Si vocifera di una fusione tra le due principali banche tedesche, Deutsche Bank e Commerzbank. Tutti applaudono, mentre l’operazione dovrebbe suscitare solo scetticismo. A che serve unire due grandi istituti con molti problemi? I ritardi nella ristrutturazione del sistema bancario europeo.
Fusione alla tedesca
Il panorama depresso delle azioni bancarie europee ha avuto un sussulto quando si è diffusa la notizia che le due principali banche tedesche, Deutsche Bank e Commerzbank, avevano avviato contatti per valutare l’opportunità di una fusione. Come sempre accade quando si sente profumo di commissioni plurimilionarie, i giudizi positivi si sono sprecati e sono arrivati anche all’autorevole “Lex Column” del Financial Times che ha sottolineato la necessità di un consolidamento generale del settore e, nel caso specifico, i vantaggi che potrebbero derivare dalla fusione in termini di riduzione dei costi operativi, aumento del potere di mercato e nella presenza sui mercati globali.
Indipendentemente dal fatto che l’operazione vada o no in porto, i commenti (generalmente positivi) sono indicativi delle contraddizioni della politica europea in materia bancaria. In circostanze normali, ci si poteva attendere quanto meno qualche voce critica e che qualcuno, come dicevano i verdi tedeschi, urlasse “Nein danke!”
Una fusione di questo tipo dovrebbe suscitare infatti come prima reazione almeno lo scetticismo. Primo, perché si tratta di due fra le banche più deboli del panorama europeo e nessuna unione fra zoppi ha mai prodotto scattisti da Olimpiade. In secondo luogo perché l’Europa soffre già di gigantismo e di tutto ha bisogno tranne che di creare un colosso da 2,3 trilioni di euro di totale attivo. In ogni caso, è quanto meno singolare che nessuno abbia ricordato che forse bisognerebbe prima valutare i problemi antitrust e di rischio sistemico. Un recente rapporto del Fondo monetario quantifica le connessioni di Deutsche con il resto del sistema finanziario tedesco ed europeo con un grafico che fa sembrare Lehman un monaco del monte Athos.
Il sistema bancario europeo è ipertrofico, come documenta un’importante ricerca dello European Systemic Risk Board, e tutta la crescita degli ultimi venti anni è da attribuire alle maggiori banche. La ricerca a tutti i costi dei campioni nazionali, sotto lo sguardo benevolo dei politici e quello sonnacchioso delle autorità di vigilanza, è proprio la causa fondamentale delle debolezze attuali delle grandi banche europee dimostrata dalle analisi di Mediobanca e della Bri-Banca dei regolamenti internazionali.
Colossi dai piedi di argilla
Deutsche Bank è il vero “elefante nella stanza” nel mondo tormentato del sistema bancario europeo. Ha puntato da oltre vent’anni sul comparto dell’investment banking ed è divenuta un autentico colosso dai piedi di argilla: attività di bilancio per 1,6 trilioni di dollari, derivati per un valore nozionale di 42 trilioni di euro, ma risultati molto deludenti. L’ultimo esercizio chiude con una perdita di 6,8 miliardi su un patrimonio netto tangibile di 58 miliardi. In più, poiché la banca di Francoforte ha dimostrato una rara capacità di essere coinvolta in tutti, ma proprio tutti, gli scandali e gli illeciti finanziari degli ultimi anni, da qualche tempo è accolta nei principali mercati del mondo da un festoso tintinnio di manette. Le pesanti sanzioni pecuniarie (con relativi strascichi di azioni civili di risarcimento) sono divenute una delle voci che pesano di più sull’utile finale.
Peraltro, il problema di redditività è drammaticamente strutturale, perché il cost-income-ratio, cioè il tradizionale indicatore di efficienza economica, è del 119 per cento, il che vuol dire che gli utili correnti non sono sufficienti a fronteggiare le spese per il personale e i connessi costi generali. Per tutti questi motivi, l’Economist in un recente articolo la definiva nel titolo “un gigante che annaspa” e nel testo affermava che si tratta “più di uno zombie che di un campione” perché non ha né un vero modello di business né una missione strategica.
E dovrebbe essere questa la banca destinata a guidare una fusione con una sua consorella afflitta da problemi non meno gravi? Ma mi faccia il piacere, avrebbe detto Totò.
Il caso è purtroppo emblematico della difficoltà di trovare una soluzione ai molti problemi del sistema bancario europeo. Si spera dunque che processi di fusione – sempre basati su piani industriali ottimistici – possano essere una via “di mercato” che evita il disturbo di interventi più radicali e immediati. È l’equivalente sul piano bancario della strategia extend-and-pretend applicata ai paesi con debito pubblico insostenibile come la Grecia. Facciamo finta che la fusione abbia successo, così come facciamo finta che il debito potrà essere ripagato.
Se fusioni si hanno da fare, riguardano fasce dimensionali di molti ordini di grandezza inferiori a quelli di Deutsche. Il panorama bancario europeo è già afflitto da istituti ipertrofici che si stanno rivelando too big to manage (troppo grandi per essere gestiti) e che avrebbero bisogno di mettersi a dieta o di separazioni più nette fra l’attività di banca commerciale e quella di banca di investimento, ma tutte le proposte di riforme strutturali, a cominciare da quella del rapporto Liikanen, sono state chiuse in un cassetto di cui nessuno sembra avere la chiave. L’ultimo rapporto della Banca dei regolamenti internazionali denuncia il ritardo della ristrutturazione del sistema bancario europeo e titola il capitolo “Time to move on” che si può liberamente tradurre con: “datevi una mossa”. Ma non è la strada della fusione fra giganti quella da percorrere.
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