.
L’aumento dell’Iva sulla sola aliquota più elevata libererebbe quindi oltre 8 miliardi, non poco in una manovra che si annuncia di 27. Ciò avrebbe peraltro un più limitato impatto regressivo, posto che la concentrazione della spesa delle categorie meno abbienti su consumi ad aliquote “sociali” è considerevolmente maggiore di quella delle categorie abbienti, cosicché un aumento dell’Iva sulle aliquote più elevate avrebbe effetti redistribuitivi “virtuosi”.
Dati Istat alla mano, Francesco Daveri, in un articolo su lavoce.info del 24 maggio 2013, ha stimato che con un aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento una famiglia che spende 20mila euro l’anno subirebbe un aggravio di tassazione di 52 euro, mentre per una famiglia con una spesa di 40mila euro l’anno l’aggravio sarebbe di 156 euro, dunque di tre volte maggiore rispetto a quello della famiglia meno abbiente.
Sono convinto che quattro conti il governo se li sia fatti e che “tecnicamente” sia arrivato a conclusioni non molto dissimili, salvo metterle da parte per ragioni politiche, per la tirannia del consenso immediato.
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