Una diagnosi sbagliata sulla stagnazione secolare porta a conclusioni di policy altrettanto sbagliate. Proviamo a correggere il tiro: questo non è il momento per il consolidamento fiscale, ma è quello per la politica espansiva. Un riequilibrio all’interno della spesa è però possibile e utile.
BASSA CRESCITA PER SEMPRE?
L’articolo di Paolo Mauro parte da una interpretazione errata di cosa sia la “stagnazione secolare”. Secondo Mauro, la stagnazione secolare coinciderebbe con una lunga fase di rallentamento del tasso di crescita potenziale. Non importa – prosegue Mauro – se determinato inizialmente da carenza di domanda aggregata o da problemi di offerta (fattori tecnologici, demografici o intoppi burocratici). Tanto, col tempo, il calo della domanda dovuto a bassi investimenti si traduce in “macchinari obsoleti e minor crescita della produttività”, quindi in limitazioni dal lato dell’offerta.
La conseguenza di policy è che non potremo più permetterci i servizi forniti dallo stato nel passato se non aumentando ancora la pressione fiscale o lasciando crescere in modo esplosivo il rapporto debito/Pil. Quindi le economie avanzate devono ridurre il rapporto tra la spesa pubblica complessiva e il Pil “riconoscendo che non siamo più ricchi come pensavamo” e cambiare la composizione della spesa a favore degli investimenti che favoriscono la crescita.
COSA È (DAVVERO) LA STAGNAZIONE SECOLARE
Come dice Paul Krugman, “per favore non confondiamo le questioni. Questa non è un cavillo accademico; stiamo cercando di capire cosa ci fa star male e dire che la pressione alta e la pressione bassa sono più o meno la stessa cosa non è per niente utile”.
Da quando Alvin Hansen avanzò l’ipotesi della stagnazione secolare nel 1938 (quasi al termine della grande depressione in America) a quando è stata ripresa da Laurence Summers e da altri, era ed è chiaro che la stagnazione secolare non coincide con un permanente declino del tasso di crescita potenziale, dell’economia.
Tutt’altro: è definita come una situazione in cui il tasso di interesse reale “naturale” a breve termine, cioè quello compatibile con un’economia che cresce al suo potenziale, è negativo per un lungo periodo di tempo perché il risparmio aggregato è alto, mentre l’investimento aggregato è basso. Ma allora il limite inferiore pari a zero per il tasso nominale di interesse è un problema serio perché, insieme a una bassa inflazione, impedisce di far diventare il tasso di interesse reale sufficientemente negativo. Soprattutto se le banche centrali non rivedono (credibilmente) verso l’alto i loro obiettivi di inflazione. E devono ricorrere al quantitave easing, la cui efficacia sembra affidata più che altro al deprezzamento del cambio. La riduzione della popolazione in età da lavoro (causata dal rallentamento delle nascite) peggiora le cose perché riduce ulteriormente la domanda di investimenti e quindi deprime ulteriormente il tasso di interesse reale “naturale”, così come fa anche una crescita della disuguaglianza che comporti una riduzione della spesa aggregata per consumi (un euro in più guadagnato dai poveri è speso per intero o quasi, un euro in più guadagnato dai ricchi è risparmiato per intero o quasi).
È LA DOMANDA, BELLEZZA!
La stagnazione secolare, in linea di principio, è compatibile con un tasso di crescita potenziale che non si riduce. Significa solo che l’economia può rimanere intrappolata per un lungo periodo in una situazione di crescita inferiore al potenziale. Se poi, come dice Mauro (e sono d’accordo), anche quest’ultimo si riduce, rimane il fatto che all’origine c’è un deficit di domanda, magari innescato da un processo di riduzione dei debiti privati che si erano gonfiati nella fase di espansione, prima del 2008. E quindi le soluzioni, raccomandate anche dai pochi rigorosi modelli teorici dedicati al tema (come quello di Gauti Eggertsson e Neil Mehrotra, 2014) non consistono nel fare aumentare il tasso di crescita potenziale mediante riforme dal lato dell’offerta – che rischiano anzi di accentuare le tendenze deflazionistiche e quindi generare aspettative di ulteriore recessione – ma nel cercare di stimolare la domanda senza timidezze e in modo coordinato tra paesi. Solo così si può sperare di far crescere l’inflazione e di far scendere in tempi brevi il tasso di interesse reale al suo valore “naturale”, riportando così l’economia al tasso di crescita potenziale. Solo dopo aver raggiunto questo obiettivo bisognerebbe preoccuparsi seriamente del consolidamento fiscale. Del resto, con tassi reali negativi il peso del debito pubblico si riduce e quindi preoccupa un po’ meno.
LA SPENDING REVIEW SERVE COMUNQUE
La conclusione di Mauro – secondo cui “la riduzione della spesa pubblica a livelli coerenti con una crescita economica più modesta sarà una delle sfide che caratterizzeranno il prossimo decennio” –nasce da una diagnosi sbagliata di cosa è e da cosa origina la stagnazione secolare. Ma mantenere o addirittura accrescere la spesa è perfettamente compatibile con una seria e approfondita spending review. Sono d’accordo con Mauro che cambiare la composizione della spesa, oltre a ridurre sprechi e corruzione, è utile a migliorarne gli effetti macroeconomici, anche se oggi interessano molto di più gli effetti moltiplicativi di breve e medio periodo (differenti da spesa a spesa e molto più alti nelle fasi di stagnazione) che quelli sul tasso di crescita potenziale. Se, per esempio, in Italia riuscissimo a far costare le infrastrutture come in Francia o Spagna, potremmo farne molte di più (e in meno tempo) a parità di spesa, aumentando quindi l’impatto sull’occupazione e sul Pil di ogni euro speso. Se poi facessimo anche infrastrutture economicamente e socialmente utili, sarebbe ancora meglio.
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