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Ma l’università non deve insegnare un lavoro

Sono in molti a chiedere a scuola e università percorsi di studio più professionalizzanti. Ma il progressivo accorciamento del ciclo di vita di tecnologie e conoscenza rende presto obsolete competenze così costruite. Gli interessi di aziende e lavoratori e la soluzione della formazione continua.

Formazione generale o professionalizzante?

Tra le cause presunte della discrepanza tra competenze possedute dai neolaureati o diplomati e richieste dalle imprese vi è un’inadeguata professionalizzazione dei percorsi formativi, soprattutto se di livello universitario. La richiesta – legittima – di migliorare e potenziare il contenuto professionalizzante dei percorsi formativi di secondo e terzo livello si è trasformata, da noi, in una vera e propria crociata a favore dell’idea che l’offerta formativa curriculare di terzo livello debba essere definita in funzione dei fabbisogni immediati del mercato del lavoro. Questa posizione ha limiti che vengono spesso sottovalutati.
La questione di fondo è che con il progressivo accorciamento del ciclo di vita delle tecnologie e della conoscenza, il tasso di obsolescenza delle competenze professionalizzanti è notevolmente aumentato e crescerà in futuro. Oggi non sappiamo di quali competenze avremo bisogno nel prossimo futuro. “La scuola di oggi deve preparare gli studenti per lavori che ancora non sono stati creati, tecnologie che ancora non sono state inventate e problemi ancora sconosciuti” (“Today[..]schools have to prepare students for jobs that have not yet been created, technologies that have not yet been invented and problems that we don’t yet know will arise”) sostiene Andreas Shleicher dell’Oecd Education Directorate. Tenuto conto dei tempi di progettazione e di entrata a regime dei percorsi, il rischio concreto che si corre disegnando oggi percorsi formativi fortemente professionalizzanti è di generare capitale umano che potrebbe risultare obsoleto già al momento in cui entra nel mercato del lavoro o solo pochi anni dopo.
I modelli formativi orientati alla professionalizzazione hanno un vantaggio rispetto ai modelli di tipo generalista nella fase di entrata nel mercato del lavoro, garantendo una maggiore capacità di trovarne uno, ma palesano uno svantaggio in termini di occupabilità nell’arco della vita lavorativa. Uno svantaggio che deriva da una minore adattabilità dei lavoratori al cambiamento e che sembra presentarsi anche nelle fasi congiunturali negative. Nei processi di distruzione creatrice più intensi, tutto ciò non potrà che accentuarsi a favore dei sistemi formativi di tipo generalisti.

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Interessi contrapposti tra aziende e lavoratori

La contrapposizione tra i due modelli segnala la presenza di un potenziale conflitto di interesse tra lavoratori da un lato e imprese dall’altro. Queste ultime vogliono poter contare su lavoratori con elevata professionalizzazione e dotati di competenze immediatamente utilizzabili senza dover sostenere costi aggiuntivi di formazione. In presenza di piena flessibilità in uscita, ciò consentirebbe di occupare in ogni istante le persone che posseggono le competenze del momento ed espellere gli altri lavoratori a costi contenuti.
L’interesse dei lavoratori è evidentemente opposto. Il lavoratore punta a competenze sufficientemente generali da consentirgli, attraverso la formazione continua, di adattarsi ai mutamenti del mercato. Un interesse che dovrebbe coincidere con l’interesse collettivo, tenuto conto degli elevati costi sociali della prima opzione. È evidente che, all’interno di questo conflitto, la questione centrale è chi debba sostenere i costi della professionalizzazione e della formazione continua.
Puntare a competenze adattabili nel tempo non significa rinunziare a potenziare quelle professionalizzanti. La soluzione, certo complessa da realizzare, è puntare a fornire, sia a livello secondario che terziario, un mix di competenze generali e specifiche in grado di garantire, attraverso la formazione continua, l’occupabilità delle persone in una prospettiva di ciclo di vita.
All’interno di questa soluzione, ognuno dovrebbe svolgere il proprio compito: la scuola e l’università dovrebbero orientare le scelte formative e fornire competenze generali e, solo parzialmente, professionalizzanti. Attraverso i tirocini e la formazione in entrata e continua, le imprese dovrebbero invece declinare le competenze generali in competenze utili alle loro esigenze. Eventualmente, grazie anche al sostegno finanziario della collettività, ove si dimostri che il rapporto tra benefici privati e sociali è a favore di questi ultimi. I datori di lavoro più lungimiranti sono pienamente coscienti che è anche nel loro interesse potere contare su un ridotto ricambio del personale, cosa realizzabile solo grazie a una forza lavoro in possesso di competenze adattabili nel tempo. Sfortunatamente, la loro sembra una voce minoritaria.

Figura 1 – Tipo di formazione e occupabilità nell’arco della vita lavorativa.

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Fonte: E.A. Hanushek, G. Schwerdt, L. Woessmann and L. Zhang, (2015),  General education vocational education and labour market outcomes over the life-cycle, in corso di pubblicazione, Journal of Human Resources

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16 commenti

  1. marcello

    Contenuti professionalizzanti nell’università? Scusate ma non è già così? Uno specializzato in medicina non può fare il medico? Un ingegnere informatico o delle tlc non può lavorare in una società che si occupa di tlc o software? Non hanno le competenze adeguate, non sono in grado di apprendere in poco tempo ciò di cui l’azienda in cui lavorano detiene il know-how, magari in forma esclusiva? Forse bisognerebbe specificare di cosa si sta parlando. La triennalizzazione doveva servire a questa presunta necessità di professionalizzazione per i bisogni delle imprese. I risultati sono sotto gli ochhi di tutti: un fallimento. Qualcuno ricorda che la percentuale di manager italiani con la terza media è superiore a quella dei laureati? Oppure che il 20% delle imprese produce l’80% del fatturato, o meglio che lo 0,3% delle imprese quasi il 30%? Forse le nano imprese di questo paese hanno deciso di competere sui prodotti a basso VA, quindi con lavoro unskilled, e dei laureati non hanno bisogno. Che sia una scelta suicida e senza futuro è chiaro, meno chairo è a cosa dovrebbe adeguarsi l’università.

    • Felipe

      Ottimo commento Marcello! Io da un po` che osservo le “nano imprese italiane produtrici di prodotti a basso VA” e non riesco a trovare un senso alla loro esistenza nel presente, e un futuro per una nazione fondata su di esse.

  2. Nicolò

    Mi sembrano due argomenti molto teorici, ma poco pratici. Tolte le facoltà come
    Medicina ( o Ingegneria) che hanno un percorso molto differente, mi sembra che gli Atenei, sopratutto quelli Pubblici, non stanno provando seriamente a cambiare la loro
    Didattica e ad attivare servizi corposi di Orientamento e Placement per aiutare i laureandi nella transizione scuola lavoro. Al momento l’offerta è’ ancora molto centrata sulla teoria e spesso su discipline che non garantiscono Occupabilità ne sul breve ne sul medio termine. Un offerta adeguata dovrebbe orientarsi su 1) soft skills, 2) internazionalizzazione , 3) contatti con le aziende , 4) imprenditorialità. Timidi tentativi vanno in questa direzione ostacolati dell’interesse di molti attori che rendono più a tutelare se stessi e ad assorbire risorse che non a pensare a come essere utili. Personalmente credo che se ne esca cambiando il finanziamento dando una quota pubblica per il diritto allo studio e lasciando che il resto venga pagato dalle tasse universitarie di chi si iscrive

    • marcello

      Allora parliamo di chimica, oppure di biologia, oppure di matematica (per inciso qualche mese fa ero visiting una Università europea di eccellenza e constatavo che i dottorandi pù brillanti erano italiani!) o forse si riferisce a economia e giurisprudenza. Nel primo caso molti corsi di laurea magistrale italiana non hanno nulla da invidiare alla Business school anche di top university d’oltre oceano, a meno che non ritenga che studiare sul Pindyck sia meglio del Varian. A questo proposito vorrei raccontarle un episodio accaduto qualche anno fa sul litorale di una spiaggia italiana. Li ho incontrato un CEO di un’azienda web con fatturati da capogiro che mi diceva che l’unico libro che aveva conservato era Hal Varian di microeconomia. Secondo me esistono buoni corsi di laurea e corsi mediocri, ma in genere il livello di preparazione e competenza è elevato. Chieda a chi esamina studenti Erasmus qual è in media la preparazione di chi viene da fuori, forse qualche sua certezza potrebbe iniziare a vacillare. Quanto alle tasse univesitarie e quindi al mercato dei presiti, vorrei farle notare che negli USA dove questo meccanismo infernale si è ampiamente diffuso, la crisi del sistema è tale che nel programma della Clinton si parla di riformare l’intero meccanismo. Il sistema manifatturiero italiano è arretrato, non punta sull’innovazione, ha in media un management non adeguato e non ha bisogno di laureati. Che questo sia anacronistico è poi un’altra storia.

      • Nicolò boggian

        Mi riferisco senz’altro a economia, giurisprudenza , psicologia , scienze politiche etc se non altro perché sono quelle che laureano più persone che poi lavorando sul mercato. Quanto Ceo ci sono laureato in chimica o matematica? Il punto è che il mercato del lavoro e’ cambiato pesantemente. Laddove c’erano grandi organizzazioni con mercati stabili e dipendenti per decine di anni, ora ci sono poche START Up che crescono rapidamente e molte aziende che crollano sotto il peso della competizione globale. Allo stesso modo le persone cercano forme di impiego che consentano di conciliare vita familiare e lavoro. Queste ultime si sostengono con competenze elevate, capacità di adattarsi, flessibilita’, empatia, networking, organizzazione , processi. Questo è il mercato del lavoro che vedo. L’università, non solo italiana , tarda ad adeguarsi a questi cambiamenti. Adattarsi significherebbe anche rivedere la didattica , sostituendo parte del corpo docente con altro più aggiornato oppure acquistando servizi professionali che garantiscano placement , comunicazione , networking. Nessuno dubita che la preparazione in alcune materie o discipline sia eccellenze. Peraltro questo viene certificato da esami e voti. Tuttavia queste discipline e competenze non sono sufficienti per garantire indipendenza di guadagno , una carriera stabile e con prospettive di crescita. Dare la colpa solo alle aziende che non capiscono e’ un po’ troppo comodo Sbaglio?

        • marcello

          Eccome se sbaglia. Sbaglia perchè la crescita della produttività nelle imprese di servizi è la metà di quella della manifattura, e come dice Krugman “la produttività dice poco nel breve periodo, ma tutto nel lungo periodo”. Sbaglia perchè quest’idea tutta italiana che un paese di 60 mln di persone possa vivere di servizi è una grande bugia. Sbaglia perchè per far crescere stabilmente un paese ci vogliono le fabbriche che investano in innovazione e sviluppino prodotti ad alto valore aggiunto. Sbaglia perchè l’dea del piccolo ma bello è stata smentita dai fatti. Sbaglia perchè se le aziende italiane sono interconnesse la metà di quelle tedesche non dipende dall’università ma dai manager. Sbaglia perchè dottorati italiani di giurisprudenza sono occupati nelle Auttorità di tutta Europa, Sbaglia perchè se i manager con la laurea sono meno di quelli con la licenza media, non dipende dai programmi, ma dalfatto che la proprietà familiare delle imprese non recluta dirigenti laureati. Sbaglia perchè il corpo docente italiano è in media più aggiornato di quello di altri paesi, compresi gli USA, a meno che non abbia in mente le solite Ivy League, ma in questo caso il paragone fa ridere Harvard ha un bilancio che è la metà dei fondi italiani per tutte le università. Sbaglia perchè una carriera stabile e di crescita la garantisce un’impresa innovativa gestita da manager capaci e visionari di cui, per fortuna, esistono esempi anche in Italia, vedi FASTWEB. Se crede continuo.

          • Nicolo boggian

            Il settore dei servizi, che è labour intensive, non può avere un alta produttività con la tassazione sul lavoro che abbiamo in Italia, andrebbe regolato in modo diverso. Comunque sono d’accordo con molte cose che dice e consapevole della mancanza di managerialità e di processi delle imprese italiane, eppure questo non toglie che vi è una forte domanda di cambiamento della didattica universitaria, ma questa viene frustrata per vari motivi ( resistenze corporative, burocrazia asfissiante , problemi organizzativi). È’ questo il principale problema del nostro paese? Probabilmente no. L’università contribuisce a risolvere i problemi del nostro Paese? Ancora no

          • marcello

            La Germania e la Francia hanno un cuneo fiscale sul lavoro più ampio di quello italiano.
            Cerchiamo di semttere di credere a infondate leggende metropolitane che sono servite solo a coprire l’inettitudine e l’incapacità di imprenditori e manager che da almeno vent’anni hanno trasformato la renumerazione per il rischio d’impresa in rendita di posizione.

    • Francesco Ferrante

      Sicuramente in diversi ambiti universitari vi è un eccesso di autoreferenzialità che si traduce nella difficoltà a rivedere programmi e metodi. Resta il fatto che vi è un grosso problema dal lato della domanda di laureati: come dimostrano diverse indagini, la propensione e capacità di una fetta elevata del nostro sistema imprenditoriale di valorizzare la conoscenza e i laureati, per diversi motivi, è molto scarsa.

      • marcello

        L’accusa di autoreferenzialità mi sembra veramente irrealistica. L’università italiana dalla Riforma Berlinguer in poi è un continuo working in progress che coinvolge tutto dalla didattica all’amministrazione. Ogni ministro che si è succeduto al MIUR ha introdotto norme e regolamenti che hanno imposto revisioni, aggiornamneti e quant’altro. Negli ultimi anni gli iscritti sono calati di oltre il 20%, i docenti in una misura simile e oggi il numero di laureati tra 25-34 anni in Italia è al penultimo posto nei paesi OCSE, prima della Turchia! L’università ricorda molto il mercato del lavoro. Anche li negli ultimi anni si sono succedute una serie di riforme, a cominciare da quella del posticipodell’età del pensionamento che avrebbe dovuto (ma dove era stata validata questa tesi?) garantire occupazione per i giovani, del lato dell’offerta con risultati pressocchè nulli. A dimostrare che se manca la domanda, cioè gli investimenti, il lavoro non cresce. Idem per l’università. A dimostrazione di tutto ciò segnalo quello che scrive l’ISTAT nel Rapporto Annuale 2016 per cui gli incentivi del Governo hanno si accresciuto l’occupazione, ma un’occupazione di scarsa qualità, deprimendo nel contempo gli investimenti in innovazione, gli unici in grado di far crescere la produttività e quindi rendere sostenibile la crescita economica. L’università è un problema perchè i termini reali il FFO si è ridotto sensibilmente, perchè vi si spende troopo poco, altro che programmi!

  3. Markus Cirone

    Bene, spiegatelo anche a Renzi e Giannini che con la 107/2015 hanno introdotto l’alternanza scuola-lavoro, con conseguente ulteriore riduzione del tempo dedicato alle lezioni.

  4. «ad una società complessa e flessibile bisognerebbe fornire non figure professionali rigide, bensì plastiche; laureati capaci di acquisire nuove competenze anche al di là di quelle ottenute nel breve ciclo universitario e quindi in possesso degli strumenti concettuali in grado di renderli criticamente e intellettivamente autonomi. Non la rigidità dello specialismo acquisito una volta per tutte, dunque; piuttosto una formazione critica e generale, aperta e duttile, capace di adattarsi ai diversi contesti lavorativi e in grado di acquisire in breve tempo le competenze necessarie per inserirsi pienamente nella professione cui le vicende della vita e le trasformazioni della società destineranno il laureato. L’università non può diventare un laboratorio di addestramento professionale, non può sostituirsi all’impresa, ai luoghi di lavoro, alle specializzazioni professionali, che soltanto la pratica sul campo può far acquisire; non deve fornire un prodotto finito, l’oliato ingranaggio che perfettamente si incastri in un ipotetico e fantasticato luogo di lavoro, partorito dalla fertile e interessata fantasia dei docenti universitari.» Scritto nel 2001 e quindi messo come recommandation n. 13 in un rapporto commissionate dall’UE e sostenuto in numerosi articoli, alcuni pubblicati su Roars. Benvenuto a Francesco Ferrante! Benvenuti agli amici della Voce!

    • Francesco Ferrante

      Caro Francesco, l’idea non è particolarmente originale. Non lo era neanche nel 2001. Il punto è che ora ci sono studi empirici rigorosi che offrono sostegno a questa tesi.

  5. francesco

    Salve,
    Il capitale umano c’è, forte della preparazione generica anche dei licei, di laureati anche. Il problema è la mancanza di fiducia nei confronti dei giovani.

    • marcello

      PIù che mancanza di fiducia nei giovani direi venir meno del ruolo dei manager e questa leggenda metropolitana che l’università non prepara al lavoro è ridicola. I radiologi oncologi italiani insegnano al mondo, non solo all’europa come si cura i malati e si garantisce loro una buona qualità di vita, così come i biologi inventano farmaci per curare neglected diseases come limmunodeficienza acuta. Questo avviene nelle università italiane o no? Sono i manager il problema di questo paese. Un esempio semplice: perchè in Italia non esiste una filiera dei biocarburanti di seconda generazione? Perchè, nonostante esista una direttiva che impone l’immissione al consumo del 10% di carburanti da fonti rinnovabili, di cui al massimo il 7% di prima generazione, in Italia non esistono coltivazioni di seconda generazione? Perchè, nonostante studi fatti nelle università dimostrino la sostenibilità economica, energetica e ambientale di coltivazioni di seconda generazione, che tra l’altro potrebebro essere usate per la fitoremediation di aree contaminate come la Terra dei Fuochi, non si fa nulla? Perchè le grandi compagnie petrolifere, a cominciare da quella nazionale, preferiscono comprare olio di palma dall’Indonesia e raffinarlo. Risultato l’Italia importa l’85% del biodiesel immesso al consumo! Potrei continuare per esempio parlando di acqua e arsenico, oppure di ciclo dei rfiuti e inceneritori, ma la conclusione sarebbe sempre la stessa: mancano manager capaci di innovare e rischiare.

  6. Francesca

    Sinceramente non so come un’università teorica e basata sulla noia e sulla mnemonica possa produrre lavoratori.
    Le Università estere producono cittadini pensanti e autonomi, quelle italiane solo cloni e ruggine

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