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Sul rating di legalità non tornano i conti

Tra gli strumenti premiali di lotta alla corruzione figura il rating di legalità per le aziende. Che però non ha dato i risultati sperati. Anche perché si è intrecciato con altre misure, finendo per essere un onere senza vantaggi tangibili per le imprese. Come renderlo efficace.
IL RATING DI LEGALITÀ PER FERMARE LA CORRUZIONE
L’Italia è percepita come un paese a elevato rischio di corruzione: il Corruption Perception Index di Transparency International lo dimostra annualmente, le cronache degli scandali nazionali ne forniscono frequenti conferme. La difficoltà nel misurare l’impatto del fenomeno sulla crescita dell’Italia con “criteri univoci sulla base dei quali elaborare credibili stime quantitative” passa così in secondo piano rispetto alla necessità di contrastarlo, tanto più se si considera che “assume dimensioni e un perimetro ben più ampio che in altri paesi sviluppati”.
I comportamenti illegali e, soprattutto, le interferenze delle organizzazioni criminali con l’attività di impresa, specie in alcuni settori, ostacolano il corretto funzionamento del mercato concorrenziale e lo sviluppo di un’economia sana. Poiché l’approccio repressivo al malaffare non è risultato idoneo a una deterrenza effettiva, di recente gli sono stati affiancati strumenti di tipo premiale, mirati a sostenere concretamente chi svolga un’attività imprenditoriale improntata al rispetto di regole etiche e di normative specifiche, nonché a incentivare un’emancipazione culturale verso comportamenti virtuosi, atti a determinare positive ricadute reputazionali in quanto oggetto di pubblico riconoscimento. In particolare, con la previsione del rating di legalità (art. 5-ter decreto legge 1/2012) il legislatore ha inteso attribuire vantaggi a imprese che operino in conformità a legge, sostenibilità ed etica, in sede di accesso al credito bancario e ai finanziamenti delle pubbliche amministrazioni, agevolandone così la competizione con le aziende che si collocano nell’area grigia dell’illegalità.
Il regolamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (modificato dalla delibera n. 24953/2014, di recente in consultazione per nuove modifiche) ha introdotto un sistema di valutazione basato sull’assegnazione di un punteggio (che dipende da alcune condizioni essenziali ed è incrementabile attraverso altri requisiti) alle aziende che, nel territorio nazionale, raggiungano un fatturato minimo di due milioni di euro e siano iscritte nel registro delle imprese da almeno due anni. Il decreto n. 57/2014 dei ministeri dello Sviluppo economico e dell’Economia e delle Finanze, poi, ha individuato le “modalità in base alle quali si tiene conto del rating di legalità attribuito alle imprese ai fini della concessione di finanziamenti da parte di pubbliche amministrazioni e di accesso al credito bancario”. Quanto ai primi, il rating consente alle imprese che ne siano in possesso almeno una delle seguenti prerogative: preferenza in graduatoria, conferimento di punteggio aggiuntivo, riserva di quota delle risorse finanziarie allocate. Quanto al secondo, le banche tengono conto del rating per la riduzione dei tempi e dei costi dell’istruttoria, nonché per la definizione delle condizioni economiche di erogazione, trasmettendo alla Banca d’Italia una relazione annuale dettagliata sui casi in cui il rating non abbia favorito l’accesso al credito e sulle motivazioni connesse.
PERCHÉ NON HA FUNZIONATO
Il rating sembrerebbe dunque una misura idonea a contrastare l’illegalità e a valorizzare l’etica nella gestione imprenditoriale. Tuttavia, a distanza di circa due anni dalla sua introduzione il numero di aziende che ne hanno richiesto il rilascio è esiguo, Perché? Innanzi tutto, i vincoli del fatturato e del periodo di iscrizione al registro delle imprese ne hanno limitato l’utilizzo, unitamente a una sua pubblicizzazione forse insufficiente. A ciò si aggiunga che l’attuale periodo di crisi e la restrizione dei prestiti concessi dalle banche hanno reso il punteggio non determinante nella valutazione del merito del credito, mentre la carenza di pubbliche risorse ha ridotto la capacità della Pa di concedere finanziamenti. La situazione contingente ha, pertanto, attenuato quel carattere premiale del rating che bilanciava gli oneri necessari al suo ottenimento. Né il ricorso a esso è stato incentivato in modi diversi, come si era tentato di fare (Dl n. 133/2014, il cosiddetto “sblocca Italia”) prevedendo che nell’aggiudicazione di determinati appalti prevalesse l’impresa con il rating più alto. Forse una paventata incompatibilità della disposizione con la direttiva comunitaria in materia (2014/24/UE) ha indotto a rinunciarvi.
Affievolendosi i benefici legati al suo utilizzo, il rating si è svuotato di parte del suo significato e la procedura atta a conseguirlo è rimasta un peso privo di contropartita concreta. Peraltro, l’affastellamento di mezzi volti a contrastare l’illegalità e, al contempo, a valorizzare le imprese estranee ha determinato una sorta di burocrazia degli adempimenti. L’iscrizione all’elenco dell’Agcm si intreccia con quella alle cosiddette white list prefettizie (la cui consultazione a fini antimafia, in dati settori, è stata resa obbligatoria dal Dl n. 90/2014), nonché con l’adesione al Protocollo di legalità tra ministero dell’Interno e Confindustria (riguardante il rispetto di standard etico-giuridici), le quali incidono sul punteggio finale. Ma elementi comuni e, quindi, parziali sovrapposizioni esistono anche tra tali strumenti e l’elenco di merito di cui alla legge regionale dell’Emilia Romagna n. 11/2010 sulla legalità e semplificazione nell’edilizia pubblica e privata e diversi protocolli che sanciscono un “impegno ad assicurare la legalità e la trasparenza nell’esecuzione di un dato contratto pubblico”. È evidente che gli adempimenti volti a comprovare, all’inizio e periodicamente, l’esistenza dei requisiti previsti da ciascun strumento moltiplicano l’aggravio per le imprese.
Le cause della scarso successo del rating appaiono ora più chiare: se i concreti vantaggi derivanti da una gestione imprenditoriale virtuosa si attenuano per motivi contingenti e non vengono altrimenti implementati, mentre gli oneri si sovrappongono ad altri finalizzati ad acquisire eventuali benefici diversi, all’operatore economico non tornano i conti. La quantità dei mezzi non garantisce la qualità dei risultati: tra un certo stato di diritto e lo stato confusionale il passo è breve.
Un rating di legalità “complessivo”, che risulti dalla sintesi tra tutti gli strumenti e ne snellisca gli oneri connessi, congiuntamente a un più ampio ventaglio di opportunità premiali che si risolvano in vantaggi economici concreti (analoghi, ad esempio, alla riduzione del premio assicurativo Inail spettante alle aziende che realizzano interventi di prevenzione per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro) può ridurre la convenienza del ricorso al malaffare, rendendo più attrattivo e più proficuo l’agire etico e legale.
 
* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora

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  1. istituti come il “rating della legalità” non sono altro che una foglia di fico sulla realtà impronunciabile.
    Ovvero, che il nocciolo duro del problema non è nella corruzione o nella criminalità, che sono solo effetti a monte della vera causa… che risiede propriamente nello Stato:
    https://lafilosofiadellatav.wordpress.com/2014/12/05/tempi-e-mafia-capitale-meno-stato-impossibile-casomai-piu-societa-partecipativa/

  2. Davide

    In italia le norme premianti la legalita non funzionano perche da noi il crimine paga e anche bene.

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