Quanto costerebbe il bonus di 80 euro ai pensionati al minimo? Dipende dalle regole di accesso alla misura. In ogni caso una spesa consistente. E forse quei soldi si potrebbero spendere meglio. Rischio povertà delle giovani famiglie e revisione organica di alcune prestazioni pensionistiche.
Quanto costa il bonus ai pensionati
Sembra ormai confermato l’annuncio del presidente del Consiglio di un nuovo intervento mirato a sostenere i redditi di pensionati che godono di una “pensione minima”. Si ripropone la formula degli 80 euro mensili, ma riservati questa volta alle tasche dei pensionati e non a quelle dei lavoratori, e con una nota di cautela: “se saremo in grado di farlo”. Per valutare la bontà della proposta in termini di efficacia e di bilanciamento tra costo e beneficio, è necessario rispondere a una serie di domande: (i) quanto costa e chi paga? (ii) qual è l’obiettivo e chi ne beneficia? (iii) chi resta fuori? La stampa nazionale ha già fornito delle stime del costo dell’intervento. Tutto dipende da cosa intende il Presidente del Consiglio per “pensione minima” e dalle regole che verranno definite per l’accesso al buono-80-euro, ricordando che alcuni pensionati possono ricevere la prestazione e continuare a lavorare, altri possono ricevere più di una prestazione. Se per pensioni minime si intende il numero di prestazioni pensionistiche con importo inferiore a quello della pensione minima pari a 501 Euro, allora il numero dei beneficiari sarebbe molto alto: quasi 6 milioni di pensioni (INPS, anno 2014). La spesa annuale corrispondente, escludendo il buono sulla tredicesima mensilità, si aggirerebbe intorno a 6 miliardi incidendo per un 0,35 per cento sul Pil. Se invece i beneficiari sono i pensionati che sono soggetti a un’integrazione al minimo per una (e solo una) prestazione, allora la platea si restringe a circa 3,5 milioni di persone (con una spesa annuale conseguente di quasi 3,5 miliardi, lo 0,21 per cento di Pil). Una ulteriore variante potrebbe basarsi sul calcolo del reddito pensionistico complessivo, che dovrebbe risultare inferiore alla pensione minima: i casi si riducono a 2,037 milioni. Questa ipotesi comporterebbe una spesa annuale di circa 2 miliardi che rappresenta lo 0,12 per cento del Pil. In ogni caso, non stiamo parlando di una spesa trascurabile, considerando che in Italia tutto il comparto “vecchiaia” della spesa per welfare rappresenta il 13,2 per cento del Pil e che per i sussidi alla disoccupazione si spende appena lo 0,8 percento del Pil.
Tre diversi obiettivi
L’obiettivo dichiarato sembra quello di contrastare la povertà a spese dei contribuenti. Ma forse i soldi si possono spendere meglio e forse non c’è bisogno di destinare ulteriori fondi al comparto pensioni. I dati Eurostat mostrano che le categorie più a rischio di povertà non sono i pensionati ultra sessantacinquenni, ma i giovani nella fascia 18-25 anni e gli individui nel gruppo di età precedente il pensionamento (50-59 anni), specialmente se disoccupati. La combinazione del perdurare della crisi e delle misure di politica economica che ne sono conseguite ha accresciuto il divario tra questi gruppi di età in forma molto marcata: circa il 38 per cento dei più giovani è a rischio povertà, contro un 20 per cento per il gruppo 65 e oltre (figura 1). Se poi confrontiamo i giovani disoccupati con i pensionati di età 65 e oltre è come guardare due mondi diversi (figura 2).
Figura 1 – Percentuale di individui a rischio povertà per gruppi di età
Fonte: Eurostat
Figura 2 – Percentuale di individui a rischio povertà per gruppi di età e situazione lavorativa
Fonte: Eurostat
Non è chiaro poi se la misura verrà ripetuta negli anni a venire (moltiplicando i costi per il numero di anni) o se è una tantum. L’intervento per un solo anno non risolve la situazione di indigenza estrema in cui si trovano alcune persone molto anziane e molto povere e, nello stesso tempo, costa. Quindi, da un lato, la misura non sembra sufficientemente mirata – a poco servono 80 euro a chi ha perso l’autosufficienza e necessita continua assistenza, per esempio – dall’altro beneficia molti “non a rischio povertà”. Forse l’obiettivo è quello di ripetere l’operazione “80 euro in busta paga” per prendere i classici due piccioni con una fava: contrastare la povertà dei pensionati e stimolare i consumi e far ripartire la domanda, sotto l’ipotesi che un incremento di reddito porti un aumento della spesa. Ma le analisi sui dati dei consumi delle famiglie mostrano che durante la crisi quelle più giovani hanno ridotto il consumo di beni non durevoli di circa il 23 per cento rispetto all’andamento tipico dei consumi per quella fascia di età. Per contro, la riduzione delle famiglie con capofamiglia di età compresa tra i 50 e 65 anni è stata di circa il 15 per cento e solo del 2 per cento per le famiglie più anziane ( Celidoni, De Nadai, Weber, 2015). In altre parole, le famiglie più giovani sono “vincolate” nei loro consumi e sono quindi quelle che reagirebbero di più a un incremento del reddito aumentando la spesa per riportarsi ai livelli pre-crisi. Ma forse l’intenzione del Governo è quella di chiudere la partita sul tema delle pensioni: prendere ben tre piccioni con la stessa fava, anche se appare una soluzione molto costosa. Ricordiamo che rimane irrisolta la questione di coloro che hanno perso il lavoro, non godono di pensione e sono in situazione di indigenza, come mostrato nella figura 2. Sarebbe allora preferibile una revisione organica di quei segmenti del sistema pensionistico di cui si discute da diversi mesi. Inoltre, il messaggio che la Ue ci ha trasmesso, e che il buon senso conferma alla luce del peso della spesa pensionistica, è che eventuali aumenti ad alcune pensioni dovrebbero essere finanziati all’interno del comparto pensionistico. Quel che è certo è che in Italia, complice l’allungarsi dell’aspettativa di vita e la secolare riduzione della natalità, è sempre più rilevante la quota dei pensionati tra gli elettori.
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