Gli attacchi terroristici che hanno colpito la Francia turbano per due motivi: la violenza che sprigionano e il bersaglio verso cui si dirigono. Al primo aspetto i media ci hanno quasi abituati, più difficile (ma questo è positivo) è metabolizzare il secondo. Non si può aggredire un giornale, non si può uccidere chi scrive e chi disegna. Indipendentemente da che cosa scrive e disegna. Su forme e contenuti scelti e praticati da Charlie Hebdo esistono pareri differenti. Nello stesso mondo occidentale, alle immagini “in libertà” (è il caso di dire) della tradizione libertaria alcuni preferiscono l’autocontrollo, ai toni forti l’understatement.

Ma tutto questo è secondario, non c’è bisogno di scomodare Voltaire per sottoscrivere l’impegno irrinunciabile a permettere a chiunque di parlare, anche in un modo che ci disturba. Chi viola questo principio si pone al di fuori del perimetro dei diritti e dei doveri su cui fondiamo la nostra convivenza.
Seppur sconvolgenti nelle forme e negli obiettivi, le azioni del terrorismo islamico non sono inaspettate nella struttura di una situazione che è preoccupante da tempo. Essa ha per oggetto un nodo nevralgico della società contemporanea: la relazione tra identità differenti. Su questo problema nessuna delle due visioni che vanno per la maggiore è convincente. C’è chi ritiene che, in ordine alla domanda cruciale “chi siamo?”, il pianeta non possa che dividersi tra civiltà in competizione tra loro e che, sulla loro linea di confine (o faglie, cone dice Huntington prendendo a prestito il concetto dalla geologia) sia inevitabile il conflitto. C’è chi, invece, ritiene che le differenze tra i popoli siano indotte dall’esterno delle società, da interessi economici e di potere manovrati da ristrette élite privilegiate, senza le quali non vi sarebbero ostacoli a un rapporto integralmente pacifico tra i popoli e tra le nazioni.
Entrambe queste risposte rispecchiano una visione iperpolitica, che ignora le altre dimensioni – sociale, culturale, psicologica – della condizione umana. Non tanto una difficilmente dimostrabile “verità”, bensì un’approssimazione più efficace alla realtà suggerisce di accettare l’esistenza delle differenze come esito del bisogno umano di interpretare il mondo. Questo dato deve essere ri/conosciuto, il che non significa supinamente accettato, bensì sottoposto a un vaglio critico che si snoda in una scala di cogenza che parte dalla ragione e approda alle leggi. Alla legalità, cioè alla regolazione del sistema di diritti/doveri, sono tenuti tutti coloro che condividono una società e un territorio: tanto i cittadini, quanto coloro che non lo sono e aspirano ad esserlo, quanto coloro che, non aspirando ad esserlo, si trovano tuttavia a fruire di una società e di un territorio. Nulla – né costume o tradizione, né pur legittima e rispettata fede religiosa – può esentare alcuno, individuo o gruppo, dall’osservare la legge.
Spinta a ridimensionarsi nell’analisi, logicamente la politica torna in primo piano quando si tratta di prendere le decisioni. Cominciamo dalla politics, la grande politica. I demagoghi del razzismo sono in agitazione, galvanizzati dalle praterie elettorali che gli si aprono davanti. Nella diagnosi dicono di avere ragione loro, l’Islam è irriducibile. Nella terapia hanno le idee chiare: restrizioni alle libertà personali, ai diritti e agli accordi europei sulla libera circolazione delle persone (con il paradosso, oltre tutto, di conseguenze devastanti per l’Italia). Hanno torto su tutta la linea: contro minacce come il terrorismo la prevenzione deve essere sociale, il contrasto (quando la prevenzione si rivela insufficiente) deve essere legale. Lo Stato di diritto non ha bisogno di leggi eccezionali. L’Unione europea e i 28 Paesi che ne fanno parte aderiscono alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assamblea generale delle Nazioni Unite nel 1948. Questo vale anche per i migranti, tanto economici e rifugiati quanto richiedenti asilo. Gli uni e gli altri devono essere tutelati come prevedono le norme internazionali, fondate non soltanto sulla sicurezza degli stati ma anche sulla “sicurezza umana” orientata alle persone. A loro volta, entrando in Italia devono sapere che sottoscrivono un patto consistente nell’accettazione, accanto ai diritti, delle leggi dell’ordinamento nel quale intendono inserirsi. Nel suo Progetto di pace perpetua, Kant rivendicava il “diritto di visita, appartenente a tutti gli uomini, che consiste nel dichiararsi pronti a socializzare in virtù del diritto al possesso comune della superficie” così che lo straniero non venga trattato “ostilmente” dagli ospiti. A una condizione: “finché si comporta in modo pacifico”.
Per quanto riguarda le policy, infine, le questioni da affrontare sono tante ma il principio è elementare: + risparmi = + efficienza (e più efficacia).
Europa: nella graduatoria della spesa per la difesa la U.E. è, con quasi 280 miliardi di dollari, la seconda superpotenza mondiale, precedendo la Cina di 100 miliardi e la Russia di 200. Peccato che questa astronomica cifra sia frammentata tra 28 stati con ridondanze assurde e sovrapposizione nocive.
Italia: che fine ha fatto l’impegno di Renzi, preso alle primarie per la segreteria PD del 2013, di portare i Corpi di polizia da cinque a due, fondendo Forestale e Penitenziaria con la Polizia di Stato e Finanza con i Carabinieri?
Fabrizio Battistelli, professore ordinario di Sociologia presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

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