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I calcoli sulla pensione. E sulla sua reversibilità

Nel discutere di pensioni bisogna distinguere ciò che è previdenza da quello che è assistenza. Pure nel caso della reversibilità. Sarebbe quindi equo determinare l’importo della pensione non solo in base alla speranza di vita del titolare, ma anche a quella di chi potrebbe diventarne beneficiario.

Previdenza o assistenza?

Il tema pensionistico è nuovamente al centro del proscenio, ammesso che sia mai rimasto dietro le quinte. Accantonata, sembra, la revisione – sacrosanta a mio avviso – delle pensioni basate sul metodo retributivo proposta da Tito Boeri, oggi si discute del diritto alla reversibilità, sebbene il terreno sia tutt’altro che chiaro. Di chiaro c’è solo l’intento di ridurre la spesa pensionistica. La versione moderna della giustizia distributiva consiste nell’assicurare a tutti un “minimo” per vivere e il “superfluo” a chi se lo guadagna, purché sia garantito un “accettabile grado” di uguaglianza nelle opportunità. La diversità di vedute sta nel fissare l’asticella dei concetti, ma il principio spero sia ampiamente condiviso. Riportandolo alle pensioni, c’è un punto, banale quanto talvolta trascurato, da cui bisognerebbe partire e che consiste nel distinguere ciò che è previdenza da quello che è assistenza. Dove costituisce prestazione previdenziale solo la parte della pensione maturata secondo il metodo contributivo (a condizione che il periodo di godimento corrisponda all’“effettiva” speranza di vita del beneficiario). La parte eventualmente eccedente è assistenza, indipendentemente da come è maturata o dal tipo di pensione. Mentre il riconoscimento della componente contributiva, non importa quanto elevata, è né più né meno che la restituzione di un fondo accumulato nel tempo dal beneficiario – è un atto dovuto – la parte assistenziale non lo è in assoluto poiché non è stata “guadagnata”. Si tratta di un trasferimento la cui opportunità dipende, appunto, dal reddito o dalle necessità del pensionato: in sostanza, dipende da considerazioni di equità e sulla base di criteri che possono evolvere nel tempo. E non c’è da invocare la tutela costituzionale dei diritti acquisiti: diritti acquisiti in nome di cosa, se manca il “titolo” previdenziale o lo stato di necessità per accedere a quello assistenziale?

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Qualche calcolo sulla pensione

Questo elementare principio dovrebbe ovviamente valere anche per la reversibilità, che comporta un allungamento del periodo di godimento della pensione, a parità di contributi a suo tempo versati. Se include una componente assistenziale oppure no, dipende quindi da come viene calcolata la pensione contributiva, vale a dire dai “coefficienti di trasformazione” fissati dall’Inps, ossia dalla percentuale del complesso dei contributi accumulati che determina l’ammontare annuo del trattamento pensionistico e quindi in via indiretta anche della quota reversibile. Dal momento che più in là si va in pensione, minore sarà il tempo durante il quale ce la potremo godere, i coefficienti crescono con l’età in cui si comincia a percepire la pensione. Di qui due scenari. Se l’arco di tempo di godimento coincide con la speranza (statistica) di vita del titolare della pensione, alla sua morte avrà riavuto indietro tutto quanto aveva versato durante la vita lavorativa. In questo caso, la reversibilità comporterebbe un godimento suppletivo da parte dei superstiti, che andrebbe considerato assistenziale poiché privo di contropartita contributiva.  Se invece la metodologia di calcolo della pensione già incorpora anche il “supplemento di vita” – allungando il periodo statistico di godimento dopo la morte del titolare e in modo corrispondente riducendo dall’inizio l’importo della pensione – allora è un trattamento previdenziale che va riconosciuto indipendentemente dal reddito del superstite. Incrociando i dati Istat sulla speranza di vita con quelli utilizzati dall’Inps per calcolare la pensione, per le classi di età 65-69 e 70-74 anni, si verifica in effetti che sono sostanzialmente coincidenti: 18 e 15 anni, a seconda delle classi di età, di speranza di vita e di godimento della pensione. Su questa base statistica (assumendo che gli interessi maturati siano congrui) si dovrebbe dunque concludere che la reversibilità rientra fra i trattamenti assistenziali. Sarebbe quindi equo determinare l’importo annuo della pensione del titolare non solo in base alla sua personale speranza di vita, ma anche a quella del nucleo familiare che potrebbe diventarne beneficiario (esemplificando, la speranza di vita del coniuge più giovane) – un calcolo che non sembra proibitivo – restando aperta la possibilità di integrazione assistenziale, se giustificata. Questo consentirebbe, fra l’altro, anche di porre rimedio a una recente norma che stabilisce che in caso di matrimoni contratti dopo i 70 anni di età del pensionato (o pensionando) con un coniuge più giovane di 20 anni, la reversibilità sia riconosciuta solo per una quota del 10 per cento moltiplicata per gli anni di sopravvivenza del pensionato post matrimonio, cosicché la pensione piena di reversibilità potrà essere percepita dopo dieci anni di matrimonio. È la cosiddetta norma “antibadanti”, giustificata quanto si vuole da comportamenti opportunistici di una o di entrambe le parti (magari anche un virtuoso incentivo ad assicurare lunga vita al pensionato). Una norma però fondamentalmente ingiusta e di dubbia costituzionalità, discriminatoria e basata sulla presunzione di contrastare una “mezza truffa”: una presunzione assoluta, non smentibile dagli interessati, mentre l’onere della prova, semmai, dovrebbe spettare caso per caso all’amministrazione pensionistica. Liberissimo quindi un ultraottantenne che già gode di pensione di sposarsi con un o una minorenne, purché a valle della firma del sindaco, la sua pensione sia immediatamente ricalcolata in base alla speranza di vita del coniuge, “accorciata” per tenere conto che la quota reversibile è minore di 1. Va da sé che il principio andrebbe applicato in tutti i casi, incluso quello in cui il defunto abbia ricevuto un trattamento retributivo; la reversibilità dovrebbe valere solo sulla quota contributiva, fatto salvo il “diritto” del superstite a integrazioni, appunto, assistenziali.

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16 commenti

  1. Silvestro De Falco

    Devo sollevare un’eccezione a quanto si afferma nell’articolo, specialmente al punto in cui si dice “Dove costituisce prestazione previdenziale solo la parte della pensione maturata secondo il metodo contributivo (a condizione che il periodo di godimento corrisponda all’“effettiva” speranza di vita del beneficiario). La parte eventualmente eccedente è assistenza, indipendentemente da come è maturata o dal tipo di pensione”.
    Infatti, il calcolo del coefficiente di trasformazione nel contributivo avviene tenendo conto dei seguenti fattori:
    1) la probabilità di sopravvivenza dopo il pensionamento; 2) l’età del pensionamento; 3) la probabilità di morte tra un anno e l’altro per gli anni che vanno dal pensionamento; 4) l’età massima raggiungibile; 5) la probabilità di lasciare la famiglia nel periodo tra l’età del pensionamento e l’età massima; 6) la probabilità che il superstite sopravviva al pensionato e non divorzi; 7) la differenza di età tra il pensionato e il coniuge al momento del pensionamento; 8) l’aliquota di reversibilità; 9) la percentuale dell’aliquota di riduzione della reversibilità per motivi di reddito.

    Come si può osservare negli ultimi 3 punti, da 7 a 9, i contributi sono versati anche per il coniuge, quindi la reversibilità non è assistenza.

    • lallo

      Molto interessante la nota sui punti 7-9. Non ero al corrente di tali fattori che evidentemente cambiano di molto le carte in tavola.

  2. Henri Schmit

    Finalmente! Pieno accordo sui principi riassunti dall’autore. Da non esperto non ho dubbi che la reversibilità sia per definizione assistenza. Con un rischio crescente di “shopping” della prestazione (di cui parla anche l’autore): un/a giovane che sposa o si unisce civilmente ad un/a anziano/a con una bella pensione. Le pensioni di reversibilità non servirebbero, se ci fosse un concetto chiaro e una prestazione effettiva di pensione minima assistenziale, un’idea difesa da Tito Boeri, rivendicata con forza da un Landini e accettata pure da un De Nicola. La soluzione è molto più importante e più “giusta” del sussidio di disoccupazione perché senza effetto perverso di disincentivare la ricerca di un nuovo lavoro. Chi vuole e si può permettere di più, faccia un piano previdenziale separato con l’alto reddito del compagno o un’assicurazione vita. Un altro tema è il concetto dei diritti acquisiti: esiste una tendenza pseudo-liberale (la difesa dei diritti privati contro le pretese del potere pubblico) di garantire come diritto qualsiasi aspettativa economica. Serve al contrario un intervento con l’ascia: a tutte le prestazioni in corso si applicheranno dal giorno della nuova norma “d’ordine pubblico” o “di salvezza nazionale” le nuove condizioni ritenute più eque. Il principio dovrebbe valere per prestazioni pensionistiche e stipendi pubblici. O preferiamo che una minoranza sempre più grande rimanga senza niente per rispetto dei privilegi vitalizi di altri?

  3. antonio orazi

    Il discorso è corretto ma potremmo provare a guardare il fenomeno da un’altra angolazione: la contribuzione i.v.r. nasce in un tempo in cui era l’uomo il portatore, unico o principale, di redditi in famiglia mentre le donne facevano le casalinghe, quindi la reversibilità era perfettamente logica, anche tenendo conto dei figli minori.
    Oggi che le donne lavorano, almeno più di prima, e che si propugna un invecchiamento attivo la reversibilità di una volta non ha più molto senso.
    Bisognerebbe che la reversibilità fosse concessa soltanto a vedove anziane e senza altre fonti di reddito o, ma soltanto per un tempo limitato alla crescita dei figli o limitato ad un periodo congruo – 1, 2 o 3 anni – per consentire un ingresso/reingresso nel mondo del lavoro, per le vedove giovani (sotto i 50 anni).

    • lallo

      Il problema è più complesso. Per tutte le pensioni sotto i 1500€ (al nord la cifra necessaria è più alta) i pensionati non sono in grado di assicurarsi il pagamento di un assistenza professionale in caso di mancata indipendenza per motivi fisici o psicologici dovuti all’invecchiamento. E non esiste un welfare (i comuni in pratica non intervengono) per queste situazioni. Oggi la reversibilità aiuta le famiglie almeno nel sostegno dell’anziano più longevo. La discriminante dovrebbe essere il valore complessivo della pensione (reversibilità compresa). Tali pensioni andrebbero plafonate attorno ai 1500€\1800€ per quanto riguarda il contributo della reversibilità

  4. Massimo Antichi

    Le sfugge l’effetto del tasso di attualizzazione, solo quando il tasso è zero il divisore coincide con la speranza di vita. Nel calcolo dei coefficienti di trasformazione si tiene conto, eccome, dei superstiti. Inoltre, c’è sempre solidarietà anche nel caso “assicurativo pieno” che auspica, chi vive meno la media è solidale nei confronti di chi vive di più: nella previdenza si parla di rischio vecchiaia, appunto. Oppure c’è solidarietà di genere: le donne vivono più degli uomini. L’INPS non è una compagnia di assicurazione!
    Per fortuna.
    Mi dispiace ma il suo articolo è un contributo al qualunquismo.

    • Silvestro De Falco

      Certo che l’INPS è un’assicurazione. Usa anche le stesse tavole di mortalità delle società di assicurazioni e fa gli stessi profitti sulle rendite vitalizie. Solidarietà?

  5. Roberto Bellei

    Non sono un esperto della materia ma io ho sempre pensato che la reversibilità avesse un senso per le vedove che, dovendo accudire i figli, erano restate delle casalinghe e quindi, con la morte del marito sarebbero rimaste senza mezzi di sostentamento. Mi rendo conto che non è così ma ritengo assurdo che un marito,che abbia una pensione sostanziosa, debba avere anche la reversibilità in caso di morte della moglie pensionata. Qualcuno mi sa dire come funziona nelle altre nazioni dell’Europa?

    • Andy Mc Tredo

      Infatti: una volta se il marito sopravviveva alla moglie casalinga aveva diritto ad una reversibilità pari a 0 !
      Attualmente se il marito casalingo di una manager o di una giudice sopravvive alla moglie riceverà la pensione di reversibilità… ma a livello globale non cambia niente (avendo le donne statisticamente una speranza di vita maggiore degli uomini). Rendiamoci conto che il mondo è cambiato: la TV non è più un lusso, come il telefonino, come l’auto, come il cane. Forse solo il cavallo è di nuovo indice di ricchezza e capacità contributiva, ma sono comunque dell’idea che debbano essere tassati redditi e consumi, non il risparmio o gli investimenti o la detenzione di beni durevoli ….

  6. liliana palermo

    perché non parliamo delle TASSE sulle pensioni di reversibilità ? per le donne che hanno una pensione propria, la reversibilità è al netto il 40%….ma di che parliamo…

  7. MASSIMO GANDINI

    Sig. Antichi lei è sicuramente molto competente in materia, io però da profano noto che la solidarietà è sempre a favore dei soliti noti. Forse sarà anche qualunquismo ma a pare la sacrosanta verità

  8. Massimo Matteoli

    Segnalo che il Presidente dell’INPS Boeri il 17 Febbraio scorso ha dichiarato l’esatto contrario: “Nella proposta dell’Inps per la riforma del sistema previdenziale non c’era niente sulle pensioni di reversibilità. Per due ragioni: non c’è un problema di sostenibilità perché nel calcolo dell’importo si tiene già conto della speranza di vita del superstite, e perché è già stata fatta la riforma legata alla situazione reddituale del superstite.”
    Se a questo aggiungiamo che le pensioni di reversibilità sopra la soglia di € 32.623 per il 2016 (al lordo delle tasse !!!) sono ridotte già del 50%, cioè più dell’aliquota fiscale massima, mi sembra che di solidarietà questa gente ne faccia abbastanza.
    E siccome a pernsar male si fa peccato ma di solito s’indovina, mi pare evidente che al di là di tutti i discorsi (compreso quelli in buona fede come i Suoi caro Professore) la volontà del Governo sia di fare cassa a danno dei soliti noti.

  9. Davide Colombo

    Attenzione all’uso dei concetti: assicurare è diverso da assistere. Se io vivo più a lungo della mia attesa di vita statistica non beneficio di assistenza ma di previdenza, calcolata con coefficienti appositamente calibrati. Se io faccio due incidenti stradali invece che zero non sono “più assistito dalla mia rca auto a parità di premio pagato” ma sempre e solo assicurato. Se muoio un mese dopo essere andato in pensione mia moglie non è assistita ma assicurata da una pensione superstiti calcolata sulla base di coefficienti di trasformazione che calcolano anche il rischio di morte anticipata. La giustizia distributiva si esercita meglio con il fisco che con le pensioni perché si esercita su tutti i redditi e non solo su alcuni.

  10. Fabrizio Razzo

    Colgo l’occasione di questo dibattito per segnalare all’Egr. Prof. Boeri Presidente INPS, a seguito della sua ennesima uscita, che ci sono già numerosi politici che diffondono demagogia da quattro soldi, non si aggiunga anche lui.
    Dare in pasto genericamente all’opinione pubblica l’opportunità di andare e chiedere un contributo alle pensioni con importi elevati per solidarietà verso quelle per i giovani non è indice di seria e documentata analisi.

    Infatti come noto il sistema pensionistico è zavorrato da una rilevante componente assistenziale (indennità di accompagnamento, assegni di invalidità, sostegni al reddito, assegni sociali, indennizzi per cessazione attività, vitalizi, rendite , reversibilità, ecc. – vedere tabella INPS), in gran parte elargita dai politici nei decenni per assicurarsi maggior consenso anche a chi non ha alcun diritto, che non è giusto venga attribuita ai soli redditi pensionistici ma, eventualmente, a TUTTI i redditi (dipendenti, autonomi, professionisti, esercenti,ecc. – fiscalità generale).

    La sola componente previdenziale dovrebbe invece essere sostenuta dai contributi degli attivi ed erogata in proporzione a quanto versato: quindi eventualmente ricalcolo per TUTTI senza distinzioni !

    Grazie per l’attenzione.

  11. Andrea Chiari

    Come si risolve il problema del calcolo retributivi se andando indietro anche di non molti lustri l’entità dei contributi effettivamente versati non si conosce? Non sarebbe meglio un retributivo “penalizzato”?

  12. Fabrizio Razzo

    I contributi del settore privato sono dati disponibili. E’ lo stato che fino ad una certa data non dispone dei contributi dei propri dipendenti. Ed inoltre ha fatto confluire la loro gestione previdenziale – profondamente in deficit – in quella INPS alcuni anni fa. Perchè queste gravi carenze dovrebbero pagarle solo i pensionati che hanno versato i propri contributi regolarmente???

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