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Contrordine: il turismo torna un affare di stato

Le riforme costituzionali approvate in prima lettura dalle Camere cambiano di nuovo la potestà in materia di turismo, quattordici anni fa attribuita in esclusiva alle Regioni e da allora gestita in ordine sparso. Ma non è detto che sia una buona notizia per la promozione della “marca Italia”.
IL TURISMO FRA PERCENTUALI BULGARE E TEMPI BIBLICI
Le modifiche costituzionali approvate in prima lettura dalle Camere cambiano di nuovo la potestà in materia di turismo, attribuita in esclusiva alle Regioni quattordici anni fa, e da allora gestita in ordine sparso. Ma non è detto che la toppa sia migliore del buco, soprattutto per quanto riguarda infrastrutture, standard di offerta e promozione della “marca Italia”.
Perché non abbiamo un ministero? In Italia il ministero del Turismo e dello spettacolo (sic) era stato istituito nel 1959 ed è stato abolito con referendum popolare nel 1993. Così volle l’82,3 per cento dei votanti, rispetto a una affluenza del 76,9 per cento degli aventi diritto: numeri “bulgari”, a confronto con l’attuale latitanza degli elettori dai seggi. L’Italia non ha un ministero del Turismo perché il popolo sovrano lo ha deciso con voto plebiscitario.
Prima di quella data, nel 1983, una legge quadro di settore aveva definito i principali assi di evoluzione del turismo italiano, dettando anche le prescrizioni a carico delle Regioni, alcune delle quali non vi si sono mai adeguate. E questo è un altro elemento, non certo marginale, che va ricordato.
Il 2001 è l’anno di svolta: dopo 58 mesi di iter parlamentare, ormai alla conclusione del mandato di governo del centro sinistra, con la legge 135 del marzo 2001 vide la luce una nuova legge quadro.
Ma nel frattempo le regioni erano diventate “autonome”, in virtù della riforma costituzionale del 18 ottobre, favorita dal montante clima separatista/federalista.
La legge 135 non era però riuscita a ridefinire la governance della promozione, avendo stralciato la riforma dell’Enit, e aveva rinviato le principali questioni a un momento successivo. Nel 2002, con quattordici mesi di ritardo sul previsto, lo Stato e le regioni sembrarono trovare finalmente un accordo.
I tempi biblici, oltre alle percentuali bulgare, sono la cifra di quel periodo.
Perché questo ritardo? Perché le regioni non facessero “saltare il banco” della legge 135, appellandosi alla Corte costituzionale. La legge, infatti, prescriveva che l’accordo affrontasse undici questioni, relative a definizioni, standard, eccetera, ma le regioni non ne volevano sentir parlare.
L’accordo del 2002 così faticosamente raggiunto affrontava sì le undici questioni, ma per ben undici volte ripetendo la vuota formula “Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano concordemente definiranno…”.
In altre parole, le Regioni riaffermarono punto per punto la loro piena ed esclusiva titolarità in materia, e sostennero che delle questioni cruciali si sarebbero occupate se e quando ne avessero avuto voglia, il che non è mai accaduto.
IL FUTURO DOPO QUATTORDICI ANNI IN ORDINE SPARSO
Il seguito è caos: senza una guida statale, e senza riuscire a darsene una propria condivisa, alcune regioni si sono dotate di efficienti sistemi di gestione, di marketing e tecnologici, innovati e affinati di continuo, e con successi tangibili. Altre non sono neppure riuscite a riformare e ad adeguare le strutture precedenti la legge quadro del 1983, e i risultati di mercato sono stati purtroppo conseguenti.
La prospettiva attuale ricorda la scena finale del film “Prova d’orchestra” di Federico Fellini, quando una immensa palla nera demolisce la sala in cui gli orchestrali si autogestiscono generando uno sterile bailamme.
Con la contro-riforma già votata in prima lettura dai due rami del parlamento (8 agosto 2014 al Senato, 10 marzo 2015 alla Camera) lo Stato si riappropria della legislazione esclusiva in tema di “disposizioni generali e comuni (…) sul turismo” nonché su altri campi connessi, come “infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione (…) porti e aeroporti civili, di interesse nazionale ed internazionale”.
Tre appaiono allora i probabili campi di intervento statale, “a gamba tesa”, su quanto le regioni avrebbero potuto ma non hanno ritenuto di fare.
Primo, promuovere, tutelare e sostenere il patrimonio costituito dalla “marca Italia” (notorietà, reputazione, desiderio e così via) che non è solo turistica, ma riguarda l’identità e i modi di vita, le persone, i prodotti e le imprese, e che costituisce un immenso valore aggiunto anche e proprio per il turismo. Peccato che in questa materia manchi ancora quel referente unico, efficiente e autorevole, che magari avrebbe potuto nascere dall’integrazione tra Ice, Invitalia ed Enit, se non si fosse deciso anche questa volta di “stralciarlo”.
Secondo, creare una classificazione nazionale delle imprese e delle strutture ricettive, che dovrà però giocoforza integrarsi con i sistemi di valutazione privati online (le recensioni, i contenuti generati dagli utenti, lo storytelling, per esempio).
Terzo, regolamentare l’assurda competizione tra aeroporti e porti, che provoca una emorragia diffusa e incalcolabile di risorse pubbliche, impegnate a farsi concorrenza tra loro, magari a vantaggio di vettori e operatori non tassati in Italia. Ma questa, per quanto turisticamente basilare, resta materia estranea alla governance del settore.

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  1. bob

    Egregio Landi
    servirebbe una Bibbia per rispondere al suo articolo punto per punto. Ma poi pensandoci bene e avendo vissuto altri felici momenti di questo Paese basta una constatazione. Esiste nel mondo Occidentale un Paese che affida ad un clan il Ministero delle Riforme? A me non risulta! Questo ha fatto il nostro Paese ! Potremmo parlare delle spassose e costose figure dei “Governatori” ( mi immagino il lo scombisciarsi dalle risate del Governatore del Texas paragonato al ” Governatore” del Molise). Potremmo parlare dei mille aereoporti deserti. Ci potremmo immaginare le figure ” caprine e provincialotte” del ” Governatore del Friuli piuttosto che della Basilicata che cerca di convincere il turista americano a visitare in eslusiva il suo territorio, loro che sono abituati per mentalità a considerare a malappena l’ Europa. Il Paese ha perso memoria e di solito le tragedie sono la cosa che ci dobbiamo aspettare

  2. Cesare

    Mi permetto di dissentire dal basso della mia incompetenza specifica.
    Se la costituzione “costituisce”, appunto, o impianta dei principi, generali e vincolanti per lo Stato, la riforma di competenza turistica ha senso ed è il principio della risoluzione dei problemi da lei elencati.
    È il turismo risorsa strategica nazionale? Sì. Richiede una governance unificata? Secondo me sì.
    Quanto sarà più semplice dopo la riforma dirimere i problemi di conflitti, sovrastrutture e competizioni interne in materia di turismo (offerta, territorio, trasporti ecc…)? Secondo me sarà più semplice e più economico dell’attuale inefficiente moltiplicazione (per 20 regioni) di sforzi e risorse.
    Il caos da Lei descritto è corrente, non prospettato.
    cordialmente

  3. Lorenzo

    Sarà stato per una combinazione fortunata o per la caparbietà di una amministrazione eletta dieci anni fa a guidare la Puglia, ma ora con orgoglio siamo fra i primi in Italia.
    Frai primi anni 2000 e oggi, i turisti sono più che raddoppiati, sia i nazionali e sia gli stranieri. L’agenzia regionale di promozione turistica ha di fatto costruito un brand che prima non esisteva. Alcune regioni ne hanno fatto un case history (se avessero fatto tutte così avremmo avuto un Italia più competitiva) e si sono promosse altrettanto bene.
    Non so se il ritorno al passato ci farà bene o no, ma questi anni vissuti in quella che è stata definita Apulia Felix, ci rimarranno per sempre in mente.

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