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Per chi gioca il Cda: per l’impresa o gli azionisti?

Il consiglio di amministrazione deve gestire una società nell’interesse di questa o degli azionisti? Perché talvolta divergono parecchio, in particolare nelle Opa. Il Cda deve essere una sorta di tutore con il compito di agire a vantaggio dell’impresa che non può decidere in proprio.

Cda tra interesse dell’azienda e quello degli azionisti

Un tema sfugge all’attenzione generale nonostante la grande importanza che ha per la corporate governance: nell’interesse di chi il consiglio di amministrazione deve gestire un’impresa?
La domanda è attuale, lo mostra la serie di scandali e malversazioni che, dopo aver distrutto la fiducia pubblica nel sistema finanziario, tocca ora anche le case auto, finora attente a fidelizzare i clienti.
Il codice civile non detta i fini dell’azione del cda; per giurisprudenza e dottrina stella polare è l’interesse sociale, ma questo può essere inteso come interesse degli azionisti nel loro insieme, ovvero dell’impresa in sé. I due in genere coincidono, ma in alcuni casi divergono, anche molto.
Si pensi all’offerta pubblica di acquisto (Opa), che la teoria vede come occasione in cui gli azionisti incassano il valore vero dell’impresa; in futuro sarà gestita da mani migliori, che per tale abilità possono offrire un prezzo più alto del mercato. Così pareva anche a chi scrive, ma, dopo le prime Opa in cui giganti Usa in letargo venivano messi alla frusta dell’efficienza, ne sono fioccate altre in cui l’impresa è caricata di debiti, il risparmio fiscale sui quali è vero motivo dell’operazione. Altro che maggiori efficienze. L’esercizio è poi ripetuto finché la “preda” stramazza al suolo.
È perciò grande la responsabilità del cda nel raccomandare agli azionisti se aderire all’Opa; è uno di quei momenti in cui l’interesse dell’impresa in sé e quello degli azionisti possono divergere, e molto. Il cda non deve subire né la pressione degli azionisti a monetizzare, né quella del management a restare in sella, ma valutare se l’impresa sarà più sana e vitale nella nuova combinazione o no. Un’offerta che valorizzi bene un’impresa profittevole, magari per acquisirne il mercato e chiuderla integrandola in una divisione dell’offerente, fa sicuramente l’interesse dei soci, che finiranno la partita con abbondante profitto; ma per l’impresa non sarebbe meglio restare autonoma? Martin Wolf, commentatore del Financial Times, si chiese, durante la battaglia per un’Opa (sulla farmaceutica Astra Zeneca), se la sorte d’una grande impresa strategica per il Paese andava decisa da chi magari ha comprato i titoli ieri e li venderà domani.
In particolare sotto Opa, il cda deve identificare l’interesse dell’impresa, a tutela del quale sarebbe bene che nessuno al suo interno, tanto meno il Ceo, realizzasse stock option o forme analoghe; ciò andrebbe rinviato a quando il tempo avrà mostrato se la combinazione nata dall’Opa ha avuto davvero successo. Sarebbe anche opportuno che il (o la) Ceo non partecipasse alla decisione sull’Opa; che salga a bordo della nuova nave, o che resti a terra, sarà comunque in conflitto di interesse.

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Un tutore per l’impresa

Quale deve dunque essere la stella polare del cda? Con la “riscossa liberista” degli anni Ottanta s’è imposta negli Usa la teoria del valore per l’azionista, per cui scopo dell’impresa è remunerare i suoi azionisti: più lo fa, con ogni mezzo lecito, meglio è. Anche per il Codice di autodisciplina di Borsa Italiana, il consiglio di amministrazione ha come “obiettivo prioritario la creazione di valore per l’azionista nel medio-lungo termine”. Pur nella recente attenzione per gli stakeholder, il postulato, figlio del grande spostamento di ricchezza (e potere) dal lavoro al capitale degli ultimi trenta-quaranta anni, non arriva a contestare in radice la teoria del valore per l’azionista.
Lo fa invece Lynn Stout, docente alla Cornell University, nel suo The Shareholder Value Myth, Berrett Keohler Publications, del 2012, ove sostiene, citando pronunce di corti Usa, in particolare del Delaware, che gli azionisti non sono padroni dell’impresa, ma solo detengono certi diritti: soprattutto quello di nominare (su proposta del cda uscente) il cda, che fissa, lui, il dividendo. Il capitale può vedersi come cuscinetto di fondi a garanzia dei creditori, quasi fosse una polizza assicurativa. Oltre certe dimensioni, il rilievo dell’impresa nella comunità le dà vita propria. Il cda agisce allora in nome di un soggetto che non può decidere in proprio; l’impresa è come una comunione di beni, priva di “testa” ma non di interessi propri, come un minore, che il cda, tutore, non può subordinare ad altri.
Si può obiettare che l’interesse dell’impresa è stiracchiabile come si vuole. Vero, ma lo è anche quello dei soci. Chi mai investirà nelle imprese, infatti, se non ne è padrone, ma solo titolare di pochi, precisi diritti? Vero, ma gli investitori non fuggono spaventati dalle corti del Delaware che applicano quei principi. Nessuna norma può garantire che il cda/tutore adempia ai propri doveri, ma fissarli può, forse deve.
Qui si vorrebbe solo aprire un serio dibattito sulla distinzione fra l’interesse dell’impresa in sé e quello dei soci, e sul ruolo in materia del consiglio di amministrazione; secondo chi scrive, deve discernere con cura fra i due e, oltre certe dimensioni il ruolo dell’impresa nella società richiede di privilegiare il primo. Per un non giurista, come chi scrive, passare a più dettagliati suggerimenti pratici sarebbe fuori luogo dettagliati suggerimenti pratici sarebbe fuori luogo.

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  1. sandro sandri

    Le argomentazioni di Bragantini non rispondono a mio avviso a tre domande 1. Come si sa le imprese, come tutte le organizzazioni, sono fatte di uomini e contratti. Quando si parla di “impresa in sè” di chi si parla? Non si corre il rischio di parlare solo di manager? 2. Fra i vari stakeholder gli azionisti sono quelli meno protetti dal punto di vista contrattuale. I loro diritti sono residuali e di fatto non hanno diritto a ricevere un dividendo. 3. Esprimere l’obiettivo dell’impresa in termini di creazione di valore per gli azionisti ha un merito storico. Considerare cioè tutti gli azionisti nello stesso modo, indipendentemente dal fatto che siano azionisti di maggioranza o di minoranza. Proteggere l’impresa in sè nella storia italiana è stato proteggere solo gli interessi degli azionisti di maggioranza. Molti takeover, lo si sa, hanno caricato troppo di debiti le imprese target. Il debito gode di eccessivi vantaggi fiscali e si dovrebbe lavorare per ridurre tale vantaggi, limitado la deducibilità degli interessi e diminuendo l’aliquota di tassazione dei profitti.

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