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Tutti i limiti delle primarie

Molti le considerano il meccanismo ideale per selezionare i candidati alle elezioni generali e locali, ma le primarie non “sconfiggono” il ceto politico professionale. Tentano semmai di rinvigorire l’immagine dei partiti, da tempo logorata in tutta Europa. Partiti e regole standard per utilizzarle.

Al voto militanti e non

L’opinione pubblica italiana è sempre più convinta della necessità di espandere le primarie quale meccanismo di selezione degli eletti; tuttavia, molto spesso si dimentica quali siano i rovesci della medaglia.
I fautori delle primarie – genericamente intese – ritengono che possano rendere i partiti più fluidi e quindi meno ancorati alle loro strutture. Questo è vero solo a patto di identificare (erroneamente) il partito con i corpi intermedi che lo compongono. Non è però un assunto generalizzabile.
Se e solo se le primarie sono “aperte”, un meccanismo di selezione diretta indebolisce fortemente i “filtri” (come sezioni, meet-up, circoli), favorendo un rapporto diretto tra candidato e militanti o simpatizzanti.
Tuttavia, nel corso delle campagne elettorali la capacità di mobilitazione dei partiti resta ancora centrale, per lo meno nei livelli istituzionali intermedi (comuni e regioni e finanche per il Parlamento): eppure l’attivismo degli iscritti può affievolirsi se a ogni elezione la voce di chi milita è equiparata a quella di chi non milita. E nel momento della campagna elettorale può rivelarsi un costo elevato da affrontare, specie nelle elezioni locali, dove il margine di voti necessario alla vittoria è meno ampio.
In questo senso, le primarie “mobilitano smobilitando”. Mobilitano nel breve periodo un elettorato passivo – se non indifferente – rispetto alla politique politicienne, con il rischio però di smobilitare nel lungo quello più attivo. Spesso si dimentica, infatti, che i costi personali di ogni singolo militante in una campagna elettorale “permanente” sono di difficile sostenibilità.
Sempre tenendo come base per il ragionamento le primarie aperte, si dovrebbe attentamente riflettere anche sull’ampiezza del suo utilizzo. È uno strumento valido per ogni tipo di elezione? A parte le differenze tecniche e di capacità di mobilitazione del potenziale elettorato, la partecipazione alle “parlamentarie” del Movimento 5 Stelle e del Pd è stata relativamente bassa. E non è un caso: le elezioni primarie che non mostrano una differenza di prospettiva sul futuro partito e sulle future azioni di governo, ma che si limitano a stabilire una graduatoria di ingresso in una lista, sono poco appetibili per una ampia platea.
Questo porta a due potenziali effetti. Il primo è che quando i partiti utilizzano lo strumento delle primarie come un fine (la partecipazione in sé), il rischio è l’over-stretching: si allarga troppo l’orizzonte, finendo per inflazionarne l’uso agli occhi dell’elettore.
Il secondo effetto è consequenziale al primo: una minore partecipazione, significa un numero minore di voti per vincere e un maggior peso delle varie forme di patronage.

La legittimazione dei vincitori

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Una bassa partecipazione presuppone il rischio che coloro i quali possono mobilitare (o controllare) un determinato numero di elettori, riescano a far pesare il proprio supporto, alimentando pratiche clientelari. Così in una potenziale lista bloccata e in circoscrizioni sicure è sufficiente mobilitare i “fedeli” per vincere le primarie, dopodiché la campagna elettorale paradossalmente passa in secondo piano per chi è posto in cima alla lista bloccata.
Per ciò che concerne le primarie chiuse – specie per l’elezione di una carica partitica come il segretario o il portavoce – il rischio è quello di istituzionalizzare un antico meccanismo di lotta tra correnti, limitando la competizione a una “conta” delle fazioni. Anche qui, i fattori positivi sono stati spesso elencati, ma se le primarie dovessero sostituire lo strumento congressuale, svuotandone ancor più il significato di assise deputata a ragionare sull’ideologia e a permettere la rendicontazioni delle attività di governo od opposizione degli eletti, allora si svincolerebbe la leadership del partito dal legittimo diritto di critica.
È tuttavia necessario evidenziare anche un altro punto: il meccanismo di legittimazione di un candidato attraverso le primarie non rende necessariamente più aperta la classe dirigente. Le primarie ampliano le tornate di voti, ma non la platea dei leader.
Come parte della letteratura accademica spiega, le primarie non “sconfiggono” il ceto politico professionale. Tentano al contrario di rinvigorire l’immagine dei partiti, da tempo logorata in tutta Europa. Con regolarità, alle primarie emerge come segretario o candidato premier o presidente un leader che è parte integrante del ceto politico (Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Ségolène Royal, François Hollande, Ed Miliband, Jeremy Corbyn), a cui viene affiancato un coacervo di professionisti e di politici che hanno appoggiato la candidatura vincente.

Evitare le soluzioni ad hoc

In conclusione, si può dire che un uso estensivo delle primarie, pur con qualche punto di forza, ha diverse controindicazioni. I partiti dovrebbero prevedere standard uniformi su come utilizzarle: aperte o chiuse, di coalizione o di partito, con un voto ponderato o con una testa un voto, per quali cariche e per quali sistemi elettorali (in caso di sistema con preferenze, sarebbe dispendioso fare anche una campagna sulle primarie prima), per quale tipo di elettorato (ad esempio, per l’elezione del sindaco in comuni capoluogo delle aree metropolitane). Molto spesso, invece, si pensa a soluzioni ad hoc e con una prospettiva sul brevissimo termine.
Al di là delle scelte tecniche – purtroppo molto poco discusse, essendo la forma anche la sostanza in questo caso– sarebbe un errore pensare che lo strumento assolva al fine di rendere migliore la classe dirigente dei partiti. Da un lato, le primarie potrebbero certamente indebolire il ceto dei “funzionari”. Dall’altro, però, non rendono i dirigenti più a rischio di emarginazione dal partito. Al massimo, rafforzano le leadership nei diversi livelli organizzativi. E questo non è detto che sia sempre un bene.

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  1. Henri Schmit

    Bellissimo articolo! uno dei rari articoli intelligenti sulla logica elettorale! Le primarie sono la prima parte di elezioni indirette. Essendo fino a ordine contrario perfettamente private e arbitrarie (nonché chiuse come giustamente sottolinea l’autore) sono una gravissima violazione dei diritti elettorali individuali. Ricordiamocelo: i diritti elettorali sono individuali, almeno secondo la dottrina del costituzionalismo liberale, comunemente accettato diciamo da Locke 1690 a l’altro ieri. Come tali devono rispettare le tre libertà espressamente sancite nella bellissima costituzione italiana: libertà dei candidati (art. 51), libertà degli elettori (art. 48) e libertà degli eletti (art. 67). Contesto una sola cosa al bravissimo autore: non servono studi accademici per capire o dimostrare questo, basta un’intelligenza media e una buona dosi di onestà intellettuale, merce assai rara.

  2. Bruno Perin

    Le primarie sono state una coraggiosa risposta alla crisi dei partiti. Come ogni formula di partecipazione, tutto può essere strumentalizzabile ai fini di interessi particolari o corporativi. Lo era nei congressi di partito come nelle primarie. La crisi dei partiti di fine anni “70 corrispondeva alla crescita progressiva della scolarità e quindi della consapevolezza di voler determinare direttamente le decisioni senza delegarle ad un partito, un sindacato, ad una struttura religiosa. Come in tutti i casi, anche le primarie non devono essere considerate come una soluzione assoluta ma come una delle forme di partecipazione che, con le altre , convivono in democrazia.

  3. Henri Schmit

    ADDENDUM: L’andamento delle primarie americane conferma forse più la mia analisi che le interessanti critiche dell’autore, perché il probabile successo dell’outsider Trump sconfiggerebbe gli interessi del ceto politico professionale. La selezione del candidato da una minoranza attiva del partito, o intorno al partito, spesso (in Italia) determinata in base a regole private ed arbitrarie decise all’ultimo momento e cambiate di volta in volta (negli USA esistono invece regole pubbliche, ma diverse da stato a stato), apre la strada a scelte 1. casuali, 2. estreme e 3. manipolate. La tendenza alla radicalizzazione della scelta del candidato non è nuova con Trump; i democratici avevano lo stesso problema dopo Kennedy e Johnson. La casualità della scelta salta agli occhi e rischia di compromettere l’esito finale per i partito interessato. La possibile manipolazione è il principale rischio delle procedure elettorali; aumenta in modo esponenziale con primarie reinventate di volta in volta. La soluzione “giusta” sono il doppio turno, versione semplificata del voto ordinale o preferenziale; con liste la soluzione “giusta” (meno esposta ai rischi manipolativi) consiste in piccole circoscrizioni e in un voto unico che vale sia per il candidato sia per la lista.

  4. Henri Schmit

    Secondo ADDENDUM dopo le primarie per le amministrative: 1. ogni elezione primaria è un fatto positivo nella misura in cui favorisce il (benché limitato) dibattito pubblico e la selezione (non aperta quindi manomessa) dei candidati; 2. ogni procedura elettorale è (più o meno) manipolabile (teorema di Arrow, 1951); 3. le peggiori procedure elettorali sono quelle inventate di volta in volta ad hoc poco prima dell’elezione con lo scopo di ottenere un risultato predefinito; 4. le procedure primarie USA sono fisse, predeterminate, ma molto variegate e tutte più o meno partito-dipendenti (più o meno chiuse; esistono varie tipologie); 5. le procedure ora utilizzate in Italia riuniscono tutti i difetti finora menzionati; 6. sarebbe preferibile una procedura elettorale pubblica, fissa e decisa in ampio anticipo con un minimo di neutralità rispetto al risultato contingente desiderato; 7. una buona soluzione potrebbe essere un voto ordinale o un doppio turno (uni-, bi- o tri-nominale), delle soluzioni che rendono le primarie superflue o meno determinanti e quindi meno manipolative.

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