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Tra disabilità e nuovo Isee una questione di equità

La sentenza del Consiglio di Stato ha stabilito che le indennità per disabilità non possono rientrare nel calcolo dell’Isee. Persone con indennità diverse avranno perciò lo stesso trattamento, avvantaggiando chi riceve di più. E non necessariamente sono quelli che hanno i maggiori bisogni e costi.

Dopo la sentenza del Consiglio di Stato

Una recente sentenza del Consiglio di Stato (n. 00838/2016) in materia di valutazione della condizione economica per l’accesso alle politiche sociali agevolate (Isee) – così come definite dal decreto presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013 – ha sancito che “l’indennità di accompagnamento e tutte le forme risarcitorie” non sono reddito e, come tali, non possono rientrare nel calcolo della condizione economica.
Come si evince dai dispositivi, a orientare la decisione dei giudici ha certamente contribuito il riferimento dell’Isee al reddito dichiarato ai fini Irpef, ovvero a una nozione troppo vicina a quella di “capacità contributiva” e poco rappresentativa dell’entità delle risorse a disposizione o spendibili della famiglia per concorrere alle agevolazioni: assumendo a riferimento i dati delle dichiarazioni Irpef del 2015, fra il reddito dichiarato e il reddito netto dall’Irpef vi è una differenza che per la media dei contribuenti è del 30 per cento e del 15 per cento per il contribuente medio. Per la media dei titolari di partita Iva la differenza è del 35 per cento.
Senza entrare nel merito della scelta, peraltro salutata da molti come una conquista di civiltà, mi limiterò invece a sottolineare alcune questioni di equità che sembrano essere sfuggite ai più.
Le modalità con cui in Italia sono gestite le misure monetarie a tutela della disabilità sono tali per cui non tutti gli inabili accedono con le stesse condizioni e la stessa “facilità” ai benefici previsti. E i sostegni economici prevedono che gli interessati possano beneficiare di indennità il cui importo è:

  • diversificato per tipologie di soggetti, anche a parità di inabilità;
  • nullo se l’invalidità si colloca sotto determinate soglie di inabilità (75 per cento, 100 per cento, 66 per cento) o di reddito;
  • solo in parte legato all’incapacità totale o parziale di produrre un reddito;
  • quasi mai rappresentativo dei costi assistenziali che comporta una determinata disabilità.
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Alcuni esempi possono chiarire la portata del problema.
Un soggetto di età compresa tra i 18 e i 65 anni, classificato come invalido civile, deve avere riconosciuto un livello di inabilità almeno pari al 75 per cento e possedere un reddito personale sotto i 4.800 euro per poter ricevere 279 euro per tredici mensilità.
Lavoratori dipendenti e autonomi possono beneficiare dell’assegno ordinario di invalidità, se sono riconosciuti inabili almeno al 66 per cento. L’importo è calcolato in base ai contributi versati, diventa permanente dopo due rinnovi triennali e si converte in pensione alla cessazione dell’attività lavorativa. Con invalidità totale è invece riconosciuta la pensione di inabilità. Gli invalidi del lavoro ricevono un’indennità dall’Inail il cui importo dipende dal salario pre-invalidità permanente e dal livello dell’invalidità stessa – soglia minima del 16 per cento: con 25mila euro di reddito e una invalidità al 50 per cento, l’indennità è pari a circa 13mila euro annui per tutta la vita, esenti da imposta, cumulabili con altri redditi e reversibili per coniuge e figli.
Vi è poi l’indennità di accompagnamento, riconosciuta in favore degli invalidi totali per i quali è stata accertata l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore oppure l’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita. L’importo è di 508 euro mensili per dodici mensilità, che vengono però meno se i soggetti sono ricoverati gratuitamente in istituto per un periodo superiore a trenta giorni o percepiscono un’analoga indennità per invalidità contratta per causa di guerra, di lavoro o di servizio.

L’equità tra disabili

Da questi esempi è facile dedurre che pochi euro di reddito, pochi punti percentuali di invalidità, aver subito una menomazione in un incidente sul lavoro o mentre si viaggiava sulla propria automobile, possono fare una grande differenza in termini di provvidenze pubbliche.
Se per i magistrati, grazie all’esclusione delle indennità legate all’invalidità, è stato ripristinato un giudizio equitativo fra disabili e non disabili beneficiari di sostegni economici, dovrebbe essere però chiaro che la sentenza apre un problema di equità all’interno della categoria dei disabili:

  • fra quelli che ricevono e che non ricevono nulla;
  • fra quelli che con la stessa invalidità ricevono somme diverse;
  • fra quelli che ricevono la stessa somma, ma che hanno fabbisogni e costi assistenziali diversi.
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Più in particolare, se la sentenza trovasse puntuale applicazione, la mancata inclusione nell’Isee delle indennità avrà come conseguenza l’uguale trattamento di soggetti con indennità diverse, ovvero avvantaggerà soprattutto coloro che ricevono di più e che non necessariamente sono anche quelli che hanno i maggiori bisogni e costi.
Per tale ragione le necessarie modifiche che dovranno essere introdotte all’Isee non possono limitarsi a “correggere il solo art. 4 del Dpcm e fare opera di coordinamento testuale”, così come suggerisce la sentenza del Consiglio di Stato.

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  1. Carlo Giacobini

    Vi sono ulteriori elementi di differenziazione derivanti da provvidenze di natura assistenziale:
    quelli di origine regionale.
    Alcune regioni prevedono assegni e contributi di vario importo, altre no. Alcune per questi prevedono obbligo di rendicontazione (es. Sardegna), altre no (es. Emilia Romagna). Nessuna verrebbe più computata. Ne esce effettivamente uno strumento scarsamente selettivo.
    Ma c’è anche un altro aspetto di disparità. Le sentenze non escludono dal computo le forme di assistenza che non siano per la disabilità (esempio povertà o inclusione sociale).

  2. Enrico Cecchi

    L’articolo contiene una serie di inesattezze: l’assegno ordinario di invalidità, riconosciuto ad un lavoratore, viene accertato e pagato dall’INPS, in funzione dei contributi versati, se l’invalidità determina un’incapacità lavorativa superiore ai due terzi (quindi il 66% non c’entra nulla), incapacità lavorativa che va confrontata con lo specifico lavoro effettuato. Tant’è che il medico legale dell’INPS effettua la sua valutazione a prescindere dalla percentuale di invalidità stabilita dalla commessione degli invalidi civili. L’importo è variabile, perchè dipende dai contributi previdenziali, versati per tre diverse motivazioni: vecchiaia, invalidità e per i superstiti (non a caso sono detti contributi IVS). L’assegno non si trasforma in pensione all’atto della cessazione dal lavoro, ma solo al compimento dell’età per accedere alla pensione di vecchiaia (quindi, chi fruisce dell’assegno di invalidità non può accedere alla pensione anticipata, che ha sostituito la pensione di anzianità). l’assegno di invalidità assistenziale (quello dei 279 euro), è invece a carico della collettività (quindi pagato a prescindere dai contributi), è pagato dall’INPS ma non è deciso dall’INPS, e non è correlato all’attività lavorativa svolta (che potrebbe anche mancare). La percentuale è stabilità dalla Commissione Invalidi in maniera “automatica” (ad una determinata patologia corrisponde una certa %). Sono quindi 2 istituti diversi, anche se comunemente sono chiamati nella stessa maniera.

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