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Finanziamenti alle università: pochi e con regole incerte

Le regole per il finanziamento alle università sono cambiate. A regime, i fondi saranno assegnati in base agli obiettivi raggiunti e ai costi effettivamente sostenuti. Un principio condivisibile, ma ci sono molte questioni irrisolte. Aumento delle risorse ineludibile.

Cosa è cambiato

La spesa in istruzione terziaria in Italia è molto al di sotto della media dei principali paesi industrializzati, sia in rapporto al numero degli studenti iscritti (33 per cento in meno della media Ocse, 50 per cento in meno dei paesi del Nord Europa, vedi grafico) sia in rapporto al prodotto interno lordo (0,60 punti percentuali inferiore alla media Ocse). Si tratta di dati ampiamente discussi dalla stampa nazionale e dai collaboratori di questo sito. Meno noti sono i notevoli cambiamenti che a partire dal 2008 hanno interessato il sistema che regola i finanziamenti alle università.

Figura 1: Spesa annuale per studente nell’istruzione terziaria. Anno 2012 (dollari Usa a parità di potere d’acquisto Ppa, per studente equivalente a tempo pieno

Senza titolo

Ogni anno il finanziamento ordinario delle università dipende da una quota base e una cosiddetta “premiale”. La quota premiale è assegnata prevalentemente sulla base dei risultati ottenuti dagli atenei nella valutazione della qualità della ricerca (nel 2015 ha contato per l’85 per cento, se si considera anche la quota assegnata sulla base dei risultati Vqr dei nuovi ingressi e di coloro che hanno avuto progressioni di carriera).
La quota base, fino a oggi calcolata su base storica, cioè guardando ai finanziamenti ricevuti negli anni precedenti, sarà definita d’ora in poi in relazione al costo standard per studente regolare: si tratta di una stima dei costi necessari per la formazione di uno studente iscritto in un corso da un numero di anni inferiore o uguale a quelli previsti per il suo completamento. Il costo standard, oltre a tener conto del costo della docenza minima richiesta per il tipo di corso frequentato e dei costi del personale amministrativo e di funzionamento, considera una quota perequativa per bilanciare le differenze di reddito tra regioni.
Nel 2015 la quota premiale è stata pari al 21,6 per cento del finanziamento ordinario e sarà incrementata annualmente fino a raggiungere il 30 per cento; la quota base è stata calcolata in parte sul finanziamento storico e su basi perequative e in parte in relazione al costo standard. A regime, il finanziamento ordinario delle università sarà dunque la somma di due quote: 30 per cento di quota premiale e 70 per cento di quota per costo standard. L’intento del ministero è distribuire le risorse sulla base di due elementi principali: risultati ottenuti e i costi effettivamente sostenuti. Si tratta di un principio condivisibile. Vi sono però tre questioni importanti da considerare.

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Obiettivi (poco) chiari e divario Nord-Sud

In primo luogo, il legislatore non ha delineato con chiarezza qual è l’obiettivo di fondo del nuovo sistema di finanziamento. L’opacità circa gli obiettivi fa sì che non si intraprendano tutte le azioni necessarie per raggiungerli. Ad esempio, se lo scopo del nuovo sistema di finanziamento è quello di giungere gradualmente a una specializzazione delle università (con pesi diversi ad attività di ricerca, di formazione di base e di formazione avanzata nei singoli atenei), sarebbe necessario accompagnarlo con una revisione del sistema di contratti e incentivi per il personale docente e non docente.
L’opacità, poi, introduce incertezza. I cambiamenti richiedono tempo per produrre effetti e soprattutto gli individui rispondono nella maniera desiderata solo se non si aspettano brusche inversioni di marcia. Non va certo in questa direzione il comunicato stampa del ministero dell’Istruzione Università e Ricerca del 7 maggio, dove si annuncia che a partire dal 2017 il 20 per cento della quota premiale del fondo per le università sarà ripartito in base a indicatori scelti dagli stessi atenei tra quelli forniti dal Miur (che dovrebbero includere ricerca, didattica e internazionalizzazione). Ciò potrebbe significare un ridimensionamento della quota di finanziamento che dipende dalla Vqr al termine di due soli cicli di valutazione. Si cambia strada prima che le università abbiano potuto adeguarsi al nuovo sistema e sfocando l’obiettivo di fondo del nuovo sistema di finanziamento.
In secondo luogo, il nuovo sistema di finanziamento pone un problema di divari tra atenei, che nel nostro paese assume un carattere anche regionale. In base alle stime fornite nel rapporto Anvur 2016, le riduzioni e gli incrementi di finanziamento oscillano tra il -25 e il +27 per cento e le università in perdita sono prevalentemente meridionali. Non si può ignorare che il ridimensionamento di molti atenei meridionali (anche se in parte giustificato dai peggiori risultati nella ricerca e dalla diminuzione degli iscritti) si intreccia con la più ampia questione del divario Nord-Sud. Lasciando indebolire le università del Sud si rinuncia al ruolo che potrebbero avere per lo sviluppo di queste aree. Non ha certo funzionato il vecchio sistema, ma il nuovo non può evitare di confrontarsi con una questione che assume valenza nazionale.
Infine, l’applicazione del nuovo modello di finanziamento richiede una decisa inversione di tendenza nell’ammontare complessivo dei finanziamenti concessi alle università. A regime, non sembra esservi congruità tra finanziamenti attuali e teorici (definiti dal costo standard). Secondo le stime fornite da Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) nella relazione presentata a fine maggio, se nel 2015 si fosse applicata integralmente la formula del costo standard, sarebbe stato necessario un finanziamento di 6,5 miliardi di euro per coprire il costo della didattica attualmente erogata. Considerando che vi è un limite alla contribuzione studentesca (la legge stabilisce che le entrate contributive non possano superare il 20 per cento del finanziamento ordinario), sarebbero necessari 5,2 miliardi di euro per coprire la quota base. Per assicurare una quota premiale del 30 per cento del finanziamento totale sono quindi necessari circa 7,5 miliardi di euro. Il divario rispetto ai 6,3 miliardi di euro del 2015 è di circa 1,2 miliardi di euro.

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  1. roberto

    ci sono purtroppo troppi interessi sedimentati che impediscono alle università di eccellere salvo chiedere finanziamenti a priori. Sappiamo bene gli errori alla base: 1) valore legale della laurea (una follia tale per cui non importe dove e quindi come ti laurei ma il pezzo di carta); 2) separare l’attività della didattica da quella della ricerca (si poteva ad esempio delegare la seconda in toto ad un vero CNR); 3) eliminare le posizioni “farlocche” (che senso ha la posizione di ricercatore a filosofia, lettere o economia e commercio?); 4) la laurea breve imporrebbe di condannare a vita chi l’ha ideata (non serve di fatto a nulla e genera una valanga di pseudo-laureati che nessuno assumerebbe mai); 5) l’ideologia dei “troppo pochi laureati” ha distrutto un istituto abbassando il livello (vedi le richieste dei rettori a non bocciare “altrimenti non si iscrivono da noi”) che è stato storicamente di eccellenza; etc etc.

    p.s.chi scrive (MD, PhD, MBA) è partito per l’estero una settima dopo la laurea per evitare di lavorare gratis facendo un tirocinio gratis per baronazzi improduttivi a cui dovevi dire “grazie” per il solo fatto di entrare nel loro laboratorio. All’estero mi hanno detto grazie e pagato di conseguenza per “essere andato da loro”

    • Antonio

      A parte alcune questioni tecniche l’articolo è condivisibile, ma è proprio nella conclusione che si trovano molte delle problematiche. Con la riforma delle università che ha introdotto i cicli, la base degli studenti è cresciuta molto, sostanzialmente è raddoppiata. Questo fenomeno, necessario, visti gli scarsi numeri dei laureati in Italia, se confrontati con le medie europee, non è stato accompagnato da un vero ripensamento e adeguamento sia delle risorse, sia del numero di professori, scaricando in modo scriteriato il peso della didattica sulle nuove leve, in modo non appropriato rispetto al loro contratto. Riguardo al commento di roberto: 1) il valore legale della laurea non impedisce ad un privato di assumere chi vuole, per il pubblico è garanzia di “accesso” paritario rispetto ad un concorso pubblico, ma non mi dilungo su questo, mi chiedo con quale modello di selezione tu lo sostituiresti (parliamo di pubblico). 2) tu chiaramente non hai idea dei modelli universitari in giro per il mondo, separare la ricerca dalla didattica significa che non si fa università, si fa un liceo. L’Università nasce e vive per fare ricerca e didattica, se fai didattica senza ricerca, sei destinato ad insegnare prima o poi argomenti obsoleti, se fai ricerca senza didattica non sei università. 3) la laurea breve esiste in tutta europa. 5) avere più laureati non implica automaticamente diminuirne il livello, seguendo questo ragionamento laddove ci sono più laureati essi sono meno preparati.

  2. alessandra

    la ricerca esiste anche in ambito umanistico.
    p.s. e non sono iscritta ad una facoltà umanistica…..

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