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Sull’Invalsi la protesta preventiva fa flop

Quest’anno la partecipazione ai test Invalsi è stata ampia: 97 per cento nella scuola primaria e 91 nella secondaria superiore. Il boicottaggio sembra essere fallito anche se solo in fase di correzione si potrà dare un giudizio definitivo. L’Invalsi è imperfetto, però dà informazioni utili.

Come si misurano le competenze?

I test standardizzati di matematica e di italiano sono stati introdotti in Italia nel 2009 e ogni anno sono accompagnati da critiche e tentativi di boicottaggio. Eppure l’uso di questo tipo di test per misurare le competenze degli studenti è una pratica consolidata in moltissimi paesi europei, negli Stati Uniti e in Australia. Si tratta certamente di una misura imperfetta, ma non per questo inutile, soprattutto quando se ne fa un uso accorto, che tiene conto dei suoi limiti. La scuola ha il compito di contribuire alla formazione di tutte quelle capacità che rendono gli individui capaci di ottenere buoni risultati personali e di partecipare al miglioramento della società in cui vivono. Non basta quindi insegnare agli studenti a comprendere un testo, a risolvere un problema di logica, a rispondere ad alcune domande di cultura generale, serve anche insegnare loro ad avere consapevolezza di sé stessi, a gestire le proprie emozioni, a relazionarsi con gli altri. Se fossimo in grado di misurare il contributo dato dalla scuola alla formazione di tutte le competenze rilevanti (lista difficile da compilare), saremmo in grado di effettuare valutazioni molto accurate e di capire esattamente dove intervenire. Il problema è che misurare l’insieme delle competenze è estremamente difficile. Le difficoltà incominciano già dalla scelta del metro da utilizzare: le misure oggettive non sono in grado di cogliere competenze complesse, mentre quelle soggettive mancano di una scala comune. Si pensi alle valutazioni fornite dagli insegnanti. Grazie a un contatto continuo con gli studenti, i docenti sono in grado di cogliere attraverso il proprio giudizio molteplici aspetti che non potrebbero mai venire inglobati in un test standardizzato. È evidente però che gli insegnanti possono adottare metri di valutazione differenti (e qualche volta distorti da fattori personali e ambientali) che rendono impossibile qualsiasi comparazione. Non a caso tutti gli anni, dopo gli esami di maturità, in Italia si apre un dibattito sull’affidabilità degli esiti di questi esami e su come debbano essere interpretate le differenze territoriali che ne emergono. L’uso dei test standardizzati, come quello Invalsi, mette a disposizione un metro comune che permette di fare confronti e capire, ad esempio, se in alcune scuole o aree geografiche gli studenti stanno facendo meglio o peggio della media. Deve trattarsi di confronti oculati perché si considerano solo alcune competenze e soprattutto perché alla loro formazione non concorre solo la scuola, ma anche il contesto familiare e sociale. È importante quindi adoperarsi perché coloro che vengono messi a conoscenza dei risultati dei test sappiano comprenderne il significato e siano in grado di depurarli delle condizioni socio-economiche dell’area dove opera la scuola.

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Il test non valuta le scuole

A differenza di Inghilterra, Stati Uniti e Australia, l’Italia non adotta un sistema di “high stakes test”: i risultati ai test Invalsi non producono conseguenze “decisive” per scuole, insegnanti e studenti. Le critiche sollevate ai test standardizzati sono rilevanti soprattutto quando essi svolgono un ruolo centrale per le politiche scolastiche. In tal caso si può comprendere l’incentivo di docenti e studenti a falsarne il risultato (alcuni studi mostrano ad esempio che negli Stati Uniti il risultato dei test è stato manipolato dai docenti). In modo simile, è facile che con “high stakes test” i docenti siano indotti a insegnare come rispondere correttamente al test e a trascurare altri aspetti importanti della formazione. La posta in gioco è alta e legare forti incentivi a misure imperfette dei risultati può generare distorsioni. In Italia però siamo molto lontani dal sistema introdotto in America con il No Child Left Behind. I nostri studenti non rischiano di ripetere l’anno scolastico a seguito di un risultato insoddisfacente ai test (solo per l’esame di terza media i risultati al test Invalsi concorrono insieme ai voti alle altre prove a definire il voto finale). La Buona scuola ha provato a introdurre un sistema di premi per gli insegnanti più meritevoli, ma lo ha fatto in modo così confuso che è difficile dire cosa conta nella definizione di merito. I risultati ai test vengono considerati sempre insieme ad altri fattori e mai in maniera esclusiva. Insomma, non ci sono segnali che inducono a pensare che il nostro paese si stia muovendo verso un sistema in cui i risultati ai test standardizzati avranno un ruolo cruciale nella valutazione di scuole, insegnanti e studenti. I comportamenti distorti (il fenomeno del cheating è rilevante anche in Italia), le proteste e i tentativi di boicottaggio nascono quindi dalla diffidenza, dal timore che i test possano essere usati senza le dovute cautele. È una protesta preventiva e in quanto tale pretestuosa. Forse sarebbe meglio collaborare e sforzarsi di utilizzare in maniera proficua le informazioni che i test offrono. È quello che fanno la stragrande maggioranza delle scuole, soprattutto quelle primarie, che in Italia tradizionalmente sono quelle che funzionano meglio.

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  1. Virginio Zaffaroni

    Sostenitore come sono dei test Invalsi, comprendo tuttavia l’osservazione che questi possano orientare in senso riduttivo gli insegnanti, con il rischio che tutto l’insegnamento sia finalizzato a “fare bella figura” ai test. Ma credo che ciò possa essere evitato mantenendo un forte peso alla valutazione di maturità, valutazione che deve essere la più ampia e attenta possibile. Ciò detto, i test Invalsi mi sembrano (in potenza) un’utile risposta allo strano fenomeno per cui tutti i “geni” da 100 e lode vengono prodotti nel sud del paese, mentre al nord, dove io constato (nell’insieme) un alto livello qualitativo del sistema scolastico, qualcosa nell’aria farebbe male all’eccellenza negli studi, visto il ridotto numero di 100 “cum laude”. Alla fine gli Invalsi, su grandi serie storiche di numeri, potranno esprimere un giudizio affidabile sulla qualità o meno degli istituti, depurato dalla loro minore o maggiore tendenza lassista nei voti. E, a mio parere, è esattamente qui che si dovrebbe innestare il discorso sulla premialità degli insegnanti, a partire cioè dalla qualità complessiva della scuola in cui insegnano, per scendere poi naturalmente a valutare i singoli.

    • fabrizio

      E’ anche opportuno dire come le università del Nord – secondo l’Anvur migliori di quelle del sud, salvo casi particolari (Unical) – dal sud Italia accettano pure la “fezza”, considerando le decine di migliaia di studenti meridionali che vanno a studiare fuori regione. Il 50% dei salentini, il 60% dei trapanesi e dei ragusani studiano fuori regione, spesso nel nord Italia. Ipotizziamo che nella provincia di Trapani i voti dei liceali siano effettivamente inflazionati e che un 9 a Trapani equivale a un 6,5 a Bergamo.
      Se i Trapanesi in media sono più somari di quanto non possa essere un Lombardo o un Veneto, perché il 60% dei Trapanesi riesce, nonostante tutto, a trovare una collocazione universitaria fuori regione?
      Se alla fine i cittadini di Trapani sono più somari, sarebbe sufficiente prevedere come unico criterio per l’ammissione al polimi il superamento di un test, che tenga conto solo in minima parte – o che non ne tenga conto per nulla – delle performance nel terzo e quarto anno di scuole superiori.
      Allora: se site bravi, fateci un favore, non ammetteteci alle vostre università, che ormai nelle università milanesi si parla più il siciliano che il milanese. Se non siete in grado, forse perché da un lato siete in disseto demografico – come noi – e, dall’altro, non siete in grado di attrarre menti dal resto del mondo perché non siete competitivi, allora forse attrarre tutti questi meridionali ha una sua convenienza.
      Siamo sulla stessa bara, se ne faccia una ragione.

      • Virginio Zaffaroni

        Sinceramente, il suo commento parte da premesse e dati tutti da verificare e spiaggia su contenuti che non hanno niente a fare con quanto scrivevo. Era evidente il mio riferimento alle maturità, non alle ammissioni alle “nostre università”. Alla fine mi sembra di cogliere la sua convinzione che la valanga di 100 cum laude al Sud sia tutta meritata. Bene, se è così, i test Invalsi non potranno che confermarlo.
        Quanto a stare sulla stessa “bara” (refuso, penso, di barca), se il funerale è quello dell’Italia non posso che concordare.

  2. Antonio Perricone

    I test di ammissione alle università americane sono amministrati da un ente terzo, l’ETS. Qualcosa di analogo risolverebbe per sempre la stupida e diffusa collusione tra insegnanti scarsi/student scarsi

  3. Cristina Frascarolo

    Da tempo mi chiedo se sia una parola d’ordine non usare in modo corretto i congiuntivi negli articoli.

  4. Ho collaborato per tre anni alla realizzazione del fascicolo di matematica della SSSG, sono quindi un “invalsiano”, secondo la nomenclatura dispregiativa di certi ambienti.
    Mi permetto di esprimere preoccupazione, invece, riguardo il risultato nell’affluenza di questo settore. E’ chiaro che nei gradi inferiori i genitori spesso non boicottano per motivi meramente pratici, ma già l’anno scorso le cose sono cambiate (si è passati da un 98% a 77% negli ultimi due anni, per tornare ad un 90% questo. Orbene, fare informazione sul tema mi pare essenziale. Io stesso ho partecipato, in veste di “INVALSIANO” ad assemblee di studenti. Credo che il migliore antidoto contro la protesta strumentale sia la conoscenza delle prove e per questo motivo, ad esempio, invito sempre tutti a leggerle!

  5. Markus Cirone

    La diffidenza verso i test Invalsi potrebbe diminuire se le cose che vengono dette fossero mantenute.
    Si è detto, anzi spergiurato, per anni che le prove Invalsi non sarebbero mai entrate nell’Esame di Stato delle scuole superiori. Ora però il Ministro ha chiesto all’Invalsi proposte per la nuova terza prova dell’Esame di Stato. Come possiamo noi docenti fidarci se si dice una cosa e se ne fa un’altra?
    Se poi si capisse a che servono (cioè, una volta ottenuti gli esiti, di questi dati che ne facciamo? Sono soldi spesi per averne indietro che cosa?) …

  6. Luca

    Insegno da un paio di decenni, non ho mai boicottato le prove invalsi, ma ho delle perplessità: può uno strumento statistico fornire dati utili per la valutazione dei singoli? Chi li ha imposti negli esami di terza media (e li vorrebbe anche per l’esame finale delle superiori e per la valutazione dei singoli docenti) si è posto il problema? A proposito poi della valutazione delle singole scuole, nessuno dice che cosa si farà per migliorare le peggiori né se e come premiare le migliori. Esistono anche altri strumenti di valutazione che potrebbero permettere azioni mirate (PISA, Fondazione Agnelli), ma gli interventi dei vari riformatori della scuola pubblica sono sempre universali e apparentemente sono rivolti solo al risparmio! Per quel che posso collaboro ad ogni tentativo di miglioramento, ma non credo che così si vada nella direzione giusta!

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