Accantonati negli ultimi tempi, tornano di attualità i tagli alla spesa pubblica. Vanno infatti recuperati soldi per disinnescare le clausole di salvaguardia e per rispettare la decisione della Corte costituzionale sull’adeguamento delle pensioni. I paradossi dei costi standard.
Miliardi da recuperare
Il tema dei tagli alla spesa pubblica è di nuovo sul tappeto, dopo essere stato di fatto un po’ accantonato negli ultimi anni, anche per evitare di deprimere ulteriormente un’economia già in crisi. Ma ora i problemi si ripresentano con forza. Non c’è solo il problema della decisione della Corte costituzionale sul mancato adeguamento degli assegni pensionistici, che rischia a regime di costare 8-9 miliardi di euro. C’è anche la necessità di recuperare 10 miliardi entro il 2015 per evitare lo scatto delle clausole di garanzia, che porterebbe a inasprimenti per imposte, accise e Iva. E c’è da mantenere il controllo sulla spesa negli anni successivi, per rispettare i vincoli previsti dagli accordi europei. Come farlo, è un grosso problema.
In difesa di Monti
Se rimane la scelta politica di non intervenire ulteriormente sulle pensioni, il problema può diventare insolubile. Sia per il livello raggiunto dalla spesa pensionistica, sia perché, nonostante la legge Fornero, le previsioni sulla sua dinamica continuano a essere non in linea con il percorso richiesto per il controllo della spesa complessiva. D’altra parte, come mostra la stessa decisione della Corte, il sistema pensionistico non è un oggetto su cui si possa intervenire in modo episodico. Per esempio, la decisione del governo Monti di bloccare l’adeguamento degli assegni pensionistici superiori a tre volte il minimo per un biennio, ora dichiarata incostituzionale e criticata da tutti, non era in realtà priva di razionalità economica.
Come ha spiegato Vincenzo Galasso , il problema delle pensioni in essere, calcolate con il vecchio sistema retributivo, è la loro eccessiva generosità rispetto ai contributi versati, in contrasto con quanto avviene con il nuovo sistema contributivo. Ma anche ammesso di volerlo fare, non ci sono le informazioni per ricalcolare sulla base del nuovo sistema contributivo le pensioni in essere e ogni intervento ad hoc scatenerebbe un’ondata di ricorsi con risultati facilmente immaginabili. In tutti i casi, la stragrande maggioranza degli attuali assegni pensionistici è di livello assai basso e nessun governo potrebbe decidere di intervenirvi a cuor leggero.
In questa situazione, la decisione del governo Monti di bloccare l’adeguamento all’inflazione solo per le pensioni superiori a un certo livello, rappresentava una soluzione di second best a un problema altrimenti difficilmente affrontabile. Avrebbe riequilibrato un po’ l’eccessiva generosità del sistema, evitando di colpire le pensioni più basse. Oltretutto, in un’ottica più ampia, bisognerebbe anche riflettere sulla razionalità di un sistema che isola completamente una parte della società, i pensionati, dai rischi del ciclo economico, concentrandoli invece sulle altre componenti della società. Con la crisi, i redditi reali di molte categorie si sono ridotti, mentre per i pensionati, protetti dall’adeguamento all’inflazione, sono rimasti invariati. Non è un caso, per esempio, che la quota dei redditi da pensione sui centili più alti della distribuzione dei redditi sia fortemente cresciuta negli anni della crisi. Ma evidentemente queste considerazioni non hanno avuto effetto sulle decisioni della Corte costituzionale, che ragiona sulla base di altri criteri.
Problematicità dei costi standard
Tolte le pensioni, il nuovo mantra del governo per gli interventi sulle restanti componenti della spesa pubblica è quello dei costi standard. L’idea è che standardizzando e riportando la spesa delle unità più inefficienti a quelle più efficienti – si tratti di scuole, tribunali, Asl, ospedali o enti locali – si possa risparmiare, mantenendo nel contempo un livello efficiente nei servizi. Tutto giusto in teoria, più complicato in pratica.
Come si calcolano i costi standard è infatti tutt’altro che ovvio, e spesso giudizi normativi impliciti, presi non si sa bene da chi, finiscono dentro l’apparente oggettività delle stime.
Si prenda per esempio l’attuale proposta del ministero dell’Economia su come redistribuire i 900 milioni di tagli a province e città metropolitane nel 2015, sviluppata dai tecnici della Sose. Invece, di ripartire il taglio nel solito modo lineare, viene distribuito tra gli enti sulla base di una stima della capacità tributaria potenziale massima di ciascuna provincia e della spesa potenziale standard per i servizi che restano in capo alle province. In sostanza, si taglia di più a chi in teoria può tirar su più soldi portando le tasse provinciali al massimo, e di meno a chi deve spendere di più. È una metodologia convincente? Mica tanto.
Far pagare di più a chi ha potenzialmente più soldi per compensare il taglio può rispondere a una logica di perequazione, ma c’entra ben poco con l’efficienza. Se gli enti locali più ricchi sono anche più efficienti, vengono penalizzati in quanto ricchi anche se sono efficienti. E le ipotesi di spesa standard non sono basate su stime di efficienza relative alla qualità dei servizi effettivamente offerti (non ci sono informazioni per farlo), ma sulla base di stime sulle determinanti della spesa potenziale. Dunque, è possibile che una provincia che spende male, ma che deve spendere molto, sia meno penalizzata di una provincia che spende bene, ma deve spendere poco.
Infine, tutto l’esercizio avrebbe senso se qualcuno, da qualche parte, avesse calcolato che in effetti province e città metropolitane per offrire in maniera efficiente le funzioni residue se la possono cavare bene con 900 milioni in meno. Ma siccome questo conto non lo ha fatto nessuno – e i 900 milioni sono stati determinati su basi del tutto diverse, per esigenze di bilancio -, l’intero ragionamento è di fatto poco sensato.
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